TITOLOFreelancer.comfreelancer

 

 

COSEIl panorama lavorativo attuale è sempre più eterogeneo, cangiante, molteplice. I contratti di lavoro e le tipologie di assunzione sono differenti rispetto al passato. Sicuramente il web, internet, i social network rispecchiano le mutate condizioni di assunzione e cercano di andarvi incontro. Freelance.com risponde alle nuove richieste del settore professionale e offre opportunità e convenienza sia per chi offre lavoro, sia per chi lo cerca. Si tratta, infatti, di una piattaforma per chi cerca attività da freelancer, o per chi gestisce una piccola impresa, non ha le risorse sufficienti per assumere una figura a tempo pieno, e preferisce appoggiarsi su una figura esterna che svolga un lavoro temporaneo. Freelancer.com si definisce, infatti, “il più grande mercato al mondo di freelancing, esternalizzazione e crowdsourcing per le piccole imprese”.

 

COME
Freelancer.com funziona un po’ come un social. Ci si iscrive, agganciandosi all’email o al profilo Facebook, e si comincia scegliendo il proprio “ruolo” all’interno del meccanismo: freelancer o datore di lavoro? Se si cerca impiego è necessario indicare le proprie abilità (più o meno come su LinkedIn) e si può caricare il proprio curriculum. Una volta completato il profilo, si può cercare l’attività per la quale si è più adatti e fare un’offerta al datore di lavoro, inviando le proprie referenze e indicando il costo del proprio incarico all’ora. Se si riesce a convincere il futuro “capo”, si è assunti e una percentuale del guadagno ricevuto va al sito. Un processo più o meno speculare avviene se, invece, si cerca “personale” da assumere. E’ possibile caricare il proprio progetto oppure si può ricercare la figura adatta indicando tutte le caratteristiche necessarie ad una determinata mansione. Anche in questo caso, parte del guadagno dell’intero progetto (un 3%) va al sito.

 

proE’ un modo intelligente per trovare lavori part-time, da svolgere da casa, o svariate opportunità in tutto il mondo.

 

 

CONTROPer capire bene come funziona il tutto bisogna avere un po’ di pazienza e “studiarci un po’ su”. Lo stesso vale al momento della ricerca del lavoro o dei lavoratori: bisogna capire la strategia giusta per essere assunti o per assumere la persona più adatta.

 

SEGNI PARTICOLARIPer i freelancer, è possibile svolgere anche degli esami per dare prova delle proprie abilità. Si tratta di veri e propri test, in genere rapidi, che servono per primeggiare agli occhi dei possibili futuri datori di lavoro.

 

 

CONSIGLIATO AChi è in cerca di un lavoro, ai fantasiosi del mercato delle assunzioni, a chi non ama spostarsi per lavorare, a chi ha un’impresa, una start up, un lavoro da voler o dover assegnare a terzi.

 

 

INFO UTILIhttps://www.freelancer.com

TITOLOCambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatoricambiamotutto

 

 

COSE“Innovazione” è un termine spesso inflazionato, usato molto di frequente all’interno del vocabolario odierno. Nel saggio Cambiamo tutto! “innovazione” è una parola usata con cautela, e collegata principalmente ad uno strumento che si offre a coloro che non vogliono restare con le mani in mano di fronte alla crisi: internet. Il World Wilde Web viene indicato come la causa della “terza rivoluzione industriale” che stiamo vivendo; è  il luogo in cui le cose accadono, il banco di prova per eccellenza per coloro che credono che nella vita si va avanti con il merito e con le intuizioni. Il lavoro non va più cercato, va creato, e internet – rete immensa di persone, non di computer – è lo strumento più democratico per dare vita a una società globale che si basi su “la trasparenza, la collaborazione, la partecipazione”. L’autore accredita questa tesi presentando esempi di start up, imprese o semplici individui che partiti da un’idea astratta, l’hanno perseguita e sviluppata, fino a farne un business di successo.

 

COMEIl saggio si snoda in una serie di capitoli che esplorano, con freschezza e curiosità, testimonianze concrete di come il web sia davvero la chiave per una rivoluzione positiva non solo per la vita quotidiana del singolo, ma anche per la società, la politica, la scienza, l’istruzione.
Sono storie modernissime, come quella di Vito Lomese, un giovane pugliese che ha creato il motore di ricerca globale per il lavoro, Jobrapido; o più datate, come quella del team di Perotto della Olivetti che nel 1964 presentò all’Esposizione Universale di New York, il primo “computer fai-da-te”, quando ancora l’affermazione “vedremo un computer su ogni scrivania prima di vedere due macchine in ogni garage”, sembrava una profezia strampalata. Si parla anche di idee attualissime che oggi ci sembrano assurde e ci fanno sorridere, ma che un giorno, chissà, forse avranno costituito il primo passo verso un’altra rivoluzione epocale. È il caso, ad esempio, delle stampanti 3D e della intuizione di un certo Enrico Dini di utilizzarne una versione gigante per costruire case: il rapid building. Staremo a vedere…

 

proNon è il solito manuale che ti consiglia come uscire dalla crisi con una brillante idea geniale che per magia ti renderà il nuovo Zio Paperone. È una collezione di storie reali, effettivamente accadute a gente normale, a italiani. È un saggio che serve all’Italia, un paese spesso troppo radicato in convenzioni e schemi desueti e timorosi, un paese che ha bisogno di aprirsi al nuovo con coraggio, freschezza e convinzione, preferibilmente col supporto delle istituzioni che ci governano.

 

CONTRO“Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” e le idee geniali, purtroppo, non nascono tutti i giorni sul davanzale delle nostre finestre. Gli esempi di successi sono tanti, ma per riuscire bisogna perseverare molto e non arrendersi al comparire dei primi ostacoli

 

SEGNI PARTICOLARIRiccardo Luna, l’autore del libro, giornalista di Repubblica, direttore delle riviste Campus, Romanista e Wired, ha candidato Internet nel 2010 al premio Nobel per la Pace, e ha fondato Wikitalia, associazione che promuove la partecipazione e la trasparenza politica in Italia, attraverso la rete. Per Cambiamo tutto! ha creato un sito in cui interagire con i lettori, dando vita a un libro “in progress”, che permetta di partecipare al progetto di una “rivoluzione dell’innovazione”.

 

CONSIGLIATO AChi è in cerca di ispirazione per un’idea innovativa. Chi è pessimista e vuole smettere di esserlo. Chi è ottimista (con raziocinio) e vuole una conferma alle sue convinzioni.

 

INFO UTILICambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori di Riccardo Luna, Laterza 2013, 14 euro.

Per una volta non sono stati gli atenei italiani ad analizzare, esaminare, valutare. Il maestro si è trasformato in scolaro e le 133 strutture sparse sul territorio italiano, tra università ed enti di ricerca, sono state oggetto di indagine da parte dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione, nata nel 2006. Ci sono voluti 20 mesi perché 14.770 revisori concludessero la monumentale opera di valutazione che per la prima volta ha messo sotto esame la produttività della ricerca degli atenei italiani (progetto VQR).

Sono state considerate 14 aree scientifiche e per ogni struttura sono stati tenuti in conto 7 indicatori che si riferiscono a fattori come la qualità della ricerca, la capacità di attrarre risorse o l’internazionalizzazione; e altri 8 indicatori relativi, invece, alla capacità di relazione, connessione e valorizzazione del contesto socio-economico.

Per quanto riguarda i 95 atenei italiani, è stata fatta una distinzione in base a grandi, medie, piccole università e la posizione di ciascun ateneo in graduatoria è stato determinato da un valore medio tra tutte le aree considerate. Ai primi posti tra le grandi università figurano: Padova, Milano Bicocca, Verona, Bologna, Pavia. Le prime 5 classificate delle medie università sono state: Trento, Bolzano, Ferrara, Milano San Raffaele, Piemonte Orientale e Venezia Ca’ Foscari. Infine, tra gli atenei più piccoli, spiccano Pisa Sant’Anna, Pisa Normale, Roma Luiss, Trieste Sissa, Roma Biomedico. Se si considerano, invece, le classifiche “tematiche”, per le Scienze matematiche e informatiche abbiamo nell’ordine: Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Pisa. Per le Scienze economiche e statistiche: Padova, Milano Bocconi, Bologna. Per le Scienze dell’antichità, letterarie, artistiche: Padova, Milano Politecnico e Bologna. Per le Scienze giuridiche: Trento, Padova, Verona.

Come si può ben notare, la vittoria degli atenei del nord su quelli del sud e del centro è quasi schiacciante. Roma La Sapienza, nella classifica generale, è solo al 22° posto e il consiglio nazionale delle ricerche, il CNR, è risultato il grande assente dalle classifiche Anvur. Le Università di Catania e Palermo sono al 30° e al 31° posto, Bari e Cagliari al 26° e 27° posto, mentre risalgono un po’ la china solo Catanzaro, Napoli e Salerno che si attestano più o meno a metà classifica.

Alla luce di ciò, non sono mancate le polemiche, specialmente se si considera che tra i 6,69 miliardi di euro che il Miur ha stanziato per la ricerca nelle università, 540 milioni, cioè il 7%, dovrebbero essere distribuiti in base al merito, ovvero proprio in base ai risultati di questa ricerca. Il Cnr, ad esempio, si giustifica sostenendo che il centro privilegia i rapporti con il mondo delle aziende e l’interdisciplinarità, mentre la valutazione dell’Anvur ha messo in luce gli atenei che si occupano principalmente di ricerca pura. C’è anche da dire, poi, che l’indagine è stata compiuta per gli anni dal 2004 al 2010, escludendo per forza di cose, risultati importanti come quello dell’Istituto nazionale di fisica nucleare che nel 2012 è stato coinvolto nella scoperta del bosone di Higgs.

Certo è che si tratta di un momento significativo e importante per l’università e la ricerca italiana. Il fatto che si parli di questi due settori, a lungo ignorati o deprecati, e che si investano 10 milioni di euro per istituire un agenzia (l’Anvur appunto) che ne monitori lo stato di salute, è sicuramente un passo avanti positivo. Forse il passo successivo, quello di stanziare parte di fondi in base ai risultati di questa classifica, necessita di un altro po’ di rodaggio per essere effettuato. Bisognerebbe prima capire tutte le sfaccettature della ricerca, delle sue applicazioni e della sua produttività. E magari evitare il rischio di affondare ancora di più quegli atenei che sono già in fondo alle classifiche, e che, pur non essendo prestigiosi, garantiscono però una distribuzione democratica dell’accesso al sapere nel nostro Paese.

D’altra parte persino dall’Anvur giunge la necessità di cautela nell’applicare ai risultati della ricerca una distribuzione delle risorse, nonostante l’esito incoraggiante e positivo del loro lavoro: “crediamo che la VQR dispiegherà i suoi effetti benefici nei mesi e negli anni a venire se i suoi risultati saranno studiati nel dettaglio e analizzati con attenzione, e utilizzati dagli organi di governo delle strutture per avviare azioni conseguenti di miglioramento. Un segnale incoraggiante è lo spirito di grande interesse e collaborazione con l’ANVUR delle strutture valutate, per le quali la VQR ha richiesto lavoro e impegno in un momento di grande trasformazione e difficoltà (in particolare per le università)”.

Se provate a cercare su Google le parole Karibu Village saranno due i primi risultati che vi compariranno: un villaggio turistico a cinque stelle con tutti i confort necessari per passare una vacanza da sogno; un altro villaggio, quello originario dove vivono gli abitanti autoctoni.
Chakama è un paesino a cinquanta chilometri dai maggiori resort di lusso di Malindi nella costa del Kenya, stato al centro del continente africano. In questo piccolo appezzamento di terra vivono 2.500 persone ed è qui che è nato il progetto di volontariato Karibu Chakama, che si prefigge la realizzazione di tutte le strutture necessarie per rendere il villaggio autosufficiente dal punto di vista economico e sociale. Un piano vasto e complesso, partito nel 2008 in cui sono compresi la costruzione di diverse strutture ed edifici, come le scuole, il pronto soccorso, la fattoria, il centro di formazione ed istruzione, i dormitori, ma che prevede, inoltre, l’attivazione di percorsi di istruzione e didattica per far sì che la comunità al suo interno raggiunga l’autonomia alimentare ed economica. Costruire in loco ma soprattutto formare in loco, per non rendere i frutti del progetto sterili e dipendenti dall’intervento esterno. Far crescere un villaggio in modo tale che riesca a fare affidamento sulle proprie potenzialità.
I corsi che vengono impartiti infatti sono di natura sia teorica che pratica: materie necessarie come falegnameria, sartoria, cucina, orto botanica, musica, tutte attitudini e manualità artigianali che nel mondo occidentale vengono sottovalutate e che si stanno perdendo, ma che in realtà rappresentano le basi fondamentali per la sopravvivenza quotidiana, in una società rurale. Alcune strutture come la casa dei maestri sono state completate, ma la maggior parte sono in fase di costruzione: l’investimento totale per portare a termine l’intero progetto è di 300 mila euro, ma oltre ai fondi quello di cui necessitano nell’associazione Karibu onlus che ha dato i natali all’iniziativa, è l’arruolamento di volontari decisi a recarsi sul posto o sostenitori che decidano di contribuire anche i minima parte. Proprio nel mese di gennaio, infatti, è partite l’iniziativa “Chakama nel cuore” la onlus è alla ricerca di nuovi gruppi che collaborino attivamente ai progetti. Tutte le informazioni sulle modalità per prendere parte al programma sono presenti nel sito, dove troverete anche tutti gli aggiornamenti su come evolve la fabbricazione del villaggio, chi sono gli abitanti, i bambini da adottare nell’orfanotrofio e dove potrete leggere le testimonianze dei volontari.
Per scoprire l’immensa ricchezza di questo continente, l’Africa, definito tra i più poveri del globo e che invece potrete scoprire tra i più ricchi, in particolar modo di sorrisi e positività, quei beni intangibili ed immateriali che in alcuni casi valgono più dei soldi.

Skillshare

 

 

 una piattaforma online in cui tutti gli utenti di internet possono partecipare a lezioni e seminari di formazione organizzati da docenti e professionisti. Registrandovi all’interno della community, entrerete a far parte di una classe multimediale a vostra scelta e potrete seguire ogni corso a prescindere dal luogo in cui vi troviate o da dove si trovi il vostro insegnante. Un modo innovativo di sfruttare il web per la formazione e ampliare le vostre conoscenze.

 

corsi di cucina, di pittura, scrittura, business e di tecnologia: le materie spaziano dal pratico alla teoria. L’homepage del sito è divisa in due parti: nella prima sono elencate le classi che hanno iniziato la propria attività e cui si può aderire, mentre nella seconda si trovano le foto dei progetti realizzati alla fine dei corsi che si sono conclusi, così da poter vedere il risultato finale degli insegnamenti impartiti.

 

internet è riuscito ad abbattere i confini tra culture e paesi lontani, mettendo in comunicazione in tempo reale persone a chilometri di distanza: riuscire a sfruttare le sue potenzialità per fini didattici dovrebbe essere una delle priorità. Skillshare sembra proprio essere in linea con questa prospettiva e non è escluso che il progetto possa ben presto divenire un modello da seguire anche per la formazione accademica ed essere adottato dalle più note università nel mondo.

 

 unico punto debole potrebbe rivelarsi la selezione degli insegnanti. Non è chiaro se per essere arruolati si debba passare una selezione attraverso la quale vengano vagliate sia le competenze individuali che il valore del progetto proposto. Questa rappresenta una variabile importante per la qualità dei contenuti e degli insegnamenti ricevuti.
l’intero sito e tutti gli insegnamenti vengono impartiti rigorosamente in inglese. Pertanto è necessario possederne una buona conoscenza prima di prendere parte ad un corso.

 

 tutti coloro che seguono il precetto “nella vita non si finisce mai di imparare”

 

 http://www.skillshare.com/

In un mercato del lavoro competitivo come quello attuale, la maggiore difficoltà è quella di riuscire a distinguersi per il livello di preparazione e professionalità. Obiettivo è cercare di apprendere le nozioni base per accedere al mondo del lavoro, ma a tal fine la carriera universitaria non è sufficiente: è necessario acquisire le competenze tecniche e manageriali, che consentano di rendere il proprio profilo professionale interessante per le aziende del settore in cui si intende operare, soprattutto in comparti come quello dei beni culturali in cui è difficoltoso trovare un orientamento preciso e delineato per quanto attiene gli sbocchi lavorativi.
In questo panorama aiuta a fare chiarezza un corso strutturato dai contenuti che coniughino le lacune teoriche ad incisive esercitazioni pratiche. Per rispondere a queste esigenze il Sole 24 Ore ha attivato un master di primo livello in Economia e Management dell’Arte e dei Beni Culturali che condensa in dieci mesi, in modalità full time, tutte le nozioni fondamentali per operare nel comparto della cultura, al fine di formarsi per avere accesso sia all’interno di istituzioni pubbliche che realtà private.
Il master in programma sia a Roma che a Milano ( a Roma avrà inizio il 26 novembre 2012, mentre Milano il 20 maggio 2013), grazie ad un corpo docente proveniente dalle strutture accademiche e giornalistiche del gruppo Sole 24 Ore e personalità facenti capo a fondazioni, case d’asta ed esperti del settore, si articola in un percorso completo ed esaustivo. Tra le tematiche affrontante sono previste nozioni di economia applicate al mercato dell’arte e delle acquisizioni, storia e struttura del mercato dell’arte, collezionismo ed investimenti nel settore, aspetti gestionali delle realtà museali, management di mostre o di eventi culturali, marketing dei beni culturali, strategie di comunicazione del prodotto culturale, legislazione e multimedialità dei beni artistici, fund raising e project financing del settore.

Questi alcuni degli argomenti che verranno affrontati nelle 120 giornate di lezione previste in aula, che saranno affiancate da frequenti verifiche periodiche, visite in musei, case d’asta e gallerie e da uno study tour a Bologna presso Arte Fiera, la più importante rassegna di arte contemporanea. Il periodo di preparazione si concluderà con quattro mesi di stage in alcune delle istituzioni più rappresentative del mondo dell’arte sul piano nazionale ed internazionale: case d’asta, fondazioni, istituzioni culturali profit e no profit, gallerie d’arte, banche che investono nel settore culturale, enti di cooperazione internazionale, media, restauratori e società di organizzazione eventi. Un percorso che assicura al termine dunque una professionalità adeguata per entrare nella rete dell’arte, settore che in Italia comprende 3.800 musei e 1.800 siti archeologici, che assieme ogni anno produce 167 miliardi di euro, dando lavoro a 3,8 milioni di persone.

Dati e numeri destinati a salire, perché secondo le stime del Governo tecnico, il settore dei beni culturali entro il 2020 arriverà a coprire una produttività e ricchezza pari al 20% di Pil nazionale. Un motivo in più per non farsi trovare impreparati.

 

Per approfondimenti:
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Consulta il sito

 

Manuale di giornalismo

 

 “Manuale di giornalismo” è il testo di base per la formazione di giovani giornalisti e professionisti del settore che supera il modello dei manuali tradizionali. Completamente improntato sulle nuove frontiere tecnologiche del giornalismo web2.0, il testo fornisce in maniera schematica ma approfondita tutti gli strumenti per una professione in continua evoluzione e riesce in tal modo a trasmettere perfettamente la traccia da seguire per diventare un giornalista dei nostri giorni, non più settoriale bensì dinamico ed interattivo.

 

sebbene la suddivisione dei capitoli segua la scaletta tradizionale dei manuali del settore, le pagine sono ripartite in modo tale da mettere in risalto la sezione dedicata al giornalismo on-line e all’evoluzione del quotidiano dalla forma cartacea a quella virtuale. Dopo un breve accenno alla storia del giornalismo, in cui vengono ripercorse le tappe più significative, seguono i capitoli tecnici sulla notizia e la titolazione: la dottrina viene abilmente affiancata da numerosi estratti e porzioni di articoli come esemplificazione di quanto accennato nella teoria. La scelta è sicuramente dovuta alla propensione degli autori per l’attività pratica rispetto a quella accademica a cui il giornalismo italiano è sempre stato maggiormente legato.

 

 Uno strumento pratico grazie alla trattazione schematica dei numerosi argomenti. Spesso le sezioni sono affrontate in maniera sintetica e ogni materia è trattata in un paragrafo dedicato. Questa struttura permette pertanto sia una lettura continua e scorrevole del manuale ma anche al contempo una mirata, cercando direttamente la materia di nostro interesse. Sono molti anche i riquadri di approfondimento presenti nei diversi capitoli. In particolare nella sezione di giornalismo on-line una tabella è dedicata all’innovativo strumento “Storify”, ampiamente usato dalle riviste presenti sul web.

 

 la struttura analitica ma allo stesso tempo ben suddivisa, insieme ai numerosi esempi pratici ed estratti riportati ( tratti non solo da quotidiani italiani ma anche stranieri e sicuramente in numero maggiore rispetto a quelli riportati in altri manuali del settore) lo rende uno strumento aggiornato ed utile per i corrispondenti e redattori di oggi al fine di coadiuvarli nel confronto quotidiano con un mestiere in continua evoluzione.

 

 l’unica sezione che probabilmente necessitava maggiore attenzione è quella relativa la deontologia professionale. Trattandosi di una questione molto delicata per questo mestiere avrebbe dovuto essere più estesa, riportando all’interno tutte le norme legislative con una sintetica spiegazione. In tal modo il manuale sarebbe stato completo e avrebbe agevolato il professionista senza rimandarlo ad ulteriori testi propriamente legislativi. Di queste norme è disponibile solo un elenco a fine capitolo.

 

tutti i ragazzi che si affacciano alla professione, soprattutto a coloro che stanno imparando “sul campo” questo mestiere, ma anche ai professionisti veri e propri per affrontare le nuove metodologie di una carriera che forse sopravvivrà solo sul web.

 

Manuale di Giornalismo

di Alessandro Barbano, vicedirettore de Il Messaggero e Vincenzo Sassu, giornalista freelance.

Editori Laterza, 22 euro

ISBN 9788842098980

 

Si sono ridotte drasticamente da 25 ad 11mila le domande di riscatto degli anni di laurea ai fini del calcolo pensionistico presentate all’Inps nel 2011. La causa scatenante di questo trend negativo, secondo il presidente dell’istituto nazionale di previdenza sociale, Antonio Mastarpasqua, sarebbe stata l’intenzione manifestata da parte del governo lo scorso agosto di non prendere più in considerazione gli anni riscattati per anticipare la pensione. Dichiarazioni che avevano certamente creato confusione e sconforto in quanti avevano temuto di veder sfumare non solo l’uscita dal mondo del lavoro, ma anche i soldi investiti per raggiungere anticipatamente questo traguardo.

A questa preoccupazione si era aggiunta, inoltre, la demoralizzazione di non vedersi riconosciuti anni di sacrifici passati sui libri e di sentirsi considerati “da meno” rispetto a tutti coloro che i sacrifici invece li hanno vissuti parallelamente nel mondo del lavoro.

Per quanto questo paventato rischio non si sia infine concretizzato, indubbiamente ha influito notevolmente sul calo delle domande di riscatto. Tuttavia una tale flessione che ha raggiunto un trend negativo del 55% non può avere un’unica giustificazione.

Riscattare la laurea innanzitutto è un costo, spesso molto elevato. Prima si avviano le pratiche e meno onerose sono le somme che bisogna versare all’istituto di previdenza ( la cifra può essere inoltre rateizzata senza interessi aggiuntivi e può essere detratta dal reddito). A secondo che vengano avviate da neolaureati o da neo assunti nel modo del lavoro, le pratiche per il riscatto prevedono un minimo di cinquemila euro da versare per ogni anno riscattato: pertanto, per una laurea specialistica di cinque anni la spesa totale ammonterebbe a venticinquemila euro. Una cifra cospicua a cui non viene più associata la garanzia di una pensione altrettanto remunerativa. I giovani che si affacciano oggi nel mondo del lavoro sono consapevoli, infatti, non solo dell’assenza di tutele contrattuali, ma anche di una incertezza generalizzata per le proprie prospettive future: la pensione viene considerata un traguardo decisamente aleatorio e non sufficiente a coprire le esigenze minime della vita quotidiana. Quanti ragazzi temono che i contributi versati non verranno mai corrisposti o che l’uscita dal mondo del lavoro venga ritardata a tal punto da sembrare quasi irraggiungibile?

Sul sito dell’Inps è disponibile una tabella in cui sono riportate le cifre esemplificative dei costi complessivi, sicuramente non incoraggianti in un momento come questo in cui le prospettive future dei giovani non sono rassicuranti.

La sfiducia generalizzata nell’investimento negli studi universitari per raggiungere un livello occupazionale superiore è legata anche al valore legale del titolo universitario. Il dibattito in merito si è riacceso all’inizio di quest’anno quando l’attuale governo tecnico ha deciso di riportare in auge una passata diatriba che attiene non solo la qualità e il livello giuridico del cosiddetto “pezzo di carta”, bensì l’intero sistema di valutazione e di classificazione delle università italiane.

Si concluderà proprio oggi la consultazione pubblica avviata dal Miur per il valore legale del titolo di studio. E in attesa dei risultati definitivi, le prime anticipazioni non sembrano lasciare spazio a dubbi. La maggioranza degli utenti che ha partecipato al sondaggio ritiene che il titolo di studio rappresenti ancora un “valore aggiunto” per l’ingresso nel mondo del lavoro, in particolar modo per l’accesso nell’ambito della pubblica amministrazione. In questi anni, infatti, si sono scontrati sulla questione due opposti schieramenti: da un lato chi continua a difendere lo status del titolo di studio universitario e il suo peso per l’accesso ai concorsi pubblici; dall’altro invece chi ne chiede l’abolizione, rimarcando lo scarso criterio oggettivo nella valutazione di tali titoli, a causa della mancanza di un controllo di qualità altrettanto oggettivo per le università italiane. In sostanza, viene messa in dubbio l’uguaglianza e l’equiparazione delle lauree conferite dagli ottanta atenei italiani abilitati. Questo livellamento indiscriminato per l’ingresso nei concorsi pubblici non incentiverebbe le università ad investire nelle docenze di qualità, né sarebbe utile per le famiglie nella selezione degli istituti maggiormente formativi e utili per l’ingresso nel mondo del lavoro. Tuttavia è necessario considerare le conseguenze di questo annullamento generale del titolo: qualora non vi fosse alcuna differenza tra diploma e laurea, il giovane intenzionato a proseguire gli studi verrebbe demotivato nel proseguire la propria formazione. Inoltre, sebbene non ci sia un criterio di valutazione oggettivo per la classificazione degli atenei, bisogna riconoscere che il livello di preparazione fornito dalle università italiane sia nettamente superiore a quello europeo. A confermare questo dato sono i numerosi giovani italiani che, grazie alla propria preparazione, riescono con facilità a trovare il lavoro per il quale hanno studiato all’estero, proprio in ragione delle competenze acquisite in patria.

Queste considerazioni dovrebbero far riflettere: probabilmente il problema non consiste nell’abolizione o meno del valore legale, bensì nella espulsione dall’elenco delle università abilitate di tutti quegli istituti che ne abbassano il livello qualitativo. Nel momento in cui il titolo di laurea perdesse il suo valore, accanto alla sfiducia e al calo dei riscatti degli anni universitari per il calcolo pensionistico, quale incoraggiamento avrebbero i giovani nel proseguire la propria formazione?

 

 

Qualcuno di voi ha letto “Carta Straccia” di Giampaolo Pansa? Ripercorrendo la sua vita e i suoi primi anni di carriera, il celebre giornalista piemontese ci racconta come ha imparato il “mestiere più bello del mondo” con la determinazione e con l’impegno quotidiano, sul campo e sulla strada costruendo faticosamente quell’esperienza, la sensibilità nel saper riconoscere la notizia, la fredda capacità nel valutare le persone che hai davanti. Nel leggere i suoi racconti di gioventù, un qualsiasi ragazzo odierno, dotato della stessa grinta e della stessa passione, proverà un po’ d’invidia. Perché i giovani d’oggi che hanno il sogno di documentare la storia scendendo nelle strade cittadine dove si manifesta, nelle piazze dove imperversano bombe e combattimenti, nelle zone dove si sono abbattute calamità naturali, nelle altrettanto infuocate sedute dei mercati finanziari, un giovane che oggi sente che il suo destino è quello di diventare giornalista, probabilmente non avrà mai la stessa fortuna avuta da Pansa di potersi confrontare con la sua passione.
Quello del giornalista è un mestiere duro, che non si improvvisa: banalmente si può definire una vocazione a cui bisogna unire una forte etica personale e una profonda dedizione quotidiana e soprattutto studio di quello che ogni volta si sta trattando. Quello del giornalista oggi è un mestiere chimera il cui iter professionale è ben lontano da quello che ha vissuto Pansa nel dopoguerra.
Negli ultimi vent’anni l’accesso alla professione è stato talmente regolamentato e burocratizzato che si è giunti ad una situazione in cui ben pochi vivono di questo mestiere: la divisione tra albo dei pubblicisti e professionisti ha portato ad una precarizzazione estesa della professione con numeri che parlano ad oggi di 19.000 contrattualizzati a fronte di 24.000 di lavoratori autonomi molti dei quali sottopagati. L’ultima denuncia della situazione di sfruttamento in cui vivono la maggior parte di giovani e meno giovani giornalisti italiani è stata portata ultimamente alle cronache dal collettivo “Errori di Stampa” che ha pubblicato il primo censimento informale (non avendo ricevuto risposte ufficiali da tutte le redazioni che hanno contattato, hanno deciso di basarsi su informazioni reperite tramite  i contatti personali all’interno dell’ambiente) dei precari sottopagati autonomi di Roma. Una situazione ben conosciuta da tempo, ma di cui ben poco si è parlato in precedenza, che va avanti da vent’anni e le cui conseguenze stanno degenerando negli ultimi tempi, portando all’esasperazione quell’esercito di autonomi del settore che, nonostante gli sforzi quotidiani, non riescono ad ottenere né soldi né un contratto regolare che gli consenta una vita dignitosa.
Arrivati ad un punto di non ritorno, in cui la divisione tra chi in questo campo ha un contratto ed è tutelato e le leve di nuova generazione che invece fa parte di un esercito invisibile, ma che è fondamentale per mandare avanti il mondo dell’editoria, il nuovo esecutivo ha deciso di inserire anche l’Ordine dei giornalisti all’interno della riforma delle professioni e di modificare così anche l’accesso all’albo. Se ne parla dall’inizio dell’anno ma ad oggi ancora non ci sono indicazioni chiare né da parte dell’Ordine stesso né dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana, il sindacato dei giornalisti.

Sino ad oggi sono state due le strade che disciplinavano la professione:
1) frequentare master biennale in una scuola riconosciuta dall’Ordine i cui costi da sostenere non sono tollerabili per tutti ( si parte da un minimo di 10 ad un massimo di 20 mila euro a seconda della scuola scelta a biennio). Si tratta di due anni in cui si riceve una buona formazione professionale, a cui spesso però non segue una collocazione adeguata nel mondo reale. In un sistema saturo come questo infatti, la scuola viene considerata dalla maggior parte dei ragazzi come la possibilità di usufruire, pagando, di una via privilegiata per accedere alle grandi testate più facilmente. Solo dopo i due anni si rendono conto che invece non è propriamente così. Superato o meno l’esame di stato si apre anche per loro, quando riescono a trovare qualcosa, il capitolo dei contratti a progetto, delle partite Iva oppure, come i loro colleghi pubblicisti, si trovano davanti alla disoccupazione e alla decisione di cambiare completamente strada dopo l’impegno e i soldi spesi. Perché come i ragazzi ben sanno, la scuola dà la possibilità di fare degli stage ( gratuiti ma convenzionati e in regola) a cui la maggior parte delle volte non segue un assorbimento nella redazione.
2) Se invece si decide di “farsi sul campo”, come hanno fatto tutti i grandi giornalisti del passato, la situazione è ancora più frustante. Le spese sostenute per le attrezzature e per gli spostamenti non vengono rimborsate e dopo ore passate in strada armati di taccuino e macchina fotografica, i pezzi inviati in  redazione vengono pagati pochi euro e spesso in ritardo. Quindi risulta quasi impossibile raggiungere i 5.000 euro da fatturare in due anni per accedere all’esame. La maggioranza dei pubblicisti raggiunge il numero degli ottanta articoli previsti, nel giro di un paio di mesi, ma sono in ogni caso costretti ad aspettare i ventiquattro mesi obbligatori e sperare di riuscire ad incassare i 5.000 euro richiesti. Questo quando si procede per vie corrette, perché spesso per ovviare al problema delle retribuzioni, che arrivano in ritardo e sono insufficienti, la maggior parte dei ragazzi versa di tasca propria i pagamenti richiesti.

Per adesso sull’argomento riforma dell’Ordine regna la confusione più totale e nessuno è in grado di dare risposte precise su come bisognerà regolarsi per l’iter professionale in futuro. Dopo un’iniziale ipotesi di eliminare del tutto l’albo dei pubblicisti che ha infiammato i blog del settore nel corso delle vacanze di Natale, tuttora non si hanno notizie su come saranno riviste le regole dell’accesso. Quanti di voi hanno provato a chiamare l’Ordine o la FNSI per avere delucidazioni in merito ed è stato rimandato a mille contatti diversi senza ottenere alcuna risposta chiara? Quanti di voi hanno chiamato il corrispettivo ordine regionale per sostenere l’esame da pubblicista e si è sentito rispondere che per adesso è tutto bloccato in attesa di nuove disposizioni?
E se le istituzioni tacciono – e chissà se riusciremo a sapere qualcosa di ufficiale prima del prossimo agosto 2012- le uniche poche notizie informali che si riescono ad ottenere sono quelle dei blog attivi sul web.
Come la proposta di vincolare i finanziamenti pubblici alle sole testate che hanno al loro interno giornalisti con un contratto regolare (si tratta di una proposta di legge in discussione in parlamento già stata approvata dalla Commissione Cultura della Camera e che attende solo il via libera del governo Monti per divenire legge effettiva), che a giudicare dal censimento di “Errori di Stampa” sarebbero davvero poche. Oppure quella di regolamentare l’accesso alla professione equiparando la laurea in giornalismo in qualsiasi università agli attuali master biennali, con il rischio per l’Ordine di veder diminuire le iscrizioni presso le scuole riconosciute.
Forse la via più idonea e adatta a superare l’empasse in cui ci siamo imbattuti, sarebbe quella di adeguare la professione giornalistica alle normative europee. Nei paesi dell’Unione infatti non esiste alcun Ordine e l’accesso alla professione è regolamentato dalla capacità, iniziativa, l’esperienza sul campo, serietà nel fare il proprio lavoro e correttezze nel trasmettere le notizie ai lettori. La questione della riforma professionale sfocia quindi anche sulla ragion d’essere stessa dell’Ordine. Il fulcro è la funzionalità o meno di questa istituzione, che dovrebbe avere una vera e propria funzione di controllo, che già avrebbe dovuto esercitare nel passato al fine di non degenerare nella situazione attuale, e rivestire un ruolo importante per far sì di avere una nuova generazione di giornalisti che sappiano realmente “informare” e non solo superare esami.

È ormai assodato che le competenze legate al mondo della ricerca hanno assolutamente bisogno di leganti forti con le discipline connesse alla progettazione e all’economia tout court, poiché in assenza di finanziamenti adeguati la strada per sviluppare sogni e progetti è ancora più impervia. Non è sufficiente dunque avere nella testa mille idee, ma bisogna saperle sviluppare nelle varie fasi per poter raggiungere al meglio le mission che ci si è prefissati al momento della progettazione. Progettare quindi – questa è la parola chiave oggi – e avere un occhio alla fantasia e un altro, o forse più d’uno, alla fattibilità e al mondo – perché è davvero un macrocosmo – dei bandi, soprattutto quelli comunitari. Conciliare pertanto l’aspetto creativo con quello più concreto legato alle esigenze di una città, di una regione e delle linee di indirizzo della Comunità Europea.
Prime “istruzioni per l’uso” per i futuri progettisti nel campo specifico della cultura sono state proposte dall’Istituto Luigi Sturzo di Roma – ente morale attivo dal 1951 che si occupa di ricerca e divulgazione sul fronte della sociologia, della politica e della cultura mediante convegni e pubblicazioni e tramite l’attività di un prestigioso archivio e una ricca biblioteca – dal 24 al 27 maggio 2011 in un corso denominato, non a caso, Finanziamenti e project management culturale.
Quattro giornate di lezioni e confronti – guidati da esperti dell’area Formazione e Sviluppo dell’Istituto e da professionisti del settore esterni – intorno a tematiche strettamente attuali che chi intende muoversi nel mondo della cultura oggi non può assolutamente dribblare. L’identikit dei partecipanti? Giovani di belle speranze, provenienti dal mondo della musica, dall’associazionismo culturale, ma non solo, dagli studi di storia dell’arte e, soprattutto, da varie esperienze “sul campo” con un bagaglio ampio di idee e progetti nel cassetto.    
Dopo un primo focus su Politiche e programmi comunitari e nazionali a favore della cultura e sui nuovi scenari del fund raising per lo sviluppo di un territorio, durante le ore di lezione è stato analizzato il programma comunitario Cultura 2007-13 e, successivamente, un case study. Quest’ultimo è stato valutato tenendo conto di tutti gli aspetti richiesti dai formulari europei: innovatività, chiarezza degli obiettivi, fattibilità, creatività e sostenibilità… tutti elementi fondamentali per un buon progetto.
Il corso è proseguito poi con l’analisi degli aspetti che, una volta approvata la proposta da parte della commissione di riferimento, il gruppo di lavoro dovrebbe considerare: strumenti di gestione operativa, organizzazione dei vari step, confronto con le professionalità coinvolte in fase di progettazione – questo è un aspetto fondamentale –, senza dimenticare gli altri elementi basilari per la buona riuscita di un progetto: il piano finanziario e l’offerta economica, e quindi l’ammissibilità dei costi, i concetti di finanziamento e cofinanziamenti e, infine, il piano di comunicazione.
Un mix di teoria e pratica insomma, non sono difatti mancati, soprattutto nell’orbita del confronto tra singoli partecipanti e docenti, esempi concreti – legati a esperienze precedenti o a progetti nel cassetto – che certamente hanno contribuito a un primissimo confronto con questa imprescindibile realtà.

www.euraxess.it è un canale italiano, in lingua inglese, promosso dalla CRUI Foundation, un’organizzazione non-profit creata nell’ottobre del 2001 dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane al fine di promuovere lo sviluppo in ambito accademico, gestendo iniziative atte a supportare l’innovazione nel sistema universitario, in collaborazione con l’Università di Camerino e AREA Science Park. Il progetto è stato concepito per fornire informazioni e assistenza per la mobilità dei ricercatori in entrata e in uscita dall’Italia, fornendo una sorta di guida pratica alla gestione del trasferimento: come trovare un alloggio, la struttura del sistema scolastico, sistemi di supporto alla famiglia come la maternità, il sistema sanitario, corsi di lingua, sistema fiscale. Allo stesso modo il sistema prevede un servizio informativo per i ricercatori italiani intenzionati ad andare all’estero come: le ambasciate, i consolati e le dogane, gli istituti culturali, vademecum per viaggiare in sicurezza e gli uffici di rappresentanza permanente. È inoltre presente una sezione dedicata alle opportunità di lavoro che riporta le posizioni vacanti in ambito accademico, sia in Italia che all’estero, offrendo un dataset funzionale a gestire in modo efficace le pratiche di mobilità accademica. In quest’ottica si inserisce anche la pagina che raccoglie i principali programmi di mobilità connessi all’università: the Fulbright Program, the Marie Curie Actions, Erasmus Mundus Programme, Lifelong Learning Programme.
Il sito fornisce, inoltre, una serie di link diretti ai codici fondanti della regolamentazione della ricerca in Europa come La Carta europea dei ricercatori e il Codice di Condotta per la loro assunzione che tratta dei diritti e doveri del ricercatore ed è finalizzato ad accrescere il livello di occupazione e la qualità delle condizioni di lavoro del settore in Europa.
Oltre alle varie forme di assistenza online, i ricercatori che si spostano in Italia, possono usufruire di una serie di sportelli sparsi sul territorio (sette centri di servizio e otto punti di contatto locali): l’Apre (Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea), il Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e la Fondazione Bruno Kessler, che forniscono servizio di front office anche in 11 atenei Italiani, da Udine a Catania.
Il sito rappresenta dunque un’interessante opportunità per creare un vero e proprio Spazio Europeo della Ricerca, in ottemperanza alla legge 240/10, meglio nota come Riforma Gelmini, che, tra i vari articoli, stabilisce l’obbligo di promozione e pubblicazione della posizione vacante in ambito accademico per posizioni di professore o ricercatore a tempo determinato.

Abiti, location, menu, e tanto altro ancora sono le preoccupazioni che sempre più sposi affidano al wedding planner, professione dalle origini anglosassoni che si sta affermando anche in Italia, dove il nome di Enzo Miccio è garanzia di matrimoni da sogno. A lui abbiamo dunque chiesto di parlarci di questa nuova attività, che sembra riscuotere molto successo.

Può raccontarci brevemente la sua storia professionale? Come è diventato wedding planner?
La mia attività non è del tutto casuale. Fin da ragazzino amavo organizzare feste e ricevere amici in casa. Questa passione mi è stata trasmessa sicuramente dai genitori: la mia è stata sempre una famiglia molto ‘festaiola’. Poi ho organizzato il matrimonio di una mia cara amica e da lì è partito quasi per gioco quella che è diventata la mia professione. Ho dovuto ideare molte cose, proprio perché in passato ancora non esistevano grandi professionisti in questo campo, ma ci si poteva ispirare solo ai modelli americani e anglosassoni. Ho fatto mie molte idee e ho creato uno stile che potesse essere unico per un giorno magico come quello del matrimonio, divenendo un riferimento.
Poi nel 2005 è arrivata la televisione che ha contribuito alla diffusione di questa professione.

Chi sono i suoi clienti tipo?
I clienti sono di diverso genere. Solitamente si tratta di professionisti che hanno poco tempo e vogliono un matrimonio ricercato. In generale si tratta comunque di persone che danno molta importanza all’evento e quindi investono molto in quel giorno. Hanno dunque bisogno di avere alle spalle un consulente che li possa seguire in ogni passo. Ogni persona che si rivolge a me ha comunque aspettative molto importanti e si rivela perciò un cliente molto esigente.

Quale è stata la richiesta più bizzarra che Le hanno rivolto?
Non ho ricevuto richieste bizzarre, poiché i miei matrimoni sono tutti dai toni sobri e comunque eleganti. Si rimane nello stile classico, soprattutto nel rispetto di quanto si sta celebrando. Le cose bizzarre non rientrano proprio nei miei canoni.

In una situazione non proprio rosea per l’economia italiana, come spiega il successo di questa nuova professione? E come quella del mercato che ruota attorno a questo evento?
Diciamo che l’economia legata al matrimonio è quella che ha subito e che tuttora subisce meno la crisi. Nonostante la situazione, la gente si sposa ugualmente, anche se probabilmente facendo più attenzione al portafoglio. Per tante persone il matrimonio è l’evento della vita, quello con la ‘e’ maiuscola, che si attende da anni e non si ha nessuna intenzione di rinunciarvi. Si investe non solo dal punto di vista economico, ma anche emozionale, perciò la crisi può intaccare solo in parte questo settore.
Intorno al mondo del matrimonio esiste poi un vasto universo che dà lavoro a tantissime persone, in diversi ambiti. A questi si è aggiunta poi la professione del wedding planner, consacrato grazie anche alla diffusione mediatica, perché prima di allora questa figura era alquanto poco conosciuta o c’era comunque una certa diffidenza nei suoi confronti. Grazie al programma televisivo è stato chiarito il ruolo svolto dal consulente di matrimoni e in cosa consiste il suo lavoro.

La floristica, la moda, l’artigianato, l’enogastronomia, il galateo, sono solo alcuni dei settori con cui un wedding planner ha a che fare. Che consigli darebbe a chi intende intraprendere tale carriera? C’è un percorso formativo che può indicare?
Ci sono tantissimi corsi nati negli ultimi anni. Io stesso ho intrapreso un programma di approfondimento degli argomenti con il mio corso full immersion di una settimana, ma come il mio ce ne sono molti altri in tutta Italia. C’è da dire però che non si può pensare dopo appena un settimana di essere un wedding planner diplomato: l’esperienza è fondamentale. Alla base deve esserci una buona preparazione personale, che non viene tanto dai banchi di scuola, ma da un’educazione, un background, dal proprio gusto, che non si apprende da nessuna parte. Le doti che deve avere un wedding planner sono molte, tra cui la creatività, che non si può certo imparare: il creativo nasce creativo; si possono affinare i gusti, si può apprendere come abbinare i colori, ma il talento è qualcosa di innato che hai o non hai. Non voglio dire che la formazione non serva, anzi, è importantissima anche per seguire la propria predisposizione.

L’organizzatore di eventi e il wedding planner sono professioni simili. Può dirci in cosa le due figure si differenziano?
C’è un po’ di confusione qui in Italia tra l’organizzatore dell’evento e il designer dell’evento: il primo pianifica, coordina e armonizza tutti i fornitori, mentre il secondo si occupa della creatività e dell’aspetto estetico del matrimonio. In America la distinzione è netta, ma può succedere che le due figure convivano nella stessa persona, come nel mio caso. Io ad esempio nasco come wedding design, sebbene mi occupi anche dell’organizzazione e della logistica insieme alla scenografia, all’allestimento, al table design, alla grafica e a molto altro ancora.

Alcuni Comuni italiani hanno messo a disposizioni luoghi storici e di interesse culturale per celebrare matrimoni. Pensiamo a Verona con il balcone di Giulietta o a Bologna che ha recentemente aperto per le nozze le sale dei musei civici, contribuendo a rinvigorire le casse comunali. Ha mai organizzato un matrimonio all’interno di sale di questo tipo? Tale scelta complica il lavoro del wedding planner o lo facilita? Crede che tali iniziative possano riscontrare esiti positivi? 
Ho già organizzato matrimonio in questo tipo di location, come musei, teatri d’opera e ville di interesse storico. Ci sono molti divieti e restrizioni come i permessi, la sicurezza, gli orari, non si può forare, incollare, inchiodare. Non è possibile in tanti di questi posti utilizzare ad esempio la fiamma, perciò l’utilizzo delle candele non è consentito, limitando l’effetto scenico per la sera, come anche per il catering, non è possibile ricorrere ai fuochi per la cucina. La soddisfazione tuttavia è certamente molta: organizzare un matrimonio nel ridotto di un teatro, tra sale storiche e opere d’arte è sicuramente altamente gratificante.
Ho appena organizzato un grande matrimonio in un palazzo storico di Bologna e questa serata ha contribuito certamente al rilancio dell’edificio. Queste occasioni possono ricordare agli italiani che esiste un patrimonio storico e culturale, ai molti sconosciuto: molti degli invitati bolognesi al matrimonio non conoscevano ad esempio questo palazzo storico della loro città.
I fondi ricavati dalla messa a disposizioni di tali location potrebbero inoltre essere impiegati per il ripristino e il restauro di questi beni.

Lei è attualmente in tv sul canale Real Time, di cui è diventato forse il personaggio di punta. Come è giunto in tv?  Quali potrebbero essere gli sviluppi di questo percorso mediatico?
Sono arrivato in televisione per puro caso. Non nasco certo come personaggio televisivo, sono un professionista che fa matrimoni. Quando Magnolia sei anni fa stava cercando nuovi protagonisti per i suoi format, ha trovato me. A quel punto il professionista è andato in video; il successo del programma televisivo è dato proprio da questo: il pubblico capisce che si tratta di un vero esperto che tramite programmi televisivi come “Wedding Planner” o “Ma come ti vesti?” diffonde un messaggio, anche se in chiave simpatica o ironica, per cui il lavoro dell’organizzare matrimoni è un’attività di grande responsabilità e fatica, oltre che di precisione, molto impegnativa e stressante direi. Si tratta insomma di un professionista che ha la possibilità di mandare in onda il suo lavoro.
Per il momento ho un contratto in esclusiva con la Discovery.

Ha recentemente prestato il suo volto alla campagna pubblicitaria della lista nozze Unieuro. Come nasce questa collaborazione? Ritiene che il suo nome possa diventare un brand per il settore?
Diciamo che nel mio settore sono abbastanza riconosciuto e riconoscibile, quindi anche la collaborazione con Unieuro non è stata del tutto casuale: a loro è piaciuto il mio stile, la mia freschezza, la mia ironia. Ero inizialmente scettico quando mi hanno contattato, poiché si tratta di un grande magazzino con uno stile diverso dal mio, mentre io cerco di realizzare dei matrimoni “tagliati su misura”, ma alla fine la nostra unione è stata un grande successo. Una collaborazione con un grande store come Unieuro può infatti aprire le porte anche a tante persone che mi seguono e vogliono, perché no, a casa loro, un prodotto firmato Enzo Miccio per Unieuro. E’ stata una scelta simpatica e carina, sia nella campagna televisiva che nella grafica, in cui comunque è stato mantenuto il mio stile.

Come definirebbe in poche parole il suo stile?
Io sono un d’antan, non sono una persona alla moda, benché mi occupi di moda. Sono molto legato alla tradizione, un po’ d’altri tempi, con uno stile ricco di contrasti. Se parliamo di moda, non seguo mai i dettagli delle passerelle, mi piace sempre fare miei i capi, come può ben vedere anche in televisione. Ho il mio stile che è assolutamente riconoscibile e personale.
Per quel che riguarda il resto, m’ispiro al calore di casa mia, da ciò che mi piace, dai miei viaggi, dalle mie grandi passioni come il teatro, l’arte, la lettura. Il mio stile è la ‘summa’ di un percorso di vita che dura da quarant’anni: posso ormai dire di sapere finalmente cosa mi piace.

 …non si può bluffare se c’è una civiltà teatrale, ed il teatro è una grande forza civile, il teatro toglie la vigliaccheria del vivere, toglie la paura del diverso, dell’altro, dell’ignoto, della vita, della morte.

Questa citazione di Leo de Berardinis, uno dei più significativi rappresentanti del teatro di ricerca italiano, può essere considerata a pieno titolo il riassunto breve dell’iniziativa GIOVANI A TEATRO che ormai da anni la Fondazione di Venezia, attraverso la società strumentale Euterpe, porta avanti nel settore teatrale, un impegno che non vuole essere soltanto un’operazione di marketing, ma che parte da bisogni e mancanze per cercare di colmare lacune e costruire nuove coscienze. E tanto più significativi sono il metodo e gli obiettivi della Fondazione in un’Italia in cui, causa crisi e problemi sistemici, il settore culturale sembra aver perso di vista il senso della propria attività e ancor di più una visione prospettica e progettuale.
Forse schiacciati dalle difficoltà della contingenza, forse poco in contatto con quelli che sono i meccanismi e le realtà oltre confine, si è un po’ dimenticato come la cultura non sia un semplice divertissement, ma sia fondamentale per costruire coscienze, civiltà, creare coesione, sviluppare creatività. Elementi che se da un lato migliorano la qualità della nostra vita, dall’altro diventano strumenti indispensabili per lo sviluppo economico e sociale nell’età della conoscenza che stiamo vivendo.
In questo la Fondazione di Venezia sembra essere un piacevole esempio di cosa si può e si deve fare, da un punto di vista manageriale e di spinta etica. Operare oggi per costruire il domani, investire le risorse, poche o tante che siano, in modo che portino un contributo alla società e nuove risorse, a loro volta da investire secondo gli stessi principi. La Fondazione lo sta facendo con il progetto dell’M9, il futuro centro per la storia del ‘900, con l’obiettivo di cambiare un territorio da un punto di vista sociale ed economico recependo le sue istanze e le sue necessità, e da anni lo fa con il progetto GIOVANI A TEATRO, affinché le nuove generazioni possano attingere per lo sviluppo delle proprie coscienze a questo scrigno di saperi ed esperienze e allo stesso tempo diventare futuri “consumatori” di cultura che garantiscano la continuità del settore teatrale.
Il progetto è articolato in differenti iniziative che insistono su quelle che sono le maggiori mancanze/esigenze del teatro. La prima, IL TEATRO IN TASCA!, offre la possibilità di scoprire teatro, musica, danza e opera lirica viaggiando tra i teatri della provincia con un biglietto di soli 2,50 euro. E’ sufficiente richiedere le CARD, gratuite e disponibili per ragazzi fino ai 29 anni, insegnanti, giovani giornalisti e valide per tutti gli appuntamenti della stagione presenti nel programma GIOVANI A TEATRO. Un modo per avvicinare le nuove generazioni e attraverso di esse anche le famiglie, i formatori e gli informatori, per riappropriarsi del teatro come spazio di esperienza, crescita, utilità.
La sezione ESPERIENZE propone, invece, di entrare attraverso laboratori direttamente nella rappresentazione delle arti dal vivo e sviluppa attività di approfondimento a stretto contatto con gli ambasciatori, artisti ed esperti del settore. Il tema scelto per l’edizione 2010-2011 è “Il male”. Prevede laboratori di drammaturgia, teatrali e di danza, percorsi nella scrittura critica teatrale e musicale, realizzazione di operine, percorsi nella visione, nella messa in scena, per capire, facendolo, cosa vuol dire teatro, cosa gli sta dietro, quali emozioni, riflessioni, consapevolezze ne costituiscono la base.
La sezione PORTARE SAPERE (OBIETTIVO INSEGNANTE), infine, pone gli insegnanti al centro di inedite opportunità di conoscenza attraverso la scena, per sperimentare la complessità del presente attraverso il teatro, la danza e la musica. Perché per trasmettere un sapere che sia vivo e vitale e necessario viverlo e parteciparlo, per formare coscienze bisogna avere il coraggio di mettersi in gioco per primi.
Il progetto costituisce anche uno strumento per i teatri del territorio di “fare sistema”, di ragionare non nell’ottica della concorrenza, ma della condivisione delle risorse e di una progettualità comune, andando a coinvolgere a diverso titolo il Teatro Fondamenta Nuove, il Teatro Stabile del Veneto C. Goldoni, il Teatro Universitario Ca’ Foscari a Santa Marta, il Teatro all’ Avogaria, il CTR, il Teatro Junghans, il Palazzetto Bru Zane, l’ Isola di San Servolo a Venezia; il Centro Culturale Candiani, il Teatro A. Momo, il Teatro Toniolo, il Palaplip a Mestre; il Teatro Aurora nella città di Marghera; in provincia i teatri di Cavarzere, Mirano, Jesolo, Mira, Portogruaro, Noventa di Piave, S. Stino di Livenza, Scorzé.
Uno dei percorsi di punta del progetto, iniziato in questi giorni, è “IL TEATRO DELLE LINGUE – Ovvero una solitudine molto rumorosa” un percorso di 6 monologhi  e 6 incontri con gli autori-attori dedicato in particolare agli assoli teatrali. Un programma coordinato per quanto riguarda la Fondazione da Cristina Palumbo e Leonardo Mello e curato da Paolo Puppa, ordinario di Storia del Teatro a Ca’ Foscari, aperto a tesserati e non, ricco di nomi quali Oscar De Summa, Robero Corradino, Andrea Cosentino, Gianfranco Berardi, Gaetano Ventriglia, Daniele Timpano. Un viaggio non solo alla scoperta delle loro opere, ma anche dei linguaggi dell’Italia, dal momento che ogni rappresentazione prevederà l’uso sia dell’italiano che dei diversi dialetti di provenienza degli autori, per scoprire che, anche in questo caso, la differenza è ricchezza. Il giorno successivo ad ogni spettacolo gli autori, inoltre, incontrano il pubblico per un confronto e un approfondimento critico nella sala incontri della Fondazione di Venezia.
“IL TEATRO DELLE LINGUE” proseguirà poi con un convegno internazionale e, nell’autunno, con una seconda sessione di spettacoli provenienti da Sardegna, Piemonte, Emilia Romagna, Calabria e Veneto. Il teatro si fa così strumento di promozione della conoscenza come patrimonio sociale, contro le emozioni teleguidate, si riappropria di quel ruolo sociale che la cultura può e dovrebbe avere, anche in un’Italia in crisi.

Intervista a Lucia Nardi, responsabile Iniziative culturali di Eni

Quando è nato l’Archivio Storico Eni e quali sono state le tappe salienti della sua storia?
L’idea di creare un Archivio Storico Eni nasce alla fine degli anni ’80, quando si sentì la necessità di raccogliere interviste, documenti originali e quanto in azienda potesse contribuire alla ricostruzione dell’operato Enrico Mattei e dei suoi più stretti collaboratori. Dopo solo 10 anni, alla fine degli anni ’90, il materiale raccolto nelle sedi di Roma e Milano era talmente imponente che lo spazio ricavato all’Eur risultò inadeguato per un Archivio Storico degno di questo nome. Si pensò, allora, di utilizzare un capannone che l’azienda aveva a Pomezia. Dopo esser stato ristrutturato rispettando i requisiti propri di un’architettura archivistica, la struttura ha accolto, tra il 2002 e 2003, tutto il materiale raccolto.
Sono ora conservati nell’Archivio Storico Eni cinque chilometri di documentazione storica censita o inventariata e mezzo chilometro di documentazione in attesa di essere ancora analizzata, 400.000 immagini e circa 5.000 pezzi di audiovisivi su vari formati. Nella sua forma attuale, l’archivio è stato inaugurato nel 2006 per il centenario di Enrico Mattei ed è fruibile al pubblico.

Che tipo di iniziative promuove l’Archivio Eni?
L’Archivio ha la funzione di fare da ‘ufficio stampa del passato’, di raccontare Eni attraverso la sua documentazione, illustrando la storia dell’azienda, senza demandarla all’interpretazione degli storici. E’ nello stile di Eni spiegare il nuovo guardando al passato. Tutte le azioni che Eni compie nel presente non nascono dal nulla, ma sono frutto della cultura d’impresa plasmata da Enrico Mattei. Le iniziative dell’Archivio Storico sono anche improntate alla comunicazione interna, attraverso la valorizzazione della cultura Eni e dei suoi valori, oltre che alla promozione della conoscenza dell’azienda all’esterno, come l’importante mostra organizzata per i 150 anni dell’Unità d’Italia, promossa dall’Archivio Centrale dello Stato. L’esposizione illustrerà la storia industriale del Paese dal dopoguerra agli anni ’70. Eni sarà presente con documenti, immagini, foto, racconti e con tutto quel che l’azienda ha rappresentato nella storia italiana. Abbiamo inoltre curato, per le pubblicazioni ufficiali che quest’anno saranno rivolte agli ultimi 150 anni di storia italiana, la parte che riguarda l’evoluzione della politica energetica nazionale dalla seconda metà degli anni ‘50 a oggi.

Quali attività si svolgono nell’Archivio Eni?
Le notevoli dimensioni del materiale raccolto rendono l’ordinamento dei materiali una delle principali attività dell’Archivio Storico. Il lavoro di archiviazione è affidato a un team, che include due giovani che hanno una formazione archivistica: una proveniente dalla scuola speciale per archivisti di Roma, l’altra con una laurea in beni culturali a indirizzo archivistico.
Se nel 2003, quindi, si era cercato di portare all’interno delle competenze scientifiche, nel tempo questa volontà si è rafforzata, portandoci a dialogare anche con la direzione per gli archivi del Ministero dei Beni Culturali, con l’Archivio Centrale dello Stato e con altri archivi.

Qual è la percezione dell’Archivio Storico Eni sul territorio e come risponde la popolazione alle iniziative da voi organizzate?
Tenderei ad allargare il concetto di “territorio”. Quello di Eni è un archivio centralizzato che raccoglie tutte le attività di Eni. I ricercatori che si rivolgono all’Archivio Storico per reperire documenti originali provengono da università di ogni parte del mondo, e ogni anno ne vengono ospitati circa cento. Per quel che riguarda più propriamente il nostro territorio, ci siamo aperti da quest’anno a visite per le scolaresche. Abbiamo cominciato la sperimentazione negli anni passati con un’apertura per la Scuola Speciale di Archivistica di Roma, così da consentire ai ragazzi di toccare con mano documenti, filmati e foto, permettendo loro di passare dalla teoria alla pratica. Il progetto si chiama “Riflesso della Storia” e ci ha consentito di ospitare dei ragazzi universitari per fare esercitazioni pratiche su documenti un po’ atipici, propri di un archivio industriale come il nostro.

Quali chiavi di lettura l’Archivio Storico Eni vuole fornire al visitatore?
Le chiavi di lettura sono di vari livelli. L’approccio storico-archivistico ha un taglio molto scientifico, per cui abbiamo appena adottato un sistema di informatizzazione dell’archivio, che non vuol dire semplicemente digitalizzare i documenti, ma consentire la loro consultazione informatica, scegliendo un programma che è quello utilizzato per l’archivio storico della Camera, un sistema scientificamente di buon livello. Seguiamo inoltre i ricercatori in tutta la fase di analisi, garantendo un alto livello scientifico.
Sul fronte scolastico cerchiamo di far capire come nasce la ricerca storica e come sia possibile da un documento passare all’informazione, fornendo così una lettura didattica della storia.
Da un punto di vista interno, vorrei infine ricordare la mostra itinerante, tuttora in corso, “Il Cane a sei zampe” sul logo Eni, in cui abbiamo fatto un’operazione di comunicazione rivolta non solo all’esterno, ma anche al nostro personale interno, per rafforzare la cultura Eni e i valori che da sempre animano l’azienda.

Marta è un architetto italiano che ha scelto di vivere a Varsavia: una scelta, tiene a precisare, assolutamente professionale. Si occupa di progettazione architettonica di edifici ad uso pubblico quali uffici, centri commerciali e dello sviluppo di soluzioni residenziali, come ville a schiera e condomini.
Coincidenza o comodità vogliono che ci incontriamo in un piccolo caffè davanti al Teatr Wielki Opera Narodowa, un sontuoso edificio realizzato dall’architetto italiano Antonio Corazzi, che nel 1819 partì per Varsavia, dove lavorò fino al 1847. Oggi in città sono molto conosciuti anche gli architetti italiani Migliore & Servetto, autori del progetto del nuovo Fryderyk Chopin Museum, ultima attrazione turistica e multimediale della capitale polacca.
Ci sediamo all’aperto, nonostante la temperatura non sia più quella estiva. Le rivolgo alcune domande, davanti ad un té ed un espresso (buono come in Italia, quando non lo preparano double).

Nome?
Marta.

Professione?
Architetto.

Città natale?
Fossano, provincia di Cuneo.

Città adottiva?
Varsavia, Polonia.

Iscritta all’Ordine degli architetti di quale città?
Cuneo, dal 2002. 

E all’Ordine di Varsavia?
Non e’ necessario, posso timbrare ovunque.

Cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia?
Ho avuto l’occasione di venire a Varsavia con il programma europeo di mobilità ‘Leonardo da Vinci’. Poi non sono più tornata e penso che non tornerò mai più, perché qui riesco a fare veramente l’architetto.

A quale età si è un “giovane architetto” in Polonia?
Intorno ai 27 / 28 anni.

In Italia?
40.

Quanti clienti/committenti ti chiamavano quando eri in Italia?
Alle volte ero io che chiamavo, soprattutto quelli che dovevano pagarmi.

Quanti clienti/committenti ti chiamano adesso in Polonia?
Lavoro in un ufficio, per cui mi chiamano giornalmente e vogliono parlare con me anche persone che non ho mai conosciuto personalmente, questo con grande invidia dei miei colleghi polacchi, anche se sta diventando un problema. (sorride)

Di cosa ti occupi?
Lavoro in uno studio internazionale, principalmente ci occupiamo di sviluppo di nuove soluzioni commerciali, residenziali ed uffici, su vasta scala, veramente molto interessante e creativo. Lavoriamo non solo a Varsavia, ma molto anche al di fuori di Varsavia e del resto della Polonia, diciamo prevalentemente nel blocco orientale: Ucraina, Bielorussia, anche qualcosa in Russia e qualcosa in Norvegia.

Quanto guadagna un architetto a Varsavia?
Si può guadagnare bene, sicuramente meglio che in Italia.

Passiamo alla giornata tipo di un architetto a Varsavia. Sveglia?
Alle 06.00… Cerco di svegliarmi alle 06.00!

Mezzo di trasporto?
A piedi, in metropolitana e tram, ma non in questo ordine! Prima prendo il tram, poi un pezzetto a piedi, quindi un altro tram. Al ritorno, mezz’ora di passeggiata a piedi, perché dopo nove ore seduta mi piace camminare e poi prendo la metropolitana.

Luogo di lavoro?
Un palazzo a funzione mista, ci sono abitazioni e c’è anche qualche ufficio.

Pausa pranzo?
Perché si mangia? Mai, noi architetti non mangiamo! (sorride)

Dopo lavoro?
Dopo lavoro? Intendi forse quell’attimo vuoto tra lavoro e dormire? A parte gli scherzi, molti interessi. Esco con gli amici, ho il mio corso di disegno, il corso di polacco, spero di iniziare presto un corso di pianoforte (ricordiamo che siamo nella città di Chopin!) oppure la palestra. Quando non stramazzo al suolo, anche a casa a leggere un libro.

Cena?
Quale cena? Quando capita.

Dopo cena?
Non si dorme, assolutamente! Si esce con gli amici, al cinema, ogni tanto all’Opera, ai concerti o semplicemente a passeggiare in centro.

Qui a Varsavia è stato un successo il film Mine vaganti di Ferzan Ozpetek, l’hai visto?
Non ancora, ma ho visto i cartelloni.

Cosa consiglieresti di vedere a Varsavia?
Tantissime cose, dipende chi arriva.
Se un architetto, ci sono tantissimi nuovi edifici che sono assolutamente da non perdere, come tutto lo sviluppo urbano di Mokotów (quartiere a sud di Varsavia), si chiama Eco Park, semplicemente fantastico. Poi c’è il centro finanziario che è interessante per tutti i grattaceli, molti di ottima qualità. Ancora una passeggiata nel centro storico, ricreato negli anni Settanta, hanno basato la ricostruzione su opere attribuite al Canaletto; in ogni caso fantastico, dove si respira un’atmosfera particolare. Poi c’è tutta la parte del razionalismo socialista, che è molto interessante, quella di Plac Konstytucji (Piazza della Costituzione), via Marsza?kowska, insieme a tutta l’area intorno al Politecnico, che è anche precedente. Intorno al Politecnico abbiamo un razionalismo degli anni ’30, veramente da vedere.
Come turista, c’è il Parco ?azienki (con il monumento di Chopin, i concerti gratuiti all’aperto ed il “Palazzo sull’acqua”, rimodellato per l’ultimo Re di Polonia Stanislao II dall’architetto italiano Domenico Merlini, attivo nella seconda metà del ‘700), che è il più bello che abbia mai visto; Pole Mokotowskie (un altro Parco nei pressi del Politecnico, amato in particolare dagli studenti). Poi musei, teatri, tanto, tanto, insomma c’è da spenderci un bel po’ di tempo.
Singolare per una città come Varsavia è imbattersi nella gigantesca Palma di Aleje Jerozolimskievia (viale Gerusalemme), che è diventata un nuovo simbolo della città ed un punto d’incontro imprescindibile, come l’Eros di Piccadilly Circus a Londra o il bronzo di Pessoa al Chado di Lisbona.

Da architetto come la giudichi?
Direi carinissima, se fosse vera.

Perché non lo è?
No, è di plastica!

Davvero?
Dai, mi prendi in giro. (ride)

Per riassumere, un giudizio sulla città di Varsavia?
Molto interessante, anzi interessantissima. Vivace, in pieno sviluppo, divertente, esteticamente c’é da sperimentare.

Progetti per il tuo futuro in Polonia?
Sono moltissimi, proprio tanti, tanti, tanti.

Torneresti in Italia?
No, assolutamente no.

Perché?
Non ho voglia di perdere tempo.

Come promesso abbiamo tenuto monitorato il progetto speciale della Camera di Commercio di Milano “Un designer per le imprese”, promosso in collaborazione con Material ConneXion, il più grande centro di documentazione e di ricerca sui materiali innovativi a livello internazionale, che ha visto lavorare congiuntamente quindici imprese, quattro istituti di design e circa cento studenti.
Fino al 30 settembre 2010, presso la Triennale di Milano, sono esposti i 16 migliori progetti selezionati, uno per ciascuna azienda, da un comitato tecnico-scientifico composto da esperti del settore come Silvana Annicchiarico, Direttore del Museo del Design della Triennale di Milano, Aldo Cibic, architetto e designer ed Emilio Genovesi, Amministratore Delegato di Material ConneXion Milano. Al sedicesimo progetto presente in mostra è stato assegnato un Premio Speciale in ricordo di Manuela Cifarelli, Direttrice di Material ConneXion Milano dalla sua fondazione. Si tratta di The Breadnest, un cestino per il pane in un unico pezzo di legno flessibile realizzato mediante taglio laser, ideato da Maddalena Selvini e Michele Sterchele, studenti della NABA -Nuova Accademia di Belle Arti, affiancati da Vered Zaykovsky. La giuria ha valutato ogni singolo lavoro premiando quelli meglio rispondenti ai brief delle aziende e più in linea con gli obiettivi dell’intero progetto.
L’iniziativa nasce all’interno del programma della Camera di Commercio di Milano di sostegno all’innovazione nelle Piccole e Medie Imprese che rappresentano il nucleo fondamentale del tessuto produttivo locale e italiano. Secondo una ricerca condotta dal Servizio Studi di CCIAA Milano, il 20%, cioè una su cinque, delle PMI aspira ad innovare ma non dispone delle risorse necessarie per farlo. Ciò significa che le imprese non riescono a migliorare i propri processi produttivi, rimangono tagliate fuori dalle novità che emergono dal mondo della ricerca e di conseguenza faticano a tenere il passo della concorrenza domestica e soprattutto internazionale.
Per capire esattamente cosa succede all’interno delle imprese quando si parla di Ricerca & Sviluppo abbiamo intervistato le quindici partecipanti ad “Un designer per le imprese”; hanno risposto in nove.
Innanzitutto si tratta di organizzazioni totalmente differenti per le quali non è possibile tracciare una carta d’identità comune: alcune offrono servizi, altre prodotti, la maggior parte sono presenti sul mercato da venti/trentanni, ci sono realtà creative per mission e realtà orientate alla produzione, poco BtoB e molto consumer.
Cinque imprese dichiarano in modo chiaro di avere un ufficio dedicato alla Ricerca & Sviluppo composto per lo più da tecnici e ingegneri che si occupano di innovazione di prodotto e ricerca di nuovi materiali. Due degli intervistati dichiarano di non avere un ufficio dedicato, ma Alessandra Bolzagni, titolare di My Special Guest dice: “No, al momento non c’è un ufficio specializzato in ricerca e sviluppo, ma mi occupo costantemente di reperire informazioni utili al mio business e le condivido con il mio staff per poi trasformarle in futuri strumenti di marketing o progetti innovativi”. La forbice dell’investimento è molto aperta: negli ultimi tre anni si va da un investimento pari zero a un investimento del 30% passando per il 3%, il 14% e il 25% del fatturato.
Alla domanda “E’ la prima volta che in azienda affrontate il tema dell’innovazione? O che stabilite partnership con Università?” sette su nove dichiarano di affrontare il tema dell’innovazione ormai da “parecchi anni” e di aver già collaborato con il mondo accademico. Il panorama risultante è comunque rappresentato da una frammentazione e sporadicità degli  investimenti e da un tocco di sano “fai da te” che non significa bassa qualità dell’intervento ma piuttosto – come descrivono alcuni degli intervistati – barriere invisibili dettate dai paradigmi tipici dell’azienda e mancanza di completezza del processo di sviluppo. Il Dott. Aurelio Passoni, amministratore delegato di EBI s.a.s., azienda con un ufficio R&S composto da tre persone, dice a tal proposito “Il poter lavorare con l’università non significa solo essere a contatto con risorse competenti, ma anche offrire alla propria impresa la grande opportunità di analizzare i progetti di sviluppo secondo ottiche diverse da quelle interne all’azienda stessa. Non parlo di approcci in contrasto con quelli dell’azienda, ma di approcci semplicemente differenti, eppur tali da poter essere “miscelati” con le impostazioni aziendali per dar vita a progetti spesso vincenti”.
Ricerca & Sviluppo significa infatti, per tutti gli intervistati, anticipare i trend di mercato e quindi essere competitivi, visualizzare le evoluzioni socio-culturali e di conseguenza interpretare il futuro. L’architetto Marco Predari, consigliere delegato di Universal Selecta S.p.A., descrive la R&S come “la fonte primaria di innovazione tecnologica, risparmio economico e rispondenza alle normative sia tecniche che rivolte al sociale”.
L’indagine del Centro Studi della Camera di Commercio individua, come ostacoli all’innovazione, la mancanza di risorse tecniche e umane dedicate e la difficoltà, soprattutto nell’attuale situazione congiunturale, a investire capitali importanti. Gli intervistati sostanzialmente confermano i risultati, soffermandosi maggiormente sul problema economico e sulla necessità di incentivi fiscali e finanziari. Del resto, Edoardo Perri, Direttore creativo e Socio di Who Made, sottolinea: “Crediamo che oggi l’innovazione debba necessariamente scaturire da una innovazione di sistema che coinvolga quindi in primis istituzioni e organismi di categoria. In questo momento viviamo una mancanza di visione globale che ci permetta di agire all’interno di una politica economica e sociale capace di prefigurarsi un futuro”.
Effettivamente si chiede sempre alle imprese alta creatività, forte elasticità, elevati investimenti, ma come stanno gli interlocutori istituzionali delle aziende in merito a innovazione? Esiste un’atmosfera industrial/culturale a cui aderire? Esistono, o meglio, che grado di diffusione hanno i modelli di collaborazione tra il mondo impresa e il mondo della ricerca, della cultura e della formazione? Il sistema, appunto, non è composto da due soli soggetti (imprese – istituzioni culturali), ma da una pluralità di organismi che dovrebbero fare da guida e svolgere il proprio compito con quella stessa freschezza, intelligenza e vivacità che le nostre aziende hanno visto nei giovani designer che hanno lavorato con loro.
Un altro limite interessante all’innovazione, emerso dalle interviste, è la difficoltà di trovare il giusto equilibrio tra il nuovo e il patrimonio culturale consolidato dell’impresa. Costanza Calvetti, titolare di Industreal s.r.l., a tal proposito dice: “…la possibilità di modificare la cultura/struttura aziendale in modo continuo non è di fatto così semplice. Un’azienda dovrebbe essere sempre in una situazione di work in progress che è in contrasto con una tendenza corretta a consolidare le proprie conoscenze”. Si tratta quindi di una questione di gestione del cambiamento: un problema concreto che inserisce nel dibattito altri aspetti legati all’innovazione, passando dal prodotto all’innovazione in termini sistema di gestione aziendale e quindi di management.
Pasquale Maurizio, titolare di Olimar Legno s.n.c., l’impresa forse più piccola tra le intervistate e a conduzione famigliare, descrive bene il problema della gestione del cambiamento: “lo scambio di idee con giovani designer è sicuramente molto più costruttivo ed entusiasmante, sia per i giovani ragazzi che per noi; riuscire a trasformare una loro idea, un disegno in un oggetto reale ed utilizzabile è sicuramente gratificante per entrambi. Con questo progetto abbiamo un po’ stravolto la nostra produzione riuscendo a fare sagome e forme mai pensate. I nostri modelli hanno più o meno lo stesso tipo di lavorazione e i nostri macchinari, seppur moderni, non ci permettono di creare forme particolari perché sono stati progettati per una lavorazione in serie ben specifica”.
Nonostante tutte le difficoltà, rimane viva la volontà di cambiare e di migliorare, di mettersi alla prova con il nuovo ma anche e soprattutto la voglia di presentarsi al mercato con prodotti che coniughino aspetti estetici e tecnici favorendo la qualità intrinseca del prodotto, l’attrattività e la competitività.
Tutti i progetti dei giovani designer sono ora al vaglio di una futura commercializzazione; speriamo di poterli acquistare entro la fine dell’anno!

 

Fluido-Gasatore per Acqua, ideato dagli studenti dello IED per Artègora – Azienda specializzata nella produzione di cantine per la conservazione del vino sia per uso domestico che per uso professionale e di uno spillatore domestico di birra refrigerata – è un oggetto che serve per purificare l’acqua di casa, creato con materiali innovativi e sostenibili e dal design unico.

 

 

 

 

 

BauHouse, frutto della creatività degli studenti della NABA per DZModels – leader nella distribuzione dei siliconi in Italia con la capacità di creare prodotti tailor-made per qualunque esigenza – è una cuccia per cani realizzata con materiali sintetici, dal design attraente e di comoda manutenzione.

 

 

SSSpline-Spillatore per Birra è uno spillatore domestico di birra refrigerata, tecnicamente evoluto, con un design raffinato, ergonomico e compatto, realizzato da due giovani designer della NABA per Ebi – organizzazione italiana di produzione e di marketing che offre l’esperienza e la professionalità acquisita in oltre 40 anni di lavoro nel settore della componentistica per elettrodomestici e del trattamento delle acque -.

 

 

 

 

Spring Free è il dondolo multifunzionale studiato da 3 studenti della NABA per Eurotubi – leader sul mercato nazionale e internazionale per la curvatura di tubi di grosso diametro e per la produzione di forcine per scambiatori di calore -. L’oggetto, dal design accattivante, ha una struttura in acciaio inossidabile integrato con materiali tecnici adatti per un uso esterno prolungato.

eXpositor, idea di 3 allievi dallo IED per FxModel – Azienda che opera nel settore dell’assistenza alla progettazione, alla prototipazione e alla micro produzione, con sistemi alternativi al classico rapid protoyping per deposizione – è un modulo espositivo multifunzionale, specificatamente studiato per l’esposizione di campioni di materiale per le manifestazioni fieristiche.

 

Rompiamo le scatole è il progetto dello IED per Giroidea – agenzia specializzata in prodotti grafici finalizzati alla comunicazione e alla divulgazione -. Si tratta di un sistema modulare, realizzato con materiale riciclabile e studiato per risolvere il problema della spedizione e dell’imballaggio di alcuni oggetti come le bottiglie di vino e di olio.

 

 

 

 

My_name_is…, la proposta del Politecnico di Milano per Industreal – editore di oggetti di design – è una grattuggia, uno strumento pratico e funzionale oltre che decorativo dove l’attenzione progettuale si è focalizzata sulla reale funzione ed
espressione del vivere quotidiano e sulla necessità di una comunicazione comprensibile ed efficace.

 

 

Mappatura Emozionale è un sistema espositivo modulare a parete e flessibile nello spazio che consente l’esposizione dei nuovi trend e delle campionature delle pelli. E’ stato ideato dalla NABA per Lineapelle, la più importante rassegna internazionale dedicata al settore pelli, accessori, tessuti e modelli per la calzatura, la pelletteria, l’abbigliamento e l’arredamento.

 

 

MD Urban Studio è la borsa creata dagli studenti della NABA per MomoDesign – Azienda specializzata nella ricerca e nello sviluppo del car design e nel settore degli accessori life-style -. I materiali innovativi e funzionali all’ergonomia del prodotto oltre al design accattivante interpretano le esigenze e gli stili di un utente moderno e sono perfettamente in linea con il mood del marchio perché ne enfatizzano l’anima tecnica.

 

 

My shopping Angel Bag è la borsa ideata dai giovani designer della NABA per My Special Guest – tour operator che propone soluzioni personalizzate per la clientela privata e business – realizzata con materiali eco-compatibili e studiata per essere un innovativo veicolo di promozione turistica della città di Milano poiché verrà distribuita insieme a una speciale card per lo shopping, a guide e mappe del capoluogo lombardo.

 

 

 

 

 

Quanto basta è il progetto proposto dalla NABA per Olimar Legno – Azienda specializzata nella produzione di articoli casalinghi in legno – e consiste in una linea di 3 utensili da cucina, ergonomici e di forme diverse, ideati per facilitare le operazioni a chi ha meno esperienza in cucina.

 

 

 

 

 

 

Condividimi è l’oggetto creato dagli studenti della NABA per PRMDesign – una innovation company che opera in ambito internazionale nel settore della progettazione, della formazione e della produzione -: si tratta di un set per il pranzo al sacco studiato per agevolare la condivisione di cibo tra due persone, per favorire ed esaltarne il sapore, per sostenere il rispetto della tradizione, del gusto e della salute e per salvaguardarne i valori nutritivi.

 

 

Capitonnè è l’idea targata Domus Academy per Sigre – Azienda attiva nel settore dello stampaggio rotazionale, la moderna tecnologia produttiva che permette di realizzare prodotti dalle forme molto complesse e di riprodurre aspetti estetici di diversi elementi naturali come la terracotta, il cemento, la pietra e il legno -. Proposto in due versioni, dormeuse o futon, è un oggetto dall’aspetto simile a quello di un materasso, realizzato con un materiale morbido, impermeabile, resistente alle basse temperature e al lavaggio con detergenti, traspirante, flessibile e personalizzabile.

 

di_VISION è il progetto presentato da due studenti della NABA per Universal Selecta, Azienda fra i primari produttori italiani di sistemi di partizioni mobili di alto livello: si tratta di una nuova applicazione per le pareti vetrate che diventano così un vero e proprio muro divisorio, sottile, valido quale isolante acustico e ripensato come spazio da vivere perché può essere utilizzato come seduta o supporto per contenitori e mensole.

 

 

 

R.I.P. è il sottopentola in ceramica creato dallo IED per Whomade – un brand di prodotti di ricerca che rilancia l’idea di un artigianato d’avanguardia -. Oggetto di uso quotidiano, riporta sulla superficie le date dell’invenzione e della dismissione della lampadine a incandescenza (1878-2010) e il disegno della lampadina per aiutare a prendere consapevolezza e coscienza dei consumi e degli sprechi, affrontando così ogni giorno il problema del risparmio energetico.

La Repubblica degli Stagisti è un giornale online che si propone di scandagliare quell’universo particolare di tirocini e programmi formativi che caratterizza l’Italia del primo impiego.
La direttrice Eleonora Voltolina, che da poco ha raccolto i contenuti trattati in www.repubblicadeglistagisti.it nel libro dall’omonimo titolo, ha reso il sito un utile indirizzo per i giovani in cerca di una valida esperienza formativa.
Tra i traguardi raggiunti dalla redazione di questo giornale virtuale, divenuto popolare nel suo genere, va menzionata sicuramente “La Carte dei Diritti dello Stagista”, un elenco di nove articoli che riassume le prerogative in capo ai tirocinanti, e il progetto “Bollino OK Stage”, attraverso il quale vengono vagliate le diverse opportunità offerte ai giovani, per poi essere valutate in rapporto alla loro più o meno ampia aderenza alla suddetta Carte dei Diritti. La sezione FAQ sullo stage offre poi ulteriori chiarimenti su questa tipologia di occupazione con riferimenti dettagliati alla relativa normativa, illustrata in modo più ampio nella categoria ad essa adibita.
Il punto di forza di questo sito è tuttavia il “Kit dello Stagista” che si compone di tre strumenti: nel primo è possibile individuare l’offerta più adatta alle proprie esigenze tra i bandi rivolti a diplomati e neolaureati; le news si propongono invece di aggiornare gli utenti con novità, approfondimenti e racconti dal mondo degli stage; il tutto è poi corredato dall’immancabile opzione ‘help’, tramite cui è possibile richiedere supporto e consigli.
Il mondo del lavoro, e prima ancora della formazione, è risaputo basarsi sostanzialmente sull’incontro tra domanda e offerta tra datori e prestatori. Fondamentale si rivela dunque anche lo spazio che la Repubblica degli Stagisti riserva alle aziende, le quali trovano così una congeniale vetrina per ricercare le figure ideali di cui necessitano, potendo inoltre candidarsi con le loro offerte formative all’acquisizione del Bollino OK Stage e Chiarostage, il premio alla chiarezza e alla trasparenza.
La filosofia e lo scopo su cui si fonda e si sviluppa questa webzine la rendono dunque luogo di incontro e confronto per vocazione, tanto che al suo interno non poteva mancare un Forum, organizzato intorno a tematiche salienti, come i contenuti degli articoli, le nuove leggi relative agli stage, la segnalazione di aziende virtuose, i racconti delle proprie esperienze. In questo modo viene stimolata l’utile aggregazione tra coloro che hanno affrontato, o si apprestano a farlo, esperienze comuni, offrendo chiarimenti a chi li desideri o spunti di crescita per il proprio futuro.
In un sistema formativo come quello italiano, che poca attenzione rivolge all’attività pratica e all’inserimento dei giovani nella complessa realtà lavorativa, la Repubblica degli Stagisti rappresenta un indirizzo utile cui ricorrere per affrontare questo passaggio delicato e fondamentale.

Lo scorso 29 luglio il Senato ha approvato la riforma dell’università progettata del Ministro dell’Istruzione Gelmini che si prospetta come un provvedimento ad ampio spettro e ricco di novità. I 22 articoli sono destinati a riformulare l’attuale configurazione del sistema universitario italiano, dalla struttura di governance alla definizione dell’età pensionabile. La riforma stabilisce che: ogni ateneo dovrà ridurre il numero di facoltà affinché non si sfori il tetto massimo di 12, dovrà dimezzare gli attuali 370 settori scientifico-disciplinari, se in regola con i conti potrà contare su forme di governance modellate ad hoc in collaborazione col Ministero, rischierà il commissariamento in caso di squilibri finanziari e in questo senso dovrà adattarsi a nuovi criteri di maggiore trasparenza validi a livello nazionale. Le università potranno inoltre ricevere risorse sulla base della qualità della didattica e della ricerca, avere la possibilità di collaborare con altre università vicine (anche a livello interregionale) per diminuire i costi e potenziare la didattica, e dovranno adottare un codice etico. I rettori invece non potranno mantenere il loro incarico per più di 8 anni e i professori ordinari e a tempo determinato dovranno certificare rispettivamente un minimo di 1500 e 750 ore di attività formative delle quali almeno 350 e 250 dedicate alla didattica.
Il tema che finora ha provocato più scalpore rimane la determinazione dell’età pensionabile: nonostante il parere favorevole del Ministro Gelmini ad un abbassamento a 65 anni e l’emendamento proposto dal Pd, si è preferito mantenere la soglia a 70 anni. La decisione è stata motivata da un lato dal timore del Ministro Tremonti della revisione delle operazioni finanziarie nel settore pensioni e dall’altro dal giudizio negativo espresso dal Consiglio universitario nazionale che valuta la manovra troppo dispendiosa prevedendo oltre 500 milioni annui per cinque anni.
Vi sono due ulteriori trasformazioni che rivoluzioneranno in modo significante il sistema universitario attuale: la nuova modalità di selezione dei professori ordinari e associati e il nuovo sistema dei contratti dei ricercatori. Nel primo caso è prevista la creazione di bandi pubblici indetti dalle università che selezioneranno i loro docenti con l’aiuto di una commissione comprendente anche membri stranieri, nel secondo caso viene introdotto un sistema di contratti a tempo determinato, dopo i quali sarà previsto un contratto triennale al cui scadere si potrà essere confermati a tempo indeterminato.
Sergio Luzzatto, in un articolo sul Sole 24 Ore, fornisce alcuni spunti di riflessione rispetto a queste ultime novità facendo notare come la procedura per il reclutamento dei docenti su scala nazionale possa in realtà essere influenzata dalle scelte dei singoli atenei i quali concorrono direttamente alla determinazione della lista dei docenti che possono partecipare alla selezione nazionale. Inoltre, viene sottolineato come il sistema dei contratti disegnato per i ricercatori non possa essere assimilato al “tenure track” anglosassone, in quanto non vi è alcuna garanzia da parte dell’ateneo dell’effettiva creazione di un bando per la copertura del ruolo.
La riforma ha già provocato molte reazioni sia all’interno del mondo politico, sia all’interno di quello universitario. Mentre il Ministro Gelmini considera il provvedimento “epocale” e destinato a migliorare la qualità delle università italiane, il senatore del Pd Luigi Zanda afferma che “non è una riforma, è un provvedimento debole e le risorse sono insufficienti”. Enrico Decleva, presidente dell’assemblea dei rettori degli atenei italiani, sostiene che la riforma “nella situazione in cui ci troviamo considerati i problemi e le criticità è sicuramente un provvedimento importante”, ma non tralascia alcuni difetti e dichiara che “non ci sono più alibi, le risorse devono venire”.
Considerati i pareri contrastanti che il provvedimento ha provocato anche all’interno degli stessi schieramenti politici, si può facilmente comprendere la complessità delle sfaccettature che caratterizzano la riforma. Il ridisegno di alcune strutture di governance, la ridefinizione delle funzioni di alcuni organi (senato universitario e consiglio di amministrazione), la determinazione di criteri di maggiore trasparenza sembrano essere provvedimenti apprezzati da più parti. Tuttavia, argomenti più delicati quali le fonti di finanziamento per la riforma rimangono ancora in fase di definizione.
Nonostante i fondi rimangano frequentemente un punto interrogativo che caratterizza molti processi di innovazione, la presenza di un chiaro quadro d’azione e la definizione di procedure e strutture specifiche rimangono comunque l’essenza del sistema.
L’auspicio è che una volta sfumate le polemiche la riforma possa essere efficacemente implementata nel rispetto dell’istruzione e delle carriere di coloro che gravitano all’interno del mondo universitario utilizzando strategie e procedure che comprendano le reali dinamiche ed esigenze del settore. Per ora, non resta che attendere il prossimo settembre quando la riforma verrà vagliata dal Parlamento.

L’etimologia della parola “blog” è nel blend tra ‘web’ e ‘log’, ovvero ‘rete’ e ‘diario, traccia’. Con essa s’intende, in effetti, un sito simile ad un diario personale dove l’autore, chiamato appunto blogger, narra in ordine cronologico avvenimenti, fatti e notizie. Questo fenomeno, che ha avuto origine negli USA alla fine degli anni ’90, conta oggi una molteplicità di forme e contenuti che hanno contribuito incisivamente ad una democratizzazione dell’informazione.
A registrare un enorme successo sono, tra gli altri, i blog tematici dedicati alla moda: il loro numero è davvero vasto e non accenna a frenare, con un’ampia e originale varietà. Sono questi gli spazi virtuali in cui gli internauti esprimono i loro punti di vista sulle collezioni stagionali, forniscono consigli utili per lo shopping, indagano le nuove tendenze, lanciano idee di altri creativi, propongono i loro personali outfit, giungendo persino ad affermarsi come veri e propri indirizzi web culto per gli amanti del genere.
Il cosiddetto ‘fashion blogger’ è una figura che sta perciò acquisendo un ruolo sempre più incisivo nelle scelte dei consumatori: si propone come un’alternativa gratuita e sempre disponibile del ben più blasonato personal shopper e ha inoltre la possibilità di aggiornare in tempo reale i contenuti della pagina, a differenza delle riviste cartacee, in un ambito in cui la sperimentazione e l’originalità possono determinare il successo. Non sorprende allora se, tra quelli di loro che vantano un pubblico folto e fedele, molti divengano guru del settore, ricevendo inviti alle sfilate e presiedendo alle anteprime delle collezioni delle maison.
L’americano The Sartorialist, decretato il fashion blog per eccellenza, è nato dalla passione e dall’impegno, misto ad un’utile esperienza sul campo, di Scott Schuman. Nella biografia racconta come l’idea del blog sia scaturita dalla vocazione per la fotografia, principalmente rivolta al look della gente comune, vera ispiratrice degli stilisti e dei designer con cui il blogger si era trovato a lavorare in passato. Queste immagini sono poi divenute il contenuto principale di The Sartorialist, la cui storia è comune a molti altri blog di moda, tra cui gli italiani Frizzi Frizzi, The Fashion Fruit, The Bolnd Salad, che hanno utilizzato innanzitutto tale strumento per condividere scatti e pensieri dal successo inaspettato.
I blog della moda non potevano passare inosservati agli occhi dei professionisti del mestiere, che stanno lentamente comprendendo l’opportunità di sfruttarne l’ampia popolarità raggiunta. La grande visibilità che molti fashion blogger hanno conquistato ha indotto i marchi di abbigliamento a considerarli come un’ottima vetrina, una valida fonte per condurre ricerche di mercato e un perfetto strumento di mediazione con i clienti, sebbene ancora si denoti una certa diffidenza nei loro riguardi, che sta tuttavia scemando con l’amplificarsi del fenomeno. Pitti Uomo sembra ad esempio averne colto le potenzialità, tanto che è giunto nel 2009 al lancio del suo blog, “Pitti People”, in cui ha virtualmente riunito la community internazionale di compratori e visitatori della fiera fiorentina, mosso dalla convinzione che il pubblico abbia un ruolo centrale nella manifestazione.
Certo è che dietro pseudonimi accattivanti si nascondono spesso autori dalla giovane età e dalla poca esperienza, il cosiddetto fenomeno dei baby blogger; ma in rete avviene una selezione naturale dei talenti che porta a far emergere solo i blogger più tenaci e laboriosi. Non si deve pensare che, dietro queste pagine apparentemente frivole, non vi sia un paziente lavoro: scatti fotografici, studio e ricerca degli accostamenti tra abiti e accessori, vaglio delle novità del mercato, ricerca ‘cool hunting’, sono infatti tra le attività a cui quotidianamente i fashion blogger si dedicano.
A riprova dell’impegno che occorre per gestire un fashion blog sono stati attivati corsi, come ad esempio quello del Campus della Moda di Carpi o di Sintetik Training, che tentano di fornire gli strumenti necessari a chi volesse intraprendere questo tipo di occupazione. Eppure il segreto del successo conseguito da tale particolare mezzo di comunicazione, risiede probabilmente proprio nella spontaneità e nella libertà che lascia all’autore di personalizzare il suo spazio, secondo i propri gusti e le sue ispirazioni, dettando per l’appunto ‘moda’.
Il web 2.0 ha così catalizzato quel processo per cui è il consumatore a determinare tendenze e a decretare il successo dei prodotti e non più, o per lo meno non solo, gli stilisti e i grandi marchi dell’abbigliamento: si sta affermando una ‘moda dal basso’, che coglie quel che di meglio l’industria offre, mescolando stili, firme e soprattutto abiti e accessori dal diverso range di prezzo.
Il fashion blogger, servendosi della capacità mediatica e comunicativa delle nuove tecnologie, ha trasformato la passione per la moda in un diario di stile dall’illimitata visibilità, destinato nei casi più geniali ad influenzare significativamente il mercato del settore.
Si sta aprendo dunque una nuova fase che non esclude una possibile democratizzazione dell’industria della moda, con un sostanziale riequilibrio del rapporto tra produttore e fruitore. E molto si deve ai vari blog Hypebeast, Fashionista, Jak & Jil

Pizzi creati a mano, inserti preziosi, stoffe raffinate, tinture ricercate, lavorazioni sartoriali: un abito Haute Couture non può essere considerato semplicemente un vestito. E’ un’opera d’arte da indossare.
Siamo lontani anni luce dai prodotti a basso costo delle multinazionali dell’abbigliamento, diffusi ovunque e che facilmente si riconoscono nelle strade, indossati dai passanti. Stiamo invece parlando di creazioni uniche, riservate ad una ristretta élite di benestanti, che può soddisfare gli alti compensi necessari per acquistarli. Il mercato di queste ricercate opere sartoriali è soprattutto quello dei magnati russi, arabi e orientali, ma anche dei grandi nomi dello show biz, che ricorrono agli atelier di alta moda per vestire nelle grandi occasioni.
E c’è da riconoscere che, nonostante la crisi, il fatturato delle grandi maison non ha subito la generale flessione, registrando in alcuni casi persino una crescita, com’è accaduto alla Givenchy, guidata dal duo tutto italiano Tisci e Malverdi.
La Haute Couture è del resto il campo in cui gli stilisti possono esprimere al meglio la loro creatività, e i sarti e gli artigiani della moda la loro maestria. Dietro le creazioni proposte c’è infatti un lungo e certosino lavoro che ne giustifica gli alti prezzi e la ristretta produzione.
Non sorprenda dunque se sulla passerella sfilano abiti dalla discutibile portabilità ma dal sicuro effetto scenico, perché non siamo nell’ambito del pret a porter, dove la collezione deve seguire le richieste del mercato e le esigenze del consumatore: nell’Haute Couture non ci sono regole e la scena viene rubata dalla creatività e dalla sperimentazione dello stilista, insieme alla bravura dei sarti che confezionano i modelli. Pensiamo che una “doppia” petite robe noire, corredata da una mantellina confezionata con stecche di balena e decorata con rose in tulle, è la creazione firmata Valentino che si è aggiudicata il primato di abito più costoso (88 mila euro) della prossima stagione, mentre un abito della collezione primavera-estate 2010 ricamato con minipaillettes di specchio e ornato di fiocco ha impegnato per ben 700 ore i sarti della maison Chanel.
Non a caso la neopresidente dell’autorevole AltaRoma, Silvia Venturini Fendi, in occasione dell’inaugurazione della kermesse AltaRoma AltaModa, ha parlato della città capitolina come della capitale dell’artigianato, ritenendo le manifatture romane una garanzia di qualità e un valore aggiunto capace di rafforzare il made in Italy. Le dichiarazioni sono state certamente volte anche ad  un rilancio d’immagine del sistema moda romano, che ha purtroppo subito nel corso del 2009, una contrazione del 42,8% rispetto all’anno precedente, sebbene segnali incoraggianti arrivino dai primi dati disponibili per il 2010.
Proprio AltaRoma AltaModa ha dato poi nuova visibilità ai grandi maestri della stoffa: da Sarli a Gattinoni, da Balestra a Riva, da Curiel a De Biase. Questi nomi sono tra quelli che hanno saputo rendere grande la moda nostrana, fedeli a un concetto di qualità e impegno, di ricercatezza ed eleganza, che non hanno tempo. L’amore per la tradizione non ha tuttavia impedito loro di rinnovarsi e riproporsi nel panorama creativo, in una veste più decisa ed accattivante, che molto deve ad un lavoro di studio e ricerca, dai nuovi materiali a innovative tecniche sartoriali.
Si comprende allora come mestieri apparentemente vetusti come il sarto o il ricamatore, il tessitore o il tintore, il figurinista siano invece oggetto di grande richiesta negli atelier, dove l’innovazione e la ricerca rappresentano uno stimolo vitale per questo artigianato. Molti sono infatti i corsi di formazione che si stanno attivando proprio per ovviare alla carenza di personale specializzato e per formare nuove e giovani leve del cucito e non solo. E’ questa ad esempio una delle mission della Camera Europea dell’Alta Sartoria, nata nel 2007 proprio per salvaguardare e tramandare la più nobile tradizione, senza però perdere di vista le esigenze concrete del mercato del lavoro.
Se le varie scuole di moda e design pullulano di aspiranti creativi, più magre sono però le file dei giovani desiderosi di apprendere le arti del confezionamento di abiti o del ricamo, relegate ancora nelle mani esperte degli artigiani più anziani. Eppure la carenza di manodopera capace rende questo settore fertile di opportunità lavorative, come dimostrato dai numerosi annunci di offerte d’impiego, rappresentando un’occasione più unica che rara in tempi di diffusa disoccupazione.
L’Alta Moda fonda dunque la creatività, l’innovazione e l’originalità su solide basi, che pongono al centro la qualità del lavoro, l’attenzione al dettaglio e la ricercatezza nella realizzazione del prodotto, introvabili nelle confezioni industriali. Questi abiti, che racchiudono il lavoro e l’impegno di tante persone, che hanno reso la moda un’eccellenza italiana, potrebbero allora rappresentare un rilancio per l’artigianato e un importante sbocco per il futuro di molti giovani.