statigeneralicultura13“La cultura è una scelta che resta da fare” afferma Giorgio Napolitano durante il discorso di chiusura della 1° edizione degli Stati Generali della Cultura ed è così che il direttore del gruppo Il Sole 24 Ore, Roberto Napoletano – artefice del “Manifesto della Cultura” – esordisce alla 2° edizione degli Stati Generali. Obiettivo dell’evento è creare un proficuo momento di dibattito sulle attività, strategie e azioni in materia culturale e sottolineare l’urgenza dell’adozione di misure legislativo-economiche capaci di porre la cultura al centro dell’agenda politica del nostro Paese. Il tutto nell’ottica dell’applicazione concreta del precetto dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

Molti sono gli interventi illustri per presentare lo status quo del sistema culturale e le possibili soluzioni partendo proprio dai cinque pilastri costitutivi del “Manifesto della Cultura”: costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione tra Ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito, complementarietà pubblico-privata, sgravi fiscali.

Le proposte non si fanno attendere a lungo e ad aprire le fila è Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma. Il suo intervento, dai tratti volutamente provocatori, riscuote ampio favore e prospetta soluzioni che richiedono l’intervento fattivo del Governo: modifica della Carta Costituzionale, ritenuta obsoleta rispetto alle reali esigenze del Paese soprattutto per ciò che concerne il ruolo dei privati a supporto della cultura; gestione privata di tutti quei luoghi culturali attualmente inaccessibili per creare occupazione, economia e sviluppo; intervento della normativa fiscale a favore del mecenatismo e delle sponsorizzazioni culturali capace di garantire la totale detraibilità degli importi a sostegno delle attività culturali; centralità della cultura nella manovra economica.

Il carattere economico della cultura è il fulcro del ragionamento di Marco Magnani – Senior Research Fellow Kennedy School of Economics-Harvard University, Presidente Intercultura / A.F.S. – che cerca di rispondere alla domanda “Esiste una relazione fra cultura ed economia?”. Ovviamente sì. La cultura crea un impatto sulla crescita economica grazie all’indotto che ne deriva (si pensi ad esempio al binomio turismo-cultura e cultura-tecnologia, alla nascita di nuove professioni nel settore culturale, etc.), ma deve essere considerata nella sua accezione materiale, contenutistica e patrimoniale, se si vuole attivare il “moltiplicatore”. Secondo Magnani la cultura ingloba in sé diversi ambiti e deve essere considerata nel suo insieme per funzionare correttamente giacché è fondata sulle qualità del capitale umano, costituito dalla conoscenza implicita ed esplicita alla base della formazione del vantaggio economico. Da sola, però, la cultura non può sostenersi visto che i ricavi non riescono a coprire i costi e, pertanto, sono necessari degli investimenti, siano essi pubblici o privati, e una sua corretta gestione. Solo così si possono avere dei ritorni elevati e può scattare il “moltiplicatore”.

A rafforzare la tesi della cattiva gestione delle risorse di Magnani, è l’intervento di Giuseppe De Rita – Presidente Censis – che evidenzia il problema nella volontà della classe dirigente di mantenere i propri privilegi provocando l’impoverimento della cultura e la sua banalizzazione. Ma allora come si potrebbe risolvere la questione? Attraverso la creazione di un Masterplan per l’industria culturale a medio-lungo termine? La soluzione è di far adattare la politica culturale al territorio attraverso una crescita orizzontale delle risorse. “Solo il territorio ridà alla cultura il rapporto con la dimensione orizzontale della comunità che le sta intorno”, afferma De Rita, e sostiene che è necessario essere consapevoli dello stato reale delle cose inglobando nel masterplan il “buco nero del Mezzogiorno” e l’attuale assenza della dimensione privata.

Anche l’intervento di Patrizio Bertelli – AM Gruppo Prada – evidenzia una deficienza nel sistema culturale italiano incapace allo stato attuale di creare risorse e sostiene che “la cultura non si potrà sviluppare se il nostro Paese non prende atto che si deve investire in questi settori.”

L’intervento della Senatrice a vita Elena Cattaneo – Docente e Direttore del centro di Ricerca sulle cellule staminali Unistem Università di Milano – sposta l’attenzione sulla “ricerca scientifica e tecnica” e sulle problematiche che gli scienziati devono quotidianamente affrontare sia per i continui tagli al settore sia per l’inadeguatezza della normativa in materia. Il suo discorso sottolinea come la realtà scientifica attuale sia solcata da paradossi e come, nonostante le avversità, l’Italia sia all’avanguardia nella sperimentazione scientifica a livello mondiale. La scienza viene paragonata a un grande e desolato deserto dove gli studiosi si trovano da soli di fronte all’ignoto. Ma in questo deserto si può e si deve entrare purché si abbia un’idea e il coraggio d’intraprendere per primi strade mai solcate, visto che quando i risultati arrivano si toccano le vette più alte. Le sue parole sono permeate dall’amore profondo per la sua professione, dall’orgoglio di essere una studiosa italiana e da un’inguaribile ottimismo quando afferma “la scienza può portare lontano e bisogna esserne consapevoli ogni volta che non si investe nello studio.”

Un ottimismo che condivide insieme con Giorgio Squinzi – Presidente Confindustria – proprio in occasione della XI Giornata della Ricerca e dell’Innovazione. L’accento posto all’esigenza di investimenti per la ricerca assume un carattere ancora più significativo per il Presidente, il quale dichiara “dobbiamo ritrovare le nostre potenzialità di crescita e dobbiamo credere nella ricerca e nell’eventualità di giocare un ruolo fondamentale nel mondo. Dobbiamo crederci e fare delle scelte.”

Una ventata di ottimismo e di cambiamento arriva direttamente dalle parole del premier Enrico Letta: “Con il Decreto Valore Cultura si è creata un’inversione di tendenza: rimettere la cultura al centro dell’attenzione perché, capovolgendo le parole di un mio collega, con la cultura si mangia.” Ascoltando il Presidente del Consiglio Enrico Letta si ha la sensazione che il Governo abbia compreso realmente il valore insito e le potenzialità della cultura nella crescita e competitività del nostro Paese, soprattutto quando espone i quattro punti chiave dell’agenda politica. In primis, sull’onda del successo riscosso dalla partecipazione di ben venti città italiane alla nomina di Capitale Europea della Cultura, il Governo intende istituire annualmente la Capitale Italiana della Cultura con l’obiettivo di valorizzare le realtà territoriali del nostro Paese, di creare un fermento creativo e progettuale stimolando sia l’intervento pubblico sia gli investimenti privati e di dare un nuovo impulso al turismo di qualità. Obiettivo di Letta è di avere la prima Capitale già nel 2014, inaugurando l’iniziativa il 27 maggio, data simbolo per ricordare l’attentato agli Uffizi del 1993 da un lato e, dall’altro, aprire una nuova era della politica culturale.
Secondo punto chiave è il credito d’imposta sulla ricerca che il premier dice di “voler estendere non solo al cinema e alla ricerca ma a tutta la cultura” e prosegue affermando che i tagli derivanti dalla spending review non “finiranno nel calderone”, giacché saranno ripartiti su tre obiettivi principali: riduzione delle tasse sul lavoro, finanziamenti specifici in ambito produttivo – come la cultura, la ricerca e l’educazione – e riduzione del deficit e del debito.
Sul tema degli investimenti pubblici in materia culturale il primo ministro pone grande accento dichiarando che è necessario “migliorare i finanziamenti culturali” perché la cultura, l’educazione e la ricerca sono stati oggetto “di tagli lineari”.

Ultimo punto chiave dell’intervento di Letta è l’Expo del 2015 dove “la cultura avrà un ruolo fondamentale” visto e considerato che “l’Italia per cinque mesi avrà la possibilità di mostrare tutte le sue eccellenze”.

Da qui parte la proposta per il futuro di Benito Benedini, Presidente del Gruppo 24 Ore: “l’Expo è Italia e ci si augura che la si visiti seguendo le piste della cultura. Allora perché non si individuano venti opere capaci di rappresentare l’Italia e magari inviarle nei Paesi che parteciperanno all’Expo?” Un’idea lungimirante in grado di rifondare e riformulare l’identità nazionale su principi culturali condivisi capaci, però, di inglobare le molteplici vie tracciate sulla strada della conoscenza che fanno parte del nostro DNA culturale. Un DNA che è ben rappresentato nella sua dicotomia dall’art. 9 della Costituzione dove per cultura non si intende solo l’aspetto materiale ma anche quello immateriale, ossia un sottofondo di conoscenza tecnico-scientifica, di ricerca, di creatività e di innovazione impalpabili che vanno di pari passo con le rivoluzioni artistiche e del sapere. Un “patrimonio” a volte ingombrante da dover gestire che urge risposte e una riorganizzazione fattiva affinché la cultura non resti “una scelta da fare”, ma “la scelta da fare” per apportare una ventata di cambiamento a un sistema antiquato e zoppicante.

Come afferma Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma – “la cultura per me è l’energia pulita di questo Paese e dal PIL dovremmo passare al PIC, Prodotto Interno Culturale. Noi possiamo farcela. L’Italia ha i mezzi per farlo.”

Ce lo auguriamo.

 

apolloedafnemibactAlcuni giorni fa, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ( MiBACT) Massimo Bray ha presentato ufficialmente la relazione elaborata per il suo rilancio da una commissione di esperti, presieduta da Marco D’Alberti, docente e studioso di Diritto Amministrativo comparato, nonché autore di uno studio dedicato a “Poteri pubblici, mercati, globalizzazione”(2008).

La crisi che ha investito “il modello italiano” dei beni culturali è ammessa e descritta in un capitolo dal titolo eloquente “Gli annosi ritardi funzionali e strutturali del Ministero”, inserito nell’impegnativo e corposo lavoro. Dopo ben quattro riforme, “i problemi che da decenni affliggono l’amministrazione dei beni culturali non hanno ancora trovato adeguata risposta, nonostante i molti i studi e rapporti, pubblicati anche da diversi organi di controllo (quali la Corte dei conti e la Ragioneria Generale dello Stato), che hanno evidenziato le numerose disfunzioni di cui soffre il Ministero. E queste sono le sovrapposizioni di competenze, le troppe linee di comando, la cattiva distribuzione del personale, in una cornice di cronica scarsità di risorse che preclude anche le possibilità d’innovazione”.

Sembra che Massimo Bray voglia invertire la rotta, affidando ancora una volta il rilancio dei beni culturali e del turismo al binomio “cultura e organizzazione giuridica”, anche se non è più l’insieme delle leggi Bottai a sostenerlo. Quest’impostazione in passato, ha avuto il suo elemento vincente nella ricerca e nel restauro, malgrado la cronica scarsità di risorse che ha afflitto il Ministero, sin dalla sua istituzione. La globalizzazione dei rapporti mondiali unitamente alla crisi finanziaria, che costringe a ridurre sempre più le risorse che lo Stato mette a disposizione, potevano essere un’occasione per riconsiderare questa visione, se, con maggiore coraggio, si fosse voluto compiere quel salto di qualità che alcuni settori del mondo della cultura auspicavano.

L’avere posto l’accento sugli aspetti organizzativi ha avuto come conseguenza il lasciar emergere una certa ansia di posizionamento nel dibattito in corso su federalismo, centralismo e conseguenze negative in termini di burocrazia, che ha investito il nostro paese, e che ha indotto gli esperti di Bray ad un’enfasi nel sottolineare la funzione del “centro”, sede dei tradizionali compiti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, individuati quali onore/onere della struttura romana del MiBACT, composta da otto di Direzioni Generali, mentre la periferia del sistema è relegata a un ruolo residuale di gestione economico-amministrativa (le Direzioni Regionali), e soprattutto scientifico (le Soprintendenze), senza controllo su istituti e musei (almeno i maggiori) per i quali è prevista un’autonomia gestionale (orari di apertura e prezzo dei biglietti).

Si comprende che la riforma si gioca ancora una volta sul restyling delle Direzioni Generali compiuto tenendo conto della spending review che ha imposto la loro riduzione, nell’insieme, da 29 a 24, costringendo ad una operazione contabile di sottrazione di posti dirigenziali da una parte e di collocamento altrove, in modo che “il saldo finale” rimanga invariato. Così nonostante si sottolinei la necessità di ridurre le Direzioni Generali (spesso con sovrapposizioni di competenze), è possibile ipotizzare la creazione di una Direzione del Patrimonio e del Paesaggio che assorbirebbe le funzioni svolte dall’attuale direzione per la Valorizzazione, voluta dal governo Berlusconi nel 2009; si suggerisce la creazione di due o forse tre “direzioni centrali” con funzioni “orizzontali”: una Direzione per l’innovazione ed i sistemi informativi, una per il personale, una per il bilancio (con particolare cura- si noti- “a processi contrattuali centralizzati”). Le novità potrebbero essere la Direzione per il Patrimonio Culturale (una DG soltanto, “seppur non unanimemente condivisa” sul modello dell’Ufficio centrale degli anni’90, al posto delle due attuali per recuperare un posto dirigenziale), quella per gli Istituti Culturali (biblioteche, archivi, musei), una sola per lo Spettacolo (accorpando quindi cinema e spettacolo dal vivo), una ovviamente per il Turismo ed infine una di staff del Ministro (che curerebbe anche la pianificazione, proposta che ci fa comprendere il ridimensionamento della figura del Segretario Generale). Ugualmente rivoluzionario, seppur tardivo il connubio –riconosciuto come necessario- con settore del Turismo, anche se in attesa dell’annunciato Decreto Turismo, è presentato al momento, come una sommatoria di criticità.

Quanto sopra è un insieme d’innovazioni che hanno una rilevanza soprattutto all’interno del MiBACT, perché riguardano aspetti organizzativi relativi al proprio personale dirigenziale e non, anche se fondamentali per capire quale sia il reale interlocutore preposto a ogni singolo problema. Ma se si vuole approfondire il rapporto fra il MiBACT e il mondo che gli ruota intorno e che attende di conoscere nuovi progetti e programmi, scorrendo le pagine del documento, si nota l’ assenza di una definizione di cultura, che non sia una mera sommatoria di beni. Lacuna non da poco! Se ci fosse stata, si sarebbe potuto prendere atto che la cultura nell’Occidente globalizzato è un “bene di consumo” e che l’uso delle tecnologie digitali fanno sì che l’Europa (ma non più l’Italia) sia una delle mete preferite del turismo globale e che i settori del Made in Italy che si stanno salvando dalla crisi epocale che ha investito il nostro paese sono quelli, che accettando questa visione, si sono profondamente svecchiati e rinnovati, facendo leva sulla creatività. Il consumo culturale nei paesi più avanzati, sta operando una trasmissione di valori attraverso “attività innovative”, facendo percepire che anche la tutela “sacrosanta” passa attraverso valorizzazione e comunicazione e che la cultura può essere gradevole e garantire degli introiti, senza rimanere impantanati nel pregiudizio che tutte le attività imprenditoriali siano losche o con poca valenza sociale e che solo lo Stato possa garantire la mission di tutela.

Fra le proposte più interessanti, c’è sicuramente quella che suggerisce di assegnare a cooperative di giovani (battezzate un po’ infelicemente “cooperative della conoscenza”!) la gestione di biblioteche , archivi e musei, che, purché non si riduca “more italico” in un carrozzone per assunzioni clientelari nascoste, costituisce un riconoscimento di un mondo che va oltre la gestione esclusivamente pubblica, e che opera per la fruizione e la conoscenza del patrimonio storico artistico.

Da leggere con attenzione anche la parte dedicata alle procedure di assegnazione dei lavori, giacché volta a tutelare una serie d’imprese artigianali che rischiano l’esclusione dal mercato, nel caso di gare con importo “sopra soglia”. Senza dubbio l’esempio della vicina Francia con il “Code des marchés publics” sulla falsariga delle direttive comunitarie, offre un’idea di lodevole chiarezza e forse un modello da perseguire. Quanto all’organizzazione di mostre, la problematica va individuata non tanto nella controversia annosa che contrappone il settore pubblico a quello privato, in merito alla loro ideazione, ma in una corretta programmazione pluriennale, che eviti il proliferare di iniziative inutili, volte a soddisfare ambizioni di amministratori locali, di funzionari o di privati e che inserisca invece l’attività di mostre (che siano comprensibili e apprezzate dal pubblico), nell’offerta turistica di Comuni e Regioni.

La conclusione è che urge una visione che inserisca i temi più scottanti quali il finanziamento, gli organici, la semplificazione delle procedure in un quadro ben più ampio di necessaria riforma della Pubblica Amministrazione – dato che quella italiana è una delle più antiquate d’Europa- da compiere organicamente, anche per rimediare alle opacità, che sono sistematicamente messe in risalto dai media, espressione dell’opinione pubblica. Molti dei problemi lamentati possono essere risolti operando una modernizzazione profonda che utilizzi appieno tutti gli strumenti a disposizione per velocizzare e rendere trasparenti e imparziali le procedure, per approdare a un sistema in cui, i “servizi resi ai cittadini” siano realmente il punto di riferimento, allo scopo di offrire al pubblico un’offerta qualitativamente differenziata, prescindendo dalla difesa di posizioni di lavoro privilegiate.

La commissione riconosce anche che i servizi per il pubblico “ hanno bisogno di una nuova sostenibilità, rispetto ad una domanda profondamente mutata” e necessitano di essere inseriti all’interno di un “progetto di rilancio del sistema dei beni culturali, dei musei , dei complessi archeologici”, con cambiamenti radicali organizzativi delle Soprintendenze, che nel loro insieme –per difficoltà interne- spesso manifestano lentezze nella loro attività”. Forse il rimedio non può essere visto solo in una loro auspicabile maggiore autonomia. Se non viene compiuto un radicale cambiamento di mentalità, che investa tutti i settori del Paese, semplificando una burocrazia che è una sommatoria di funzioni regionali, provinciali, comunali e prerogative dello Stato, non sarà possibile convertirsi all’idea che la cultura è una risorsa importante che non prevede monopoli.

 

 

Anna Maria Reggiani è Direttore Generale Emerito presso Ministero Beni e Attività Culturali

 

Il 20 novembre 1989 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sottoscriveva la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, che compie oggi 24 anni. Questa data è perciò celebrata in tutto il mondo per ricordare l’importanza di tutelare i più piccoli e i loro diritti fondamentali.

bambinimondo

 

 

L’invito lanciato dall’UNICEF quest’anno è in particolare quello di cancellare la violenza sui bambini, per cui ha istituito anche un sito web e lanciato un apposito hashtag: #ENDviolence against children. La società civile mondiale è così chiamata a non chiudere più gli occhi dinnanzi a questi orribili abusi, ma a denunciare tali crimini, che passano troppo spesso inosservati e impuniti.

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L’Italia ha ratificato la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza nel 1991 e oggi il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricordato questa particolare ricorrenza affermando che: “Poter essere accolto e crescere all’interno di un ambiente familiare sereno rappresenta un fondamentale diritto del minore, un bene sociale irrinunciabile”. Il Presidente del Senato Pietro Grasso ha invece menzionato il dato secondo cui oltre il 10% dei ragazzi italiani non è iscritto a scuola, denotando “un impoverimento etico, in cui valori quali giustizia, uguaglianza, merito, tutela dei diritti fondamentali, sembrano non trovare più cittadinanza”.

Nel Rapporto UNICEF 2013 relativo al benessere dei Bambini nei Paesi ricchi, il nostro Paese figura al 22° posto su 29 nazioni esaminate.
In particolare:

– Benessere materiale: 23° posto su 29
– Salute e sicurezza: 17° posto
– Istruzione: 25° posto
– Comportamenti e rischi: 10° posto
– Condizioni abitative e ambientali: 21° posto

Questi dati devono farci riflettere per comprendere che molto c’è ancora da fare. La giornata del 20 novembre deve perciò rappresentare un monito importante per ricordare quanti e quali diritti devono essere garantiti a ciascun bambino.

UNICEF Italia ha lanciato per l’occasione la campagna “IO come TU – Mai nemici per la pelle”, volta ad eguagliare tutti i bambini, senza distinzione alcuna, attraverso una lunga catena umana contro le discriminazione dei minori di origine straniera presenti nel Paese. Il programma prevede inoltre più di 100 eventi pubblici come seminari, incontri, marce, laboratori, volti in particolare a garantire il diritto di cittadinanza ad ogni bambino.

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Il Telefono Azzurro, associazione da anni impegnata nell’aiuto dei minori, coglie a sua volta l’occasione per lanciare un appello alle istituzioni nazionali e raccoglie in 14 punti le misure di intervento necessarie per garantire una adeguata tutela dei bambini.

1 – Che vengano incrementate le risorse attualmente assegnate al Fondo per le politiche sociali, al Fondo nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, nonché al Fondo nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, anche attraverso l’utilizzo di una copertura finanziaria ipotizzata in un primo momento dal Governo che avrebbe portato ad un aumento dell’aliquota al 22 sulle rendite finanziarie, con introiti conseguenti che superano di gran lunga i 100 milioni di euro l’anno;

2 – Che vengano aumentate le risorse da destinare a livello nazionale e regionale per la piena attuazione dei diritti dei bambini e degli adolescenti che vivono in Italia partendo da un congruo rifinanziamento del “Fondo asili nido”, istituito durante la XV Legislatura, prevedendo un ripianamento del taglio di risorse perpetrato dall’attuale Legge di Stabilità al Fondo per il contrasto alla pedopornografia, e prevedendo adeguate risorse economiche per il prossimo bando di affidamento del Servizio 114 Emergenza Infanzia;

3 – Che vengano previsti interventi per il sostegno delle famiglie in condizione di povertà estrema, in aggiunta a quanto già previsto in modo ancora non adeguato dalla legislazione vigente, promuovendo politiche attive e misure efficaci di sostegno alla famiglia. Ciò dovrebbe avvenire anche attraverso lo stanziamento di apposite risorse destinate non solo all’incremento delle strutture e dei servizi socio educativi per l’infanzia, ma soprattutto al potenziamento dei servizi di prevenzione e cura offerti dal sistema sanitario, e più in particolare dalle professioni pediatriche, garantendo l’attuazione e l’uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale;

4 – Che venga previsto un accentramento e una razionalizzazione delle competenze istituzionali sull’infanzia e l’adolescenza, attualmente eccessivamente frammentate, al fine di consentire un’azione realmente efficace delle politiche in materia, istituendo presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un Dipartimento responsabile delle scelte strategiche e politiche che incidono sulla vita dei bambini e degli adolescenti nel nostro Paese che operi in pieno coordinamento con la Commissione Bicamerale per l’infanzia e l’adolescenza recentemente costituita;

5 – Che sia colmata la carenza di un adeguato sistema di raccolta dati sulla condizione dei bambini e degli adolescenti, non solo promuovendo maggiormente l’azione degli organismi attualmente deputati a questa funzione, ma anche stanziando adeguate risorse per l’istituzione di un “Osservatorio permanente”, composto da bambini e adolescenti, capace di offrire dati puntuali e aggiornati sulla loro condizione, favorendone l’ascolto e la partecipazione attiva anche attraverso le nuove tecnologie.

6 – Che siano assicurate adeguate risorse per contrastare la prostituzione minorile e il gioco d’azzardo, fenomeni che attualmente coinvolgono sempre più la vita dei minori, partendo innanzitutto dal ripristino delle risorse tagliate dalla Legge di Bilancio per il 2014 ai programmi relativi al contrasto al crimine, la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, nonché attraverso l’istituzione di un fondo specifico per la prevenzione e la cura delle dipendenze patologiche da gioco rivolto anche ai minori;

7 – Che sino incrementate le risorse attualmente previste dalla Legge di Stabilità per il 2014 finalizzate a finanziare il Fondo nazionale contro la violenza sessuale e di genere che all’articolo 7, comma 8 della Legge di Stabilità stessa autorizza una spesa pari a 10 milioni di euro, destinando adeguate risorse per il contrasto alla violenza perpetrata in ambito familiare e fra i giovani adolescenti, nonché per strutture specializzate nella cura delle conseguenze fisiche e psichiche degli abusi sessuali e dei traumi vissuti nell’infanzia e nell’adolescenza;

8 – Che, rispetto al fenomeno del bullismo siano attivate misure di prevenzione e contrasto realmente efficaci, prevedendo anche in Italia l’istituzione di una giornata nazionale sul bullismo, nonché lo stanziamento di risorse per la formazione degli insegnanti e delle altre figure educative (ad esempio, quelle presenti nei contesti sportivi), superando l’attuale dispersione di risorse in progetti di diversa natura ed incerto impatto risolutivo;

9 – Che siano adottate adeguate iniziative volte a concedere la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati nati in Italia, perché solo l’applicazione del principio dello jus soli consentirà di sostenere il processo di integrazione socio-culturale verso un’effettiva convivenza tra persone di origine diversa;

10 – Che venga attivato anche in Italia, come in altri Paesi Europei, il sistema di allerta in caso di scomparsa dei minori e che il Comitato Media e Minori, recentemente costituito, si attivi quanto prima ad adottare provvedimenti tesi a proibire la spettacolarizzazione dei casi di cronaca relativi ai minori da parte dei media, come raccomandato dalle Guidelines del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010;

11- Che siano varate al più presto le disposizioni attuative della legge n. 62 del 2011 sulle detenute madri, in moto tale da evitare che i figli trascorrano i primi anni della loro vita (0-3 anni) in ambiente carcerario;

12 – Che sia data piena attuazione, anche attraverso lo stanziamento di apposite risorse finanziarie, al decreto legislativo 12 luglio 2013 n.14 in materia di equiparazione di figli naturali e figli legittimi;

13 – Che venga aperto in sede Parlamentare un confronto trasversale sulle problematiche inerenti i provvedimenti di affido dei minori e sulle questioni concernenti le adozioni nazionali e internazionali;

14 – Che siano destinate adeguate risorse per la cura dei disturbi mentali di bambini e adolescenti, impedendo il ricorso al ricovero in strutture psichiatriche per adulti, pratica ancora in uso in alcune parti del nostro Paese.

 

La Onlus Save the Children ha invece scelto di coinvolgere le Regioni italiane che, secondo quanto prevede la distribuzioni di competenze, sono responsabili in determinati settori di rilevanza sociale. A loro è stato rivolto l’invito affinché istituiscano la figura del Garante regionale dell’Infanzia e la Conferenza dei Presidenti dei Consigli Regionali ha supportato l’iniziativa facilitando l’adozione di una risoluzione in tal senso. Save the Children ha inoltre colto l’occasione per rilanciare la campagna già avviata lo scorso maggio dal titolo “Allarme Infanzia”con l’obiettivo principale di combattere la povertà infantile nel Paese.

allarmeinfanzia

Nazi Art DatabaseE’ recente la notizia del ritrovamento a Monaco di Baviera circa 1.500 opere dei maestri della pittura moderna (Pablo Picasso, Henri Matisse e Marc Chagall) confiscate durante il Nazismo a collezionisti ebrei, per un valore pari a un milione di euro.
Ci troviamo al centro di un dibattito internazionale che interessa la restituzione alle famiglie ebree del loro patrimonio artistico (ora beni culturali) sottratto durante la seconda Guerra Mondiale dai Nazisti.

Ma quali norme si applicano a simili casi e, soprattutto, chi è in possesso di tali beni è tenuto a restituirli al legittimo proprietario?
La risposta non è di immediata soluzione, posto che si tratta di indagare sull’applicazione di norme internazionali e sulla loro attuazione sul piano nazionale all’interno dell’ordinamento interessato (nel nostro caso tedesco).

Sul piano internazionale, come noto, esistono due Convenzioni (Unesco 1970 e Unidroit 1995), entrambe di fatto inapplicabili a casi simili a quello qui in esame.

La Convenzione Unesco sulla illecita importazione, esportazione e trasferimento di proprietà dei beni culturali (1970) rappresenta un utile strumento per combattere il traffico illecito dei beni culturali con applicazione sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Sebbene prevenga la distruzione e la sottrazione di beni culturali, non è specificamente atta a regolare la sottrazione di opere d’arte da parte dei Nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale, né contiene meccanismi per la composizione di controversie di questo genere. La Convenzione semplicemente stabilisce che lo Stato al quale l’opera è restituita compensi l’acquirente in buona fede senza prevedere regole per le controversie tra privati.

La Convenzione Unidroit (1995) sulla protezione del patrimonio culturale e la lotta al traffico illecito di opere d’arte tende a supplire le lacune della Convenzione Unesco del 1970, in particolar modo, con riguardo al diritto internazionale privato e alla problematica dell’acquisto a non domino affrontata in modo differente dagli Stati contraenti. Legittimato all’azione di restituzione può essere anche un privato: chi detiene un bene che è stato rubato deve restituirlo, essendo irrilevanti i vari passaggi di proprietà a seguito dell’illecita perdita del possesso del bene. Anche se il proprietario (originario o successivo) ha acquistato in buona fede (ovvero con la dovuta diligenza), non impedisce la restituzione del bene, attribuendo al detentore unicamente il diritto ad un equo indennizzo, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso.

Le norme della Convezione Unidroit potrebbero quindi rappresentare la base per intraprendere azioni di restituzione relativamente al patrimonio sottratto dai Nazisti agli Ebrei durante il periodo bellico, ma la limitazione dei cinquant’anni da quando è avvenuta la sottrazione, imposta dalla Convenzione, per la proposizione dell’azione di restituzione, rende impossibile rivendicare beni sottratti più di 66 anni fa o comunque prima del 1963!
Allo stato quindi né la Convenzione Unesco, né la Convenzione Unidroit possono essere di ausilio alla soluzione del caso qui esaminato. Sono così stati introdotti numerosi strumenti di “soft law” che forniscono linee guida per risolvere le controversie legate alla “Nazi-era art”. Ma anche qui ci troviamo in una zona grigia, cosicché le controversie sui beni sottratti dai Nazisti sono per lo più risolte dai giudici nazionali, di volta in volta, sulla base del caso concreto e conformemente al diritto nazionale applicabile.

Una recente sentenza della Corte di Giustizia Federale Tedesca (Bundesgerichtshof) conferma che le norme generali del diritto civile prevalgono sulla legge che regola le restituzioni in Germania. In Germania, infatti, i sequestri attuati sui beni appartenenti agli Ebrei da parte dei Nazisti sono da considerarsi privi di alcun effetto e pertanto nulli a decorrere dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Al di là dei confini della legge applicabile, la restituzione include sforzi per superare gli ostacoli legali. Le difese possono fondarsi sul background storico e su speciali circostanze del caso concreto, così come condurre ad avvalersi di strumenti di “soft law” che hanno dato vita a speciali commissioni dedicate o alla adozione di sistemi di risoluzione delle controversie alternativi alla giustizia ordinaria (ADR) o ancora alla restituzione volontaria dei beni.

In Germania, nel 2003, il Governo ha costituito una Commissione Consultativa per la Restituzione dei Beni Culturali Sequestrati durante la Persecuzione Nazista, in particolare, di proprietà di famiglie ebree, per rendere efficaci i Principi della Conferenza di Washington del 1998: la mediazione obbligatoria è imposta dopo che le parti abbiano esperito ogni rimedio di legge o se le limitazioni di legge abbiano impedito la restituzione.

Ancora, la normativa sulla restituzione del 1990 (Vermogensgesetz) incoraggia le parti, privato e Stato, ad addivenire a transazioni su base amichevole. Ma ci si pone la domanda, una volta risolte tutte le questioni di legge applicabile, se l’erede sia tenuto alla restituzione e a pagare per il predecessore? La soluzione parrebbe propendere per il sì, ove il predecessore conosceva la provenienza illecita e l’erede non poteva non sapere di quella provenienza, usando la “dovuta diligenza”, secondo un principio di buona fede nell’acquisto anche a titolo successorio.
E a chi passa, una volta accertata l’illecita provenienza, la proprietà dei beni recuperati? Al legittimo proprietario, verrebbe da dire, sempre che sia stato risolto il caso sulla base del diritto nazionale applicabile che, come visto, oltre a riguardare regole di diritto interno (nel caso in esame di diritto tedesco), non appare sempre di facile soluzione.

 

 

Silvia Stabile è avvocato esperta in Diritto della Proprietà Intellettuale e Diritto dell’Arte, partner dello Studio Legale Negri-Clementi

pellicolacinemaAnnunciata fin da prima dell’estate (inizialmente con l’ambiziosa denominazione di “Stati Generali”), il 14 ottobre 2014 è stata ufficializzata dal Mibact l’iniziativa promossa da Massimo Bray, la “Conferenza Nazionale del Cinema”, che si terrà martedì 5 novembre a Roma presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, con una appendice conclusiva sabato 9 novembre nell’ambito del Festival Internazionale del Cinema.

Chi scrive quest’intervento presiede un istituto di ricerca specializzato da vent’anni sulle politiche culturali e le economie dei media e, da un quarto di secolo, studia queste tematiche: nel corso di questo lungo lasso di tempo, ha osservato come il livello di trasparenza ed accuratezza del “sistema informativo” della cultura italiana sia purtroppo migliorato ben poco.

Lo stato dell’arte delle conoscenze (statistiche, socio-economiche, istituzional-normative) della politica e dell’economia culturale in Italia resta sconfortante, se confrontato con la Francia, il Regno Unito, la Germania. I dati disponibili sono frammentari e disomogenei, sia sul fronte del consumo sia sul fronte dell’offerta, le letture scenaristiche rarissime, l’analisi critica dell’intervento della mano pubblica una “mission” (quasi) “impossible”.

Stendiamo un velo pietoso sulla qualità della relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (zeppa di dati, ma carente di lettura strategica), e registriamo che l’onda lunga di trasparenza avviata anni fa da Walter Veltroni quando fu Ministro per i Beni e le Attività Culturali è ancora in corso (la relazione annuale sul Fus è migliorata anche se resta un tomo sostanzialmente inutilizzabile, la Dg Cinema del dicastero, diretta da Nicola Borrelli, si sforza di rendere più leggibili i propri dati ma è assente ogni analisi critica), eppure siamo costretti a denunciare l’assenza di un dataset minimamente adeguato a comprendere criticamente lo stato di salute del sistema audiovisivo. Qualche mese fa, Anica e Dg Cinema presentarono un dossier statistico asettico intitolato “Tutti i numeri del cinema italiano”. Scrivemmo che l’ambiziosa titolazione doveva essere corretta con un più oggettivo “Alcuni numeri (parziali assai) del cinema italiano”, e già una sintonia “statistica” tra Mibac ed Anica stimola dubbi anche in materia di conflitti d’interesse. I “buchi” della relazione al parlamento sul Fus o della specifica relazione della Dg Cinema sono semplicemente enormi. E che dire del ministeriale Osservatorio sullo Spettacolo, che è stato anno dopo anno depotenziato, fino a ridurlo ad una scatola vuota?!

C’è un “disegno”, dietro tutto questo. Forse non esattamente strategico (perché implicherebbe una intelligenza di “policy making” di lungo periodo, che non c’è), ma frutto di dinamiche politiche inerziali, di sedimentazioni conservative. Che, alla fin fine, producono però un risultato: deficit di trasparenza, impossibilità di analisi di impatto. Dati carenti ed analisi asettiche, elaborate da tecnici “partisan” asserviti alla conservazione dell’esistente, cantori del principe. Così il dizionario Treccani definisce “asettico”: “Che è privo di forza creativa, di personalità, di mordente, o che, nelle sue manifestazioni, si rivela freddo, arido, senza calore, privo o incapace di passioni, di preferenze e sim.”: definizioni che paradossalmente ben descrivono la nostra (non) politica culturale italiana.

In un quarto di secolo, siamo riusciti a capire perché questo è lo stato dell’arte: perché, meno si sa, meglio può operare chi è all’interno del sistema (si chiami Fus o appalti Rai). Minore è quindi il rischio di critiche documentate, più ardua la capacità di comprendere le dimensioni quali-quantitative delle aree protette e delle nicchie privilegiate. Parafrasando un qual certo filosofo… “la notte in cui tutte le vacche sono nere”. E chi ha interesse alla nebbia pervasiva? Chi è protetto dalle logiche del sistema. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. E fuori resta.

E che dire della “convegnistica” in materia?! Da decenni, nello specifico del cinema, ri-troviamo le stesse “sigle” (e spesso le stesse persone fisiche a rappresentare le associazioni): Anica Agis Anec Anem Anac Apt… con qualche novello innesto, significativo (100autori) o meno (Apgci). Talvolta ci sono anche i “giornalisti”, ovvero Sncci e Sngci (i due sindacati, “critici” e “giornalisti”, ricordando che l’Italia è l’unico Paese al mondo con due sindacati di giornalisti specializzati in cinema), talvolta i sindacati… Balletti rituali tra lobby grandi e piccole, che stancamente si ripetono. Infinita noia.

Da decenni, registriamo raramente rappresentanti di associazioni che denuncino i deficit del “sistema informativo” del cinema e dell’audiovisivo: noi avremo il vizio dei ricercatori, ma domandiamo loro (così come a ministri ed assessori di turno): come diavolo pensate di “fare politica” (con… scienza e coscienza) del cinema e dell’audiovisivo, se non disponete di dati ed analisi minimamente adeguate?! Ma come può essere invocata la “spending review”, se mancano i fondamentali per capire cosa realmente produce (ed è soltanto un esempio tra i tanti) il sempiterno carrozzone di Istituto Luce Cinecittà?!

Ci stanchiamo a rievocare sempre la disattesa lezione einaudiana del “conoscere per deliberare”: è divenuto un mantra, ma finanche, purtroppo, ormai, un cliché.

L’iniziativa della “Conferenza Nazionale” sembra riprodurre la storica compagnia di giro, con una parvenza di novità di “apertura” democratica, ovvero “dal basso”: dal 14 ottobre al 22 ottobre (una finestra di tempo veramente limitata, di grazia, e comunque certamente una iniziativa mal pubblicizzata), è stata avviata sul sito del Ministero una sorta di pubblica “consultazione”. Si poteva “rispondere” ad una sorta di questionario chiuso: 18 domande 18 su macro e micro questioni del sistema cinematografico, e risposte lunghe al massimo 1.000 battute. Ma si poteva rispondere ad 1 domanda 1 soltanto! Surreale. Elogio della frammentazione?! Metodo “by Mibac” ispirato a logiche di razionalità managerial-aziendalistica “made in Usa”, che cozzano con la libertà che si deve garantire al pensiero creativo. Ed anche al pensiero critico sulla creatività!

Ci siamo rifiutati di accettare una logica così rigida, schematica, chiusa. Non abbiamo risposto – e molti come noi – e non parteciperemo alla “Conferenza”, che prevede 3 “tavoli” (“Cinema: industria culturale”, “Struttura, operatori del mercato e nuovi modelli di distribuzione e fruizione”, “Le politiche pubbliche”; già questa ripartizione evidenzia scotomizzazioni a gogò), che si terranno in peraltro in contemporanea (ed anche questo metodo è sintomatico della volontà di parcellizzare il pensiero critico).

L’architettura metodologica messa in atto è profondamente errata, perché la fisiologia e la patologia del cinema italiano richiedono un approccio organico e sistemico, dati seri e analisi critiche profonde, provocazioni coraggiose, e non l’ennesima passerella di riproposizione di tesi parziali e partigiane, frammentarie e dispersive.

Sarà comunque interessante leggere i risultati concreti della Conferenza Nazionale (in termini di lettura critica del sistema e di proposte di innovazione). Se ne produrrà.

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

 

TITOLOThe Art Collecting Legal Handbookthearthandbook

 

 

COSEChiunque abbia a che fare in modo approfondito con il mondo dell’arte sa quanto sia difficile barcamenarsi tra la legislazione dei beni culturali. Una volta varcati i confini di una nazione, infatti, le normative riguardanti arte e cultura cambiano, così come cambia la tassazione, le leggi che regolano copyright e diritto d’autore, la natura e la forma dei contratti d’artista. The Art Collecting Legal Handbook interviene proprio in aiuto di coloro che in un modo o in un altro hanno a che fare con il mercato dell’arte, presentando degli approfondimenti riguardanti i Paesi europei, ma anche i mercati internazionali di Stati Uniti, America Latina, Cina, Giappone, India, Canada. Una panoramica completa e variegata che colleziona in maniera agevole i punti principali inerenti la legislazione di ogni singolo Paese analizzato.

 

 

COMEIl volume è introdotto da alcuni paragrafi di presentazione del lavoro, che si soffermano anche su argomenti specifici come l’evoluzione del mercato dell’arte o la natura del contratto d’autore. Si entra, poi, nel vivo del testo con l’Argentina per finire con gli Usa e New York, in un’analisi dei principali mercati dell’arte internazionale che viene svolta sotto forma di intervista. I curatori del volume, infatti, Bruno Boesch e Massimo Sterpi, hanno raccolto una serie di interviste ai principali esperti di legislazione culturale del territorio preso in considerazione. La tipologia di domande è sempre la stessa e divisa per settori: “cultural heritage and art market”, “purchase and export”, “peaceful enjoyment”, “sale”, “art philantropy”, “tax” e, per finire, una parte dedicata alle informazioni pratiche e ai contatti.

 

 

PROSi tratta di un testo davvero completo, non solo dal punto di vista “geografico”, in quanto analizza la legislazione di un esteso ventaglio di Paesi, ma anche dal punto di vista contenutistico in sé, trattando un’ampia varietà di argomenti, inerenti sia il diritto comparato dei beni culturali che il mercato dell’arte. La forma dell’intervista, snella e dinamica, facilita la lettura e la comprensione di argomenti che, altrimenti, potrebbero risultare ostici ai non specialisti del settore.

 

 

CONTROIl testo è reperibile solo in inglese e non vi è ancora una traduzione in lingua italiana, o in altre lingue.

 

 

SEGNI PARTICOLARIAlla fine del testo, si trovano i dettagli di contatto di tutti gli intervistati e dei loro uffici legali, di cui sono riportati indirizzo, numeri di telefono, e-mail e sito internet.

 

 

CONSIGLIATO AGallerie, musei, fondazioni, case d’aste, collezionisti, artisti, acquirenti o venditori di opere d’arte, ereditieri, studiosi e studenti di economia della cultura, di diritto, di arte e beni culturali.

 

 

INFO UTILIThe Art Collecting Legal Handbook, a cura di Bruno Boesch e Massimo Sterpi, Thomson Reuters, Londra, 2013.

A woman's finger hovering over the delete keyA volte il passato può essere imbarazzante e creare ripercussioni nel presente. Nell’era dei social network, anche più del solito. Dal 2015, però, i minorenni californiani potranno cancellare foto, dati e informazioni ‘scomode’ facilmente. Come riportato da numerosi media in questi giorni è stata infatti approvata la cosiddetta ‘Eraser law’, la ‘Legge-gomma’, che permette di cancellare il passato digitale dei californiani under 18. La nuova normativa, più in dettaglio, riconosce ai minori di 18 anni il diritto di “ritirare o richiedere la rimozione di contenuti o informazioni scaricate da un sito web o applicazione”: una facoltà rilevante per eliminare dal web eventuali errori di gioventù, quelli che poi magari possono rovinare curricula da sogno e colloqui di lavoro solo per aver postato anni prima la foto della notte brava con gli amici.

La legge è stata emanata dal governatore della California Jerry Brown e entrerà in vigore il primo gennaio 2015, cioè il tempo necessario per consentire ai siti internet interessati di adeguarsi alla nuova normativa. Anche se Twitter e Facebook offrono già questa funzione sui loro siti web. “Gli errori di gioventù ti seguono per tutta la vita e le loro impronte digitali arrivano ovunque si va”, ha spiegato James Steyer , fondatore dell’associazione ‘Common Sense’. Ma i detrattori della legge protestano: “Oltre alla necessità di conoscere l’età degli utenti, i siti avranno bisogno di sapere se vivono o no in California”, sottolinea Stephen Balkam, presidente della ‘Online Family Safety Institute’.

La legge ha riacceso il dibattito circa una delle tematiche più delicate dei nostri tempi segnati dalla comunicazione globale: quella del rapporto tra il cosiddetto diritto all’oblio sulle reti di comunicazione elettronica e la libertà di informazione (sub specie informare ed essere informati). Il diritto all’oblio – soprattutto on line – è un fondamentale baluardo per la protezione della nostra identità persona-le (soprattutto digitale): è il diritto ad essere dimenticati non tanto per una quasi capricciosa volontà di impedire che si parli di noi, ma per evitare che informazioni risalenti, dati personali non aggiornati, fatti che appartengono al passato remoto (tutti facilmente reperibili sul web) determinino complessivamente un profilo della persona – attuale – non corrispondente alla reale identità e modo di essere dell’interessato. Se si pone difatti mente alle efficaci tecnologie e software di incrocio in tempo reale di una mole anche enorme di informazioni tratte dal web, si può intuire come sia reale il rischio di creare identità digitali delle persone con procedure di incrocio selettivo (ad esempio è in voga negli USA l’analisi delle pagine Facebook prima di svolgere colloqui di lavoro con gli interessati) che rivelano gli aspetti anche più intimi della persona, con il rischio di creare un profilo errato e inattuale. E’ una nuova tipologia di danno alla persona ed alla sua identità digitale (che ormai precede l’identità fisica reale nel mondo in cui viviamo).

E allora il diritto all’oblio è uno dei fondamentali diritti della Società dell’Informazione Globale del XXI secolo: è giuridicamente il diritto degli utenti – riconosciuto nel nostro Codice della privacy e rafforzato dal nuovo Regolamento UE sulla protezione dei dati personali che si applicherà dal 2016 – di richiedere ed ottenere (anche dai providers) che i propri dati personali siano cancellati e non siano più oggetto di trattamento laddove non più necessari in relazione alle finalità per cui erano stati raccolti. Il Regolamento UE sulla protezione dei dati personali in corso di approvazione stabilisce inoltre sul tema che spetterà ai social network l’onere di provare (e non all’utente dimostrare il contrario) che la conservazione di una certa informazione è necessaria (sono previste sanzioni economiche da 500 mila Euro all’1% del fatturato globale in caso di inottemperanza).

Come ha evidenziato Stefano Rodotà, che da tempo sottolinea l’importanza del diritto ad essere dimenticati, l’affermazione dell’oblio come diritto della persona è un elemento importante per quella che la nostra Costituzione definisce libera costruzione della personalità: essere prigionieri di informazioni del passato, magari secondarie può essere un ostacolo alla libertà. Ma lo stesso Rodotà ha anche segnalato i problemi applicativi di non facile soluzione pratica: in primo luogo bisogna garantire che questo diritto non diventi uno strumento di censura (si pensi all’oblio in rapporto ai blog o all’informazione giornalistica on line, vero nervo scoperto del rapporto tra due libertà ugualmente fondamentali, la libertà di informazione e la libertà di controllo sulle proprie informazioni); in secondo luogo c’è la difficoltà dell’applicazione pratica: una volta una volta che un’informazione entra in rete diventa difficile seguire il suo percorso. Vi è infine, solo per citare un ulteriore dei molti aspetti del dibattito, l’interesse dei grandi player dei mercati elettronici alle informazioni (ed ai profili) degli utenti: e se è vero – come ha affermato il Commissario UE Viviane Reding – che “i dati personali sono la valuta del mercato digitale”, ci si dovrà attendere una neanche tanto nascosta opposizione quando l’utente chiederà la cancellazione dei propri dati come forma di esercizio diretto dell’oblio (ora è possibile solo una diversa forma di opposizione al trattamento).

In conclusione, per tornare alla legge-gomma californiana, verrebbe da chiedere al Governatore della California se i delicatissimi profili sopra appena evidenziati possano essere gestiti consapevolmente da minori e se forse – sapendo che gli “errori di gioventù” si potranno ora cancellare facilmente – la Eraser-law non rischi di diventare una legge-incentivo alle sciocchezze on line.

 

Alessandro del Ninno è avvocato presso la Tonucci &Partners e professore universitario

 

carignanoLa grave crisi del sistema delle fondazioni lirico-sinfoniche ha imposto al Governo un intervento di salvataggio, operato con il d.l. “Valore Cultura” n. 91 del 8 agosto 2013, in G.U. 9 agosto 2013. Il provvedimento, accanto ad un incisivo sostegno finanziario alle fondazioni maggiormente bisognose – accompagnato da una rimodulazione forzata dei costi ed una ristrutturazione del debito – impone altresì una revisione della governance delle fondazioni. La materia, fino ad oggi disciplinata dal d.lgs 367/1996 (c.d. Legge Veltroni) ha infatti evidenziato gravi profili di inefficienza sia sotto il profilo dell’adeguatezza del sistema dei controlli, sia, per l’effetto, sotto il profilo dell’efficacia del sistema sanzionatorio.

Il sistema di governance delineato dalla Legge Veltroni
Una corretta interpretazione sistematica della disciplina vigente, confermata dalla prassi assolutamente dominante, evidenzia infatti come l’organo cui il d.lgs. 367/1996 pareva aver formalmente demandato il potere di amministrazione, ossia il Consiglio di amministrazione, abbia in realtà un ruolo del tutto subordinato rispetto al Sovrintendente.
Questi, nel sistema della Legge Veltroni, risulta essere il vero titolare del potere gestorio, là dove gli viene attribuita in via esclusiva la gestione della produzione artistica della fondazione e delle attività? connesse e strumentali: in pratica l’intera attività tipica dell’ente. Il Sovrintendente predispone altresì il bilancio preventivo ed il progetto di bilancio consuntivo e tiene la contabilità della fondazione.

Il Consiglio, per contro, è chiamato unicamente ad approvare la programmazione artistica, il bilancio preventivo ed il bilancio consuntivo, tutti predisposti dal Sovrintendente, senza disporre di un potere propositivo alternativo e senza poter verificare, nel corso dell’esercizio, l’effettivo rispetto delle indicazioni fornite e del vincolo di bilancio.
In sostanza, il diritto vivente, così come risultante anche dagli statuti delle fondazioni, ha modellato un sistema di governance assimilabile al sistema dualistico di matrice tedesca, articolato in un organo di indirizzo (l’Aufsichtsrat, qui rappresentato dal Consiglio di Amministrazione) e l’organo di gestione (il Vorstand, qui rappresentato dal Sovrintendente).

In questo quadro, la confusione tra il piano formale, che attribuisce l’amministrazione della fondazione al Consiglio, e piano sostanziale, che invece vede il Sovrintendente quale unico titolare effettivo del potere gestorio, ha reso sostanzialmente inefficace il sistema di controlli ed il collegato impianto sanzionatorio. Ed infatti, non sono noti in giurisprudenza precedenti relativi all’esercizio di azioni di responsabilità dal Consiglio verso i Sovrintendenti, pur dinanzi a significative perdite patite dalle fondazioni per effetto di gestioni non sempre ineccepibili.

La riforma operata dal d.l. Valore Cultura
Il passaggio dal sistema dettato dal d.lgs. 367/1996 a quello introdotto dal decreto Valore Cultura lascerebbe supporre, ad una prima lettura, un completo stravolgimento del sistema di governance delle fondazioni: gli organi necessari passano da quattro a cinque e, tra questi, scompare il Consiglio di amministrazione, ora sostituito dal Consiglio di indirizzo. La nuova struttura si articola così in cinque organi necessari: il Presidente, il Consiglio di indirizzo, il Sovrintendente, l’Organo monocratico di monitoraggio e il Collegio dei revisori dei conti.
Una riflessione più attenta induce peraltro ad affermare che la nuova normativa, lungi dall’apportare una rivoluzione della disciplina, come era accaduto in occasione del superamento della Legge Corona da parte della Legge Veltroni, si sia limitata piuttosto ad adeguare la forma alla sostanza, liberando il sistema dalle aporie e contraddizioni evidenziate nelle pagine che precedono. Le competenze di ciascun organo risultano delineate con maggior chiarezza rispetto al passato ed è oggi possibile individuare il soggetto titolare del potere gestorio (il Sovrintendente), l’organo di indirizzo (il Consiglio di indirizzo) e gli organi con funzioni di controllo (l’Organo monocratico di monitoraggio ed il Collegio dei revisori).

L’aspetto centrale della riforma del sistema riguarda i rapporti tra il Sovrintendente e il Consiglio di indirizzo.
Il Sovrintendente è oggi espressamente definito “unico organo di gestione”, così superando le incertezze sollevate dalla disciplina previgente. Questi viene nominato dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo su proposta del Consiglio di indirizzo e può essere coadiuvato da un direttore artistico e da un direttore amministrativo.
Quanto al Consiglio di indirizzo, l’unica competenza prevista per legge è rappresentata dal potere di proposta al Ministro – apparentemente vincolante – del nominativo del Sovrintendente. Ancora, si soggiunge al comma 17 dell’art. 11, d.l. Valore Cultura, che il Consiglio esercita la proprie funzioni “con l’obbligo di assicurare il pareggio del bilancio”.
Quali siano tali funzioni, tuttavia, non risulta espressamente dalla riforma e occorre procedere pertanto a ricostruire il sistema sulla base delle previsioni della l. 367/1996, nella parte in cui è ancora compatibile con le nuove disposizioni, nonché sulla base dei riferimenti al Consiglio di indirizzo che possono cogliersi indirettamente dalla disciplina degli altri organi.
Deve così ritenersi che il Consiglio di indirizzo, così come in precedenza il Consiglio di amministrazione nel vigore del d.lgs. 367/1996, debba approvare il bilancio preventivo ed il bilancio consuntivo predisposti dal Sovrintendente, là dove nel nostro sistema non è ammesso lo svolgimento di attività gestoria nell’interesse altrui senza un parallelo obbligo di rendicontazione verso il soggetto nel cui interesse l’attività è svolta, ossia i soci fondatori, a loro volta rappresentati dai componenti del Consiglio.
Nascosta, per così dire, tra le pieghe del decreto, l’art. 11, comma 19, attribuisce inoltre al Consiglio la determinazione della pianta organica della fondazione, previa verifica dell’organo di controllo.

Infine, il Consiglio deve poter esprimere delle indicazioni “di indirizzo” al Sovrintendente circa il merito della gestione, con portata vincolante quantomeno con riferimento agli aspetti economici. In difetto, non troverebbe giustificazione la denominazione attribuita all’organo (definito appunto “di indirizzo”), né la responsabilità espressamente prevista a carico dei consiglieri, non potendosi prevedere responsabilità senza potere.
Nella pratica, deve ritenersi che così come già accadeva nel vigore del d.lgs 367/1996, il Sovrintendente debba predisporre annualmente il programma artistico della stagione, unitamente ad una previsione dei costi relativi, da sottoporre all’approvazione del Consiglio di indirizzo. Questo, a sua volta, dovrà valutare la compatibilità del programma della stagione con il bilancio preventivo e la situazione economica, patrimoniale e finanziaria della fondazione, bocciando ogni proposta che non fosse conforme all’obbligo di pareggio di bilancio. Ritengo peraltro che il Consiglio possa altresì bocciare la proposta di programmazione dissentendo sul merito delle scelte artistiche, rimanendo peraltro preclusa la possibilità di apportare alla programmazione modifiche non condivise dal Sovrintendente.

Venendo ora al sistema dei controlli, il decreto Valore Cultura introduce una distinzione tra controllo di legittimità e controllo contabile, già nota alla disciplina delle società azionarie.
Il controllo di legittimità degli atti adottati dall’organo di gestione è affidato all’Organo monocratico di monitoraggio. Questo ha il compito di verificare la sostenibilità economico-finanziaria e la corrispondenza degli atti adottati dall’organo di gestione (il Sovrintendente) con le indicazioni formulate dall’organo di indirizzo (il Consiglio di indirizzo), inviando almeno ogni due mesi una relazione al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo sull’attività di validazione svolta, secondo un prospetto definito con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Il controllo contabile è attribuito al Collegio dei revisori dei conti. Manca tuttavia nel Decreto Valore Cultura qualsiasi riferimento espresso circa le competenze dell’organo che, sulla base di un’interpretazione sistematica, devono essere assimilate a quelle del revisore contabile, oggi previste dal d.lgs. 39/2010. Il Collegio dei revisori deve quindi verificare la correttezza dei documenti contabili predisposti dal Sovrintendente, così fornendo l’ultimo – e fondamentale – elemento necessario al funzionamento del nuovo sistema di governance

Considerazioni di sintesi
Il sistema dettato dal decreto Valore Cultura ha senz’altro razionalizzato la governance delle fondazioni lirico-sinfoniche, oggi finalmente caratterizzata da una chiara separazione di poteri.
Il processo decisionale origina dal Sovrintendente, cui è rimessa la programmazione dell’attività della fondazione, mediante la predisposizione dei piani strategici, industriali e finanziari (cfr. art. 2381 c.c.), preventivamente sottoposti al vaglio di correttezza contabile da parte del Collegio dei revisori e, quindi, all’approvazione vincolante del Consiglio di indirizzo.
L’attività gestoria è invece rimessa alla competenza esclusiva del Sovrintendente ed è soggetta al controllo dell’Organo monocratico di monitoraggio, chiamato a verificare la corrispondenza dei singoli atti gestori posti in essere dal Sovrintendente ai deliberati del Consiglio di indirizzo ed al vincolo di bilancio, dovendo tempestivamente relazionare all’autorità governativa ogni violazione.
Infine, al termine dell’esercizio, il Sovrintendente è chiamato a rendicontare al Consiglio di indirizzo, mediante la predisposizione del progetto di bilancio previamente sottoposto all’esame del Collegio dei revisori, il risultato dell’attività svolta.
Resta da rilevare l’evidente aporia rappresentata dalla previsione contenuta nell’art. 11, comma 17, del d.l. Valore Cultura, che richiama unicamente la responsabilità erariale dei componenti del Consiglio di indirizzo nell’ipotesi di violazione dell’obbligo di pareggio del bilancio.

Invero, è stato chiarito che il Consiglio non ha alcun potere gestorio (spettante al Sovrintendente) né di controllo (spettante all’Organo monocratico di monitoraggio) e, conseguentemente, non può essere gravato da responsabilità in relazione alle eventuali perdite d’esercizio, delle quali è unicamente chiamato a prendere atto al momento dell’approvazione del bilancio consuntivo. Le uniche ipotesi di responsabilità del Consiglio riguardano l’eventuale approvazione di un bilancio preventivo che chiuda in perdita, ovvero l’approvazione di una programmazione artistica non conforme al bilancio preventivo che comporti, per l’effetto, la violazione del vincolo di pareggio del bilancio.
Salve le ipotesi sopra descritte relative alla violazione “programmatica” dell’economicità della gestione, l’assetto dei poteri e dei doveri risultante dalla riforma evidenzia come la responsabilità per la violazione in concreto dell’obbligo di pareggio di bilancio debba essere attribuita al Sovrintendente, quale unico titolare del potere gestorio, nonché all’Organo monocratico di monitoraggio, quale titolare del potere-dovere di controllo. Soggetti, questi, incomprensibilmente ignorati dal legislatore che, nel disciplinare le responsabilità, pare aver scordato la portata delle riforme introdotte nella governance delle fondazioni; carenza cui peraltro si potrà auspicabilmente sopperire nella legge di conversione.

gayrussLa follia del mondo contemporaneo ci ha reso avvezzi a qualsiasi tipo di stravaganza e ormai capita raramente di rimanere esterrefatti davanti a un evento, una notizia, un comportamento che riconosciamo essere inusuale quando non addirittura irrazionale. Non è dato sapere se anche il governo russo confidasse nell’alto grado di assuefazione della gente alle stranezze globali, il giorno in cui ha deciso di approvare a livello federale la legge che vieta la “propaganda omosessuale” e le relazioni sessuali “non tradizionali” in tutta la Russia.

Una decisione che ha portato questo immenso paese molto vicino all’Europa indietro di decenni, riaprendo il dibattito sui diritti della comunità LGBT a livello internazionale. Accade così che mentre gli stati dell’America Latina facciano parlare di sé non solo per i molti miracoli economici, prima annunciati e poi smentiti, ma anche per un’inaspettata apertura nei confronti degli omosessuali – tramite il riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, come è avvenuto di recente in Argentina, Brasile e Uruguay – la Russia abbia legalizzato l’omofobia, arrivando a prevedere la creazione di un meccanismo che possa consentire in un prossimo futuro la sottrazione dei figli alle coppie omosessuali.

Un provvedimento destinato ad avere molte ripercussioni anche sulla vita culturale del paese che dovrà rinunciare ad alcuni dei suoi esponenti artistici più amati e internazionalmente riconosciuti, come dimostrano le prime fughe all’estero di alcuni intellettuali, giornalisti e artisti dichiaratamente omosessuali. Nell’attesa che la musica di Tchaikovsky sia vietata per legge in quanto gay – e perché magari ascoltando le sue composizioni, le ragazze e i ragazzi russi potrebbero subire un’influenza “negativa” – i dettagli sulla vita sessuale del grande compositore sono stati alacremente e silenziosamente eliminati da alcune opere teatrali e cinematografiche, attualmente in lavorazione, sulla vita e sull’ascesa artistica del maestro. A ciò si aggiunge la quasi buffa notizia del divieto imposto da un tribunale di Mosca di realizzare le celebrazioni del gay pride per i prossimi cento anni.

Da qui alla negazione di alcuni diritti fondamentali il passo è davvero breve. Come qualcuno molto saggiamente ha detto, sembra sul serio che non ci sia mai limite al peggio.

 

Vittoria Azzarita è caporedattrice di Tafter Journal

 

decvalcIl 19 agosto 2013 “Tafter” ha proposto alla propria comunità un approfondito dossier sul decreto legge “Valore Cultura”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto.

A distanza di una decina di giorni, proponiamo una qualche integrazione ed alcuni aggiornamenti. Il dossier IsICult / Tafter ha registrato diffusi apprezzamenti, in quanto tentativo finora unico di analisi accurata e complessiva del provvedimento: piace osservare che lo stesso Ministro Bray ha aggiunto ai suoi “preferiti”, poche ore dopo la sua pubblicazione, il Tweet con cui Tafter segnalava il dossier sul decreto legge.

Il Ministro però, ad oggi, non ha ancora ritenuto di rispondere ad alcuni quesiti che gli venivano posti, nell’economia complessiva dei commenti elaborati nel dossier.

Qualche risposta potrebbe emergere dall’iniziativa prevista nell’ambito del Festival di Venezia il 2 settembre prossimo. Non si ha più notizia degli “Stati Generali sul Cinema” che pure erano stati annunciati nell’ambito del Festival di Venezia: in effetti, l’organizzazione dell’iniziativa – secondo alcuni affrettata e soprattutto mal preparata (si segnala il caustico articolo di Stefano Pierpaoli, attivista del cinema indipendente italiano, pubblicato il 3 luglio sul blog “Consequenze Network di cultura partecipata”, dall’eloquente titolo “Il Mi(ni)stero delle Attività Culturali – Partite di giro e riunioni segrete”) – era stata frenata dagli annunci polemici “delle categorie” sul piede di guerra: i cinematografari tutti (dagli autori ai produttori) avrebbero disertato iniziative veneziane con presenza governativa, se non fosse stato prima ripristinato il tax credit.

Il 20 luglio, una ventina di associazioni del settore cinematografico italiano avevano diramato un comunicato di fuoco contro il Governo Letta, dal titolo netto e chiaro: “Il Governo impedisce l’approvazione del rifinanziamento del tax credit”, mentre tutto il Parlamento all’unanimità l’avrebbe approvato. Il presidente Letta ha detto: “Mai più tagli alla cultura, se dovesse avvenire mi dimetterei”. 45 milioni in meno al cinema, la più grande industria culturale del Paese: PRESIDENTE CHE FA?????? È incredibile! Si condanna il cinema italiano alla chiusura. Dopo che al Fus sono venuti a mancare circa 22 milioni di euro, ora si tagliano altri 45 milioni al Tax Credit, rendendo impossibile produrre cinema e audiovisivo in Italia”.
Il tono del comunicato era esasperato (incluso il maiuscolo sulla domanda retorica al premier ed i 6 punti interrogativi 6), ed aveva un sapore un po’ passatista: non sappiamo chi sia stato l’estensore della prima bozza, ma scommettiamo che abbia un passato da sindacalista. Si leggeva che la decisione assunta dal Governo avrebbe impedito “alle produzioni straniere di venire a produrre da noi, con gravissimi danni per esempio a Cinecittà, aprendo di nuovo la strada alla delocalizzazione delle produzioni italiane, mettendo a rischio di chiusura il 40 % delle sale cinematografiche, in prevalenza piccole e medie strutture, che non potranno digitalizzare gli impianti. Eppure il cinema e l’audiovisivo fatturano il doppio del trasporto aereo!!!”.

Non entriamo nel merito di queste simpatiche stime nasometriche sulle dimensioni del settore (3 punti esclamativi 3 inclusi), perché più volte abbiamo dimostrato, anche sulle colonne di “Tafter”, che una delle cause della crisi del sistema culturale italiano vada ricercata proprio nella fallacia delle analisi economiche, nel deficit del sistema informativo-statistico, e nella conseguente impossibilità di disegnare prospettive affidabili e efficaci strategie. Stile retrò a parte, il tono del comunicato era oggettivamente minaccioso. Si leggeva ancora: “Ma il Ministro dei Beni Culturali indice una assise a Venezia per parlare di cinema. Le associazioni tutte, ancora una volta unite e compatte, non parteciperanno ad alcun convegno veneziano, ritireranno immediatamente i propri rappresentanti dai tavoli preparatori degli “Stati Generali”, riterranno sgradita la presenza di chiunque del Governo voglia presenziare a manifestazioni veneziane, annunciando fin d’ora di uscire dalle sale di proiezione se questo accadesse, metteranno in campo da oggi le iniziative di lotta e mobilitazione più utili, efficaci, eclatanti, per far capire ai cittadini come l’Italia sarà più povera senza il proprio cinema”.

“Last minute”, dopo i tamburi di guerra, il 2 agosto, il tax credit è stato ripristinato, ma era effettivamente un po’ tardi per riprendere la organizzazione degli… “Stati Generali”. Il Presidente dei produttori dell’Anica Angelo Barbagallo, poco dopo la conferenza stampa di Letta e Bray, aveva espresso apprezzamento “per la svolta impressa dal Governo”, segnalando che “ora si potrà riprendere, a partire da Venezia, quel percorso di confronto e collaborazione con l’Esecutivo, essenziale per definire una politica cinematografica all’altezza dei tempi e inserita in una visione generale del ruolo della cultura nel Paese”. Ma il lavoro dei “tavoli preparatori” degli “Stati Generali del Cinema” era stato sospeso… Si è quindi deciso di procedere con… prudenza.
Il 28 agosto, l’ufficio stampa dell’Anica ha confermato quel che la Direzione Generale per il Cinema – Mibact, aveva annunciato il 22 agosto: “il Mibact, in collaborazione con Istituto Luce-Cinecittà, Anica e La Biennale di Venezia, promuove durante il Festival, per lunedì 2 settembre, un convegno intitolato “Il futuro del cinema: da settore assistito a industria culturale strategica. Dopo la stabilizzazione del tax credit e verso la Conferenza Nazionale”. Tra i relatori, vengono annunciati: Riccardo Tozzi (Presidente Anica), Angelo Barbagallo (Presidente Sezione Produttori Anica), Richard Borg (Presidente Sezione Distributori Anica), mentre l’Apt annuncia che sarà presente con Fabiano Fabiani (Presidente dell’Associazione dei Produttori Televisive)… Sono previste le conclusioni di Massimo Bray.

Il 30 agosto l’ufficio stampa del Mibac ha reso noto il programma completo del convegno: ci sembra si tratti di una semplice riproposizione di una “compagnia di giro” (le cui tesi sono note da anni), e francamente temiamo che il valore aggiunto che verrà prodotto dal convegno sarà quindi inevitabilmente molto modesto, anche per l’assenza di voci “fuori dal coro”. Da segnalare che sono previste, nell’ambito della kermesse veneziana, anche due altre iniziative convegnistiche (che forse risulteranno più vivaci rispetto alla passarella ministeriale), promosse dall’Anac, martedì 3 settembre e per mercoledì 4: la prima è intitolata “Cinema italiano oggi: Una visione strategica per i necessari provvedimenti di rianimazione” (la metafora è forte, ma efficace), e la seconda è intitolata “Rai e rinnovo conessione: Quale itinerario per un servizio pubblico?”. E vanno segnalate anche altre occasioni di dibattito, promosse dalla “triade” Mibac Dg Cinema/Istituto Luce-Cinecittà (che è ormai una sorta di “braccio operativo del Mibac, anzi quasi un ufficio interno del dicastero) / Anica (che è sovvenzionata dalla Dg Cinema del Mibac per queste attività): martedì 3 settembre (dalle 10 alle 12), presso il Mercato del Film-Venice Film Market, la presentazione del “Report attività Dg Cinema 2012”, e di “Focus su film d’interesse culturale e analisi dei sottostanti accordi di produzione”, a cura di Alberto Pasquale e Bruno Zambardino; mercoledì 4 settembre (dalle 10 alle 13), ancora presso il Mercato del Film-Venice Film Market, “Focus” sul consumo di cinema “Sala e salotto 2013: il sequel”, realizzato da Ergo Research, su iniziativa di Anica e Univideo, in collaborazione con Anec-Agis, a cura di Michele Casula; ed “Appeal e potenzialità del cinema italiano in Usa”, indagine Swg per Istituto Luce-Cinecittà, a cura di Rodrigo Cipriani Foresio e Adrio De Carolis; “L’industria dei contenuti alla prova degli Ott e delle Tlc”, a cura di Giandomenico Celata ed Enrico Menduni… Insomma, molti fuochi d’artificio.

Questa mattina è stata presentata un’altra ricerca ancora: “Schermi di Qualità tra crisi economica e rinnovamento”, curata Gianni Celata e a Rossella Gaudio. Lo studio ha messo in evidenza che gli schermi del Progetto “Schermi di Qualità” (fortemente sostenuto dal Mibac, realizzato dall’Agis, d’intesa con le associazioni dell’esercizio cinematografico Anec, Anem, Fice, Acec) concorrono in modo significativo al box office complessivo, registrando nel primo semestre 2013 un 18 % delle presenze ed il 16,5% degli incassi dell’intero mercato. La quota di mercato dei film italiani non è esaltante, rappresentando il 33 % del totale. Si segnala che il 76 % dei biglietti venduti in “SdQ” si realizza nei cinema da 1 a 4 schermi. Dati interessanti, ma, ancora una volta, manca una lettura organica, sistemica, critica: si rinnova il deficit di elaborazione strategica e di “policy” e “governance”. E… in fondo, cosa ne resterà, dopo Venezia, di tutte queste elucubrazioni e dibattimenti?! Si rinnova l’obiezione sul senso di queste iniziative convegnistiche all’interno di una kermesse come il Festival di Venezia: nella economia della macchina mediatica, la scollatura dell’attricetta di turno provoca cento volte più “appeal” del più stimolante dibattito. La domanda resta: che senso strategico ha organizzare iniziative di questo tipo, “a latere” di un festival?! Anche il dibattito più intrigante è destinato ad ottenere due righe sui quotidiani. I riflettori, in queste situazioni, sono puntati altrove.

Dai grandiosi ed ambiziosi “Stati Generali” ad una più prudente e modesta “Conferenza Nazionale”. Ah, ricchezza della lingua italiana! Ma qualcuno – non soltanto Brunetta ed i polemisti de “il Giornale” – obietterà certamente qualcosa, rispetto alla titolazione dell’iniziativa, che propone una netta dichiarazione di superamento dello status di settore “assistito”, per quanto riguarda il cinema… Sarà anche interessante ascoltare l’opinione di Fabiani, ovvero quella di un settore (la lobby debole, l’Apt) che è stato inopinatamente (cioè senza alcun criterio logico e mediologico e di politica culturale) escluso dai benefici del tax credit, avendo Bray innovato privilegiando il settore musicale… Innovazione e contraddizione.

Siamo lieti che il Ministro molto telematico abbia letto ed apprezzato il dossier IsICult, ma ci avrebbe fatto ancor più piacere ricevere un suo feedback.

Segnaliamo – en passant – la precisione comunicazionale di Bray (e della sua addetta stampa, Caterina Perniconi), che il 22 agosto ha diramato un testo come quello che segue, correlato all’ambizioso progetto di pedonalizzazione dei Fori Imperiali avviata dal Sindaco di Roma Ignazio Marino ed alla necessità di registrare il parere dell’opinione pubblica: “Mibac: precisazione in merito alle parole del Ministro Bray. In merito alle dichiarazioni del ministro Massimo Bray sui Fori Imperiali rilasciate a Radio Anch’io, si precisa che il riferimento a una consultazione dei cittadini era da attribuirsi al normale iter di coinvolgimento della popolazione le cui necessità devono essere ascoltate dagli addetti ai lavori in un processo come quello che vorrebbe la creazione del più grande parco archeologico del mondo”.
Che precisione, che accuratezza… E va notato che sempre il 22 agosto Bray ha segnalato sul proprio profilo Twitter che aveva “postato” una lunga risposta del Ministro alla “Lettera di un musicista al Ministro alla Cultura”, firmata da Anna sul suo blog Laflauta (l’anonima Anna si autodefinisce con ironia “veneziana, bionda, flautista, jazzista, maestrina di canto, amazzone, mamma… e blogger”). Bray dichiara tra l’altro che “sarebbe auspicabile un’eventuale defiscalizzazione totale dei contributi che privati o aziende conferiscono per l’organizzazione di eventi artistici”: eccellente, se si passerà dalla bella idea alla concreta norma. Si segnala che anche il Presidente della Siae, Gino Paoli, ha deciso di postare un suo commento sul blog Laflauta, innescando una interessante polemica sul ruolo della Società Italiana Autori Editori.

Abbiamo effettuato un’accurata ricerca su web, ed osserviamo che, complice forse l’agosto vacanziero e torrido, non sono molti – in verità – i commenti in relazione al decreto legge del 2 agosto.

La Confederazione Italiana Archeologi (ebbene sì, esiste anche questa… Cia!), sul proprio sito web, in un commento intitolato “L’urgenza non diventi fretta”, ha espresso “parziale soddisfazione per il decreto Valore Cultura, annunciato dal Governo e dal Ministro Bray, di cui ancora non sono chiari i particolari”, ma si tratta di un commento pubblicato il 7 agosto, prima che il testo venisse reso noto: “Accogliamo con favore il rinnovato interesse per Pompei – ha sostenuto Alessandro Pintucci, Presidente dell’associazione – ma non vorremmo che con l’istituzione di una Direzione Generale ad hoc per il sito si replicasse la situazione di commissariamento e gestione straordinaria, che tanti danni ha arrecato al centro vesuviano negli anni passati. Siamo, invece, preoccupati per le annunciate assunzioni annuali di 500 stagisti: il nostro settore ha bisogno di interventi strutturali, ci sono decine di società che stanno rischiando di chiudere a causa della crisi e centinaia di professionisti, molti più grandi degli under 35 interessati dal Decreto, che stanno pensando seriamente di cambiare lavoro o di trasferirsi in altri Paesi, con una perdita di conoscenze ed esperienze che francamente non ci possiamo più permettere (…). La sensazione è che l’urgenza del provvedimento, che pure condividiamo, sia stata tradotta in un’operazione condotta di fretta. Auspichiamo un ripensamento del Ministro su questi punti, prima del licenziamento definitivo del decreto”. Il Ministro non sembra però averci ripensato, alla luce del testo licenziato, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 agosto.

Alla presa di posizione critica – che abbiamo già segnalato nel dossier pubblicato il 19 agosto – da parte dei sindacati Cgil Slc, Cisl Fistel, Uilcom e Fials (resa nota il 7 agosto), ha fatto seguito la critica manifestata da un altro sindacato, Libersind-Confsal (che si autodefinisce Confederazione Generale Sindacati Autonomi Lavoratori) che ha scritto al Ministro l’8 agosto ed ha diramato il 12 agosto un comunicato stampa ripreso dall’agenzia Adnkronos: “Libersind-Confsal chiede a Bray di emendare il decreto “Valore Cultura” per quanto riguarda il collegamento tra accesso agli stanziamenti delle fondazioni lirico-sinfoniche e riduzione dell’organico delle stesse”, perché “non è assolutamente condivisibile l’impostazione per la quale ancora una volta a pagare i danni causati negli anni da amministrazioni “politiche” fallimentari di alcune Fondazioni debbano essere i lavoratori”. Ribadiamo che si prevede un “autunno caldo” per la lirica italiana

Tra le questioni apparentemente meno importanti, e segnalate quasi da nessuno, va ricordato che il Decreto Legge, all’articolo 4, ha introdotto l’obbligo di prevedere la libera disponibilità online per i risultati delle ricerche finanziate almeno per il 50 % con fondi pubblici. In un intervento pubblicato sul blog Roars (Return On Academic ReSearch), Paola Galimberti si è chiesta come mai questo (apprezzabile) intervento sia stato emanato per iniziativa del Mibac e non di quello competente per l’università e la ricerca.
Gli risponde in modo accurato ed interessante l’esperto di biblioteconomia Giovanni Solimine, in un post del 27 agosto sul suo blog, intitolato “Dl cultura e accesso aperto”: “In effetti non c’è da sorprendersi, per almeno due motivi: in primo luogo, perché finora non sembra che il Miur stia esprimendo una “cultura di governo” capace di andare oltre l’emergenza e i provvedimenti urgenti, e poi perché il Dl Cultura, per quanto parziale e insufficiente, lascia intravedere un respiro piuttosto ampio, che va oltre il puro e semplice ambito dei “beni culturali” e che cerca di affrontare i temi dell’accesso alla cultura e alla conoscenza.
Attendiamo il governo – se, come c’è da augurarsi, durerà – e il parlamento a nuove e più impegnative prove: la prima è proprio la conversione in legge di questo decreto, che qualcuno potrebbe cercare di svuotare proprio per gli aspetti più profondamente innovativi. PS: senza volerci arrogare meriti che non abbiamo, mi permetto di ricordare che l’obbligo dell’accesso aperto per i risultati delle ricerche finanziate con danaro pubblico era presente tra i provvedimenti sollecitati dal Forum del libro in una lettera aperta ai candidati alle ultime elezioni politiche, che aveva trovato in Massimo Bray, poi divenuto titolare del Mibact, uno dei suoi più convinti sostenitori”. Solimine, in altri post del suo blog, manifesta giudizi complessivamente positivi sul decreto legge “Valore Cultura”, ritenendo il “bicchiere pieno al 75 %”.

Su altro fronte (cinema), sull’edizione del “Giornale dello Spettacolo” (il mensile dell’Agis) del 28 agosto, in distribuzione al Festival di Venezia, Enrico Di Mambro, riferendosi al ripristino del tax crediti a favore del cinema, scrive che “testimonia un metodo di lavoro nuovo, segnato da un concreto fattivo confronto tra le parti”. A noi sembra – in verità – l’ennesimo topolino partorito dalla montagna, ovvero dal tira-e-molla tra Governo e lobby varie, senza alcun disegno strategico di ampio respiro: un intervento utile, ma più palliativo di breve termine che cura di lungo periodo. Di Mambro enfatizza che la stabilizzazione permanente del budget di 90 milioni di euro l’anno è resa possibile dal sistema di adeguamento di copertura determinato dagli articoli 14 e 15 del decreto legge, ovvero dalle assise sui combustibili, gli alcool e sul prelievo fiscale sui prodotti da fumo. L’esponente dell’Agis lamenta che l’autorizzazione per i crediti di imposta riguarda l’attività di produzione, mentre è sospesa l’autorizzazione per il credito d’imposta per la digitalizzazione delle sale (e ne siamo lieti, dato che la “battaglia per il digitale” ci sembra benefici già abbastanza di sostegni regionali, grazie ai fondi europei: si legga l’intervento su “Tafter” del 7 agosto: “Sull’utilità della digitalizzazione delle sale cinematografiche”): “la misura, infatti, viene ancora oggi applicata in termini limitativi e penalizzanti mediante l’adozione della clausola ‘de minimis’”. Di Mambro segnala anche una corrigenda opportuna: non è stata riprodotta la norma tecnica in base alla quale eventuali “avanzi” rispetto al plafond dei 90 milioni di euro l’anno vengano destinati ad alimentari lo stanziamento della parte cinema del Fus. Forse si tratta di errori ed errorini determinati da una qual certa fretta.

In effetti, nel dossier realizzato da IsICult per Tafter, avevamo prestato poca attenzione agli articoli 14 e 15 del decreto, liquidandoli come norme tecniche di finanziamento degli interventi normativi, cioè per la cosiddetta “copertura”.

Filippo Cavazzoni, Direttore Editoriale del “think tank” liberista Istituto Bruno Leoni (Ibl), ci ha segnalato: “La maggior parte delle coperture si ottengono con l’inasprimento delle accise: questa volta non sui carburanti, ma sugli oli lubrificanti, la birra, gli aperitivi, i vini liquorosi, le grappe, i prodotti “da fumo”, ecc. Se è davvero così, mi pare davvero criticabile: perché un bevitore di birra deve finanziare il tax credit?”.
Temiamo che sia proprio così. Il quesito è saggio, ma richiederebbe un’analisi approfondita e quindi una revisione radicale del concetto stesso di “dare” ed “avere” nel bilancio dell’italico Stato, ed ovviamente non soltanto in materia di politica ed economia della cultura. Si prendi “a chi”, per dare “a chi”, con quale logica politica ed economica?! Nel caso in ispecie, le “stampelle” per il cinema (tax credit) così come il ripianamento dei debiti degli enti lirici (determinati da cattiva gestione) vengono “socializzati” a carico della fiscalità generale (qualcuno può evocare il cosiddetto “metodo Stammati”, dal nome dell’allora Ministro che, nel lontano 1977, decise che lo Stato doveva intervenire per ripianare i debiti contratti dagli enti locali con il sistema bancario: un meccanismo perverso che ha stimolato una continua espansione della spesa pubblica, le cui conseguenze stiamo ormai pagando). Ha un senso, tecnico e politico, una scelta di copertura di questo tipo?!

Sui quotidiani del 28 agosto, si leggeva che il Governo, per alimentare il fabbisogno derivante dall’abolizione (per il 2013) dell’Imu, avrebbe introdotto novelle tasse sugli alcolici (già fatto per il tax credit, appunto) e sui giochi, per garantire giustappunto adeguata copertura pro Imu. E subito s’ode il grido di allarme di Confindustria, ovvero della sua anima “ludica”: il Presidente di Confindustria Sistema Gioco Italia (che aderisce a Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici), Massimo Passamonti, ha dichiarato “che l’ultimo aumento sugli apparecchi da intrattenimento, effettuato nel 2012 per garantire una copertura di 150 milioni, ha in realtà causato una perdita di 300 milioni di minor gettito erariale” (si ricorda che il settore del gioco produce circa 8 miliardi e mezzo di euro l’anno di entrate erariali, e non ci sembra che lo Stato dedichi minima attenzione alla gravità del fenomeno della ludopatie…). Secondo Passamonti, si tratterebbe di una misura “demagogica” e “controproducente”. Chissà cosa ne pensa il Presidente di Confindustria Cultura, Marco Polillo…

In verità, riteniamo che debba invece proprio esistere un nesso logico (e finanche ideologico, quindi politico) tra le varie voci del bilancio dello Stato: che danari che alimentano il ricco e ozioso settore del gioco (e finanche del tabacco) vadano a sostenere il prezioso e delicato settore della cultura lo troviamo logico, naturale, sano (ed era, non a caso, una delle proposte che furono avanzate nel documento “Appunti e proposte per una Agenda della Cultura” elaborato dalla veltroniana Fondazione Democratica Scuola di Politica, su cui scrivemmo su queste colonne), così come sarebbe logico imporre anche al settore del telecomunicazioni, ai provider ed agli aggregatori di contenuto (Google in primis) una qualche forma di obbligo ad alimentare la filiera delle industrie creative, per stimolare la produzione di contenuti originali di qualità. Ah, modello francese che sempre invochiamo…

Non ripresa da nessuno, riportiamo anche la dichiarazione della ex Ministro Giorgia Meloni, resa nota il 2 agosto stesso (aveva già letto il testo del decreto legge?!), sul suo blog: “Il decreto legge ‘valore cultura’ del governo Letta presenta qualche luce e molte ombre. Se da un lato consideriamo positivo il rifinanziamento del tax credit per il settore cinematografico e l’apertura nei confronti degli operatori culturali privati, dall’altro prendiamo atto che il provvedimento non introduce interventi strutturali e organici per attuare veramente il principio di sussidiarietà previsto dalla Costituzione. Fratelli d’Italia, unica forza politica che ha dedicato ampio spazio alla cultura nel suo programma elettorale, è pronta ad intervenire alla Camera per modificare e migliorare il decreto”. Osserveremo con attenzione, onorevole Meloni.

Da segnalare anche un’interessante presa di posizione dell’eterodosso storico dell’arte Tomaso Montanari (autore – tra l’altro – dell’eccellente pamphlet “Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane”, Minimum Fax), che ha spiegato sulle colonne de “il Fatto Quotidiano”, il 18 agosto, perché ha deciso di accettare di far parte della (pletorica) Commissione ministeriale promossa dal Ministro Bray (ne scrivevamo anche nel dossier IsICult/Tafter) per la riforma del Ministero: “Come sanno i lettori di questo blog, non ero stato certo entusiasta del meccanismo politico che ha portato alla nomina di Bray: ma con la stessa onestà devo ammettere che, a distanza di tre mesi e mezzo, il bilancio è decisamente positivo. Bray sta rimettendo al loro posto i ras del Collegio Romano, sta rimotivando le soprintendenze, sta tenendo testa ai sindaci prepotenti (ha salvato il Maggio Musicale dalla irresponsabile liquidazione che avrebbe voluto Matteo Renzi). Ha imposto al Segretario Generale del Mibac di ritirare la pessima circolare sulla rotazione triennale dei direttori di museo e dei funzionari territoriali firmata da Ornaghi. Ha fatto anche ritirare lo stupidissimo e dannoso provvedimento sul noleggio delle opere nei depositi dei musei. Ha impedito che passasse l’idea (cara a Scelta Civica e alla sua sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni) di affidare Pompei ad una fondazione di diritto privato: e se il Parlamento non la stravolgerà (e soprattutto se il Direttore Generale sarà scelto tra i ranghi del Mibac), la struttura che il Decreto Valore Cultura prevede per Pompei ha tutte le carte in regola per funzionare”.
Ci auguriamo che la sua lettura dei fenomeni in atto non pecchi di ottimismo, ed auspichiamo soprattutto che Montanari mantenga alta la guardia. E, ancora, che la Commissione si dimostri veramente alacre, se deve concludere i propri lavori entro fine ottobre (2013). Anche se a budget zero.

Infine, ribadiamo (dopo attenta ri-verifica) che, curiosamente, il decreto legge (lanciato con il titolo-slogan “Valore Cultura”) si intitola, nella sua versione definitiva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 9 agosto, “Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”, ma in verità non v’è 1 articolo uno dedicato al… turismo! In occasione della conferenza stampa del 2 agosto, Bray aveva effettivamente dedicato pochi secondi all’argomento, dichiarando: “C’è l’impegno a dedicare i prossimi sforzi a mettere insieme un pacchetto di importanti provvedimenti proprio sul turismo”. Ma intanto “il turismo” è rimasto nel titolo del provvedimento. Un refuso?! Una rimozione?! Un pre-annuncio?! Abbiamo già segnalato che sul suo blog la Sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni, il 2 agosto, aveva scritto: “Sono stati presi anche provvedimenti utili per il turismo, in particolare per rilanciare il turismo sostenibile e culturale”. Evidentemente, sono rimasti in “mente dei”, ovvero all’ultimo minuto s’è seccato l’inchiostro della penna ministeriale… Segnaliamo quel che scrive Luciano Arduino sul suo ipercritico “Tutto-sbagliato-tutto-da-rifare”, blog “di critiche costruttive sul turismo e sulla cultura”, nel post del 28 agosto “Il Decreto del Turismo di Massimo Bray, bypasserà ancora una volta il Parlamento?”, che rilancia quanto aveva già polemicamente scritto il 3 agosto “Eilturismo?”.

Ed attendiamo che la Sottosegretaria delegata, Simonetta Giordani, si manifesti.

Anche perché sempre più si diffonde il novello (orribile) acronimo del dicastero: “Mibact”, con quella graziosa “t” finale. Mentre le politiche del turismo italiano continuano ad essere abbandonate a se stesse. Ed Andrea Babbi, Direttore Generale dell’Enit dichiara (intervista al blog “Terra Nostra” di Nicola Dante Basile su “Il Sole 24 Ore”, il 27 agosto) che, su un budget di 18 milioni di euro l’anno di risorse statali, l’ente spende 17 milioni per la gestione (200 dipendenti, 80 italiani e 120 esteri), ed ha quindi a disposizione soltanto 1 milione di euro per promuovere l’Italia nel mondo. E lo stesso Babbi evidenzia la contraddizione interna, tra livello Stato centrale e livello Regioni: l’Apt Emilia Romagna ha un budget di 12 milioni di euro, il Trentino 25 milioni, 28 milioni la Sicilia. Per non dire dei 44 milioni che il governo svizzero affida al proprio ente turistico…

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

 

Scarica qui il testo del decreto legge “Valore Cultura” dell’8 agosto 2013, nella sua versione in formato Pdf pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 agosto 2013.

 

 

the_archeaologistsIl Ministro Bray ha tentato di inserire nel decreto legge 91/2013, “Valore Cultura”, una norma per la concessione in via sperimentale di alcune strutture (in particolare monumenti minori) ai privati per far fronte alle emergenze e alle carenze di personale, ma a 20 anni dalla Legge Ronchey – che con la L. 4/1993 ha creato i “servizi aggiuntivi” – la questione del ruolo dei privati rispetto ai beni culturali rimane aperta e spinosa.

C’è chi vuole incentivarne la partecipazione, e chi, come Salvatore Settis, vede nell’apertura ai privati un’abdicazione dello Stato alle proprie responsabilità e competenze.
È palese che si potrebbe spendere meno in armi e di più in cultura e che l’evasione in Italia raggiunge livelli record privandoci di utili risorse. Investiamo solo l’1,1% del Pil in cultura a fronte di una media comunitaria del 2,2% (Eurostat) e perfino la Germania ha tagliato in tantissimi settori, ma non in cultura e istruzione.
Il punto fondamentale della discussione è, però, se e quanto è opportuno coinvolgere i privati, non se sarebbe opportuno e utile avere più soldi da movimentare per la cultura.
La paura forte è che il valore costituzionale e culturale del nostro patrimonio possa andare perso a favore di un suo utilizzo da “giacimento culturale”, abbandonando le funzioni socialmente utili a favore di scelte economicamente produttive.

Tomaso Montanari nel suo “Le Pietre e il popolo” critica in modo esemplificativo l’utilizzo di attrattori solo per racimolare un po’ di denaro con grandi eventi. Mentre il modello cui rimanda Settis è Ercolano, con la Hewlett-Packard che investe milioni in cambio solo di un “pubblico riconoscimento”. Tale modello sembra ricalcare in realtà la stessa logica dell’erogazione pubblica. C’è chi dubita che molti attrattori o beni potranno mai sostenersi autonomamente e c’è chi non vede di buon occhio il ruolo di una cultura che si (s)vende per generare denaro.

E’ probabile che molti musei o biblioteche non potranno mai essere del tutto auto-sufficienti, ma esistono infinite gradazioni di grigio. La questione diventa solo apparentemente semantica, volendo parlare non di “produzione di ricchezza”, ma di “generazione di valore”.
Si pensi a Ponte Vecchio a Firenze che è stato affittato per la sera del 29 giugno 2013 alla Ferrari Cavalcade (per 6 ore) ad un prezzo di ben 120.000 euro.

Il concetto di patrimonio e di beni culturali non può rimanere statico, ma deve svilupparsi. Si va dai “contenitori culturali” del 1993, all’idea di “attività culturali” affermatisi con il DL 368 e al Codice Urbani del 2004 che ha puntato sul “patrimonio culturale”.
Montanari fa notare la necessità di ricreare occupazione di qualità nel settore ed elenca archeologi, storici dell’arte e architetti. Si tratta di figure essenziali, ma non andrebbero trascurati manager della cultura ed economisti, perché se la filiera culturale merita professionisti di livello, questo è vero non solo per i contenuti, ma anche per la gestione e il posizionamento degli stessi.

Il sottosegretario ai Beni Culturali, Ilaria Borletti Buitoni, invita alla “predisposizione di regole chiare”. Spesso è il quadro normativo a essere difettoso, sovrabbondante e impreciso.
Esiste inoltre un problema radicale di accountability e affidabilità rispetto alla cultura. Servono indicatori che traccino con definizione le linee essenziali di ciò che avviene, chiarendone gli snodi funzionali, come i colli di bottiglia. Serve il coraggio di misurare ciò che (non) viene fatto, così da valutare in base a risultati analizzati nel dettaglio e in modo puntuale.

La sensazione forte che la cultura vada ripensata diversamente, sia come approccio che come modelli economici, è diffuso anche in “terre felici” fatte di stanziamenti statali più cospicui. Vengono, infatti, dalla Germania, da alcuni studiosi (D. Haselbach, A. Klein, P. Knusel, S. Opitz) le accuse di burocratizzazione del proprio paese, la richiesta di cancellare praticamente ogni finanziamento pubblico alla cultura e di ripartire dalla situazione post-infarto che questa scelte causerebbe (Kulturinfarkt). In Italia siamo pre-infartuati ormai da 20 anni.

 

dalimontremolleSettembre alle porte segna la ripresa delle quotidiane attività, anche nel settore dei beni culturali: si prospetta un autunno caldo per Bray e il suo staff.

Dal Ministero giungono infatti notizie di scadenze serrate dopo l’approvazione del Decreto legge “Valore Cultura”, che dovrà essere convertito in legge entro e non oltre l’8 ottobre.

In primis ci sono le tante attese nomine.

A cominciare dal Soprintendente Speciale per Pompei e dall’incaricato a rivestire il ruolo di Direttore Generale di Progetto, per proseguire con il Comitato di Pilotaggio e il Comitato di Gestione. Questo per quel che riguarda il solo sito archeologico partenopeo, dove nel frattempo sono in corso i primi interventi di restauro.

Per quel che attiene la Reggia di Caserta, sempre secondo il sopra citato decreto legge, il sito andrebbe a confluire nel Polo Museale di Napoli, generando una Soprintendenza Speciale del Polo Museale di Napoli e Caserta: anche in tal caso è necessaria la nomina di colei o colui che vi sarà posto alla guida.

In Calabria invece si attende entro gennaio, come promesso, l’apertura del Museo volto ad ospitare il simbolo della Regione: i Bronzi di Riace.

Nel settore dello spettacolo, dopo l’erogazione anticipata dei fondi fus, rimane ancora da risolvere la faccenda delle fondazioni lirico-sinfoniche in perdita, mente il cinema si chiede se potrà effettivamente tirare un sospiro di sollievo con il ripristino dei 90 milioni di tax credit, così come sostenuto nel decreto “Valore cultura”.

Il Collegio Romano è del resto chiamato a dar seguito a molte delle promesse fatte negli scorsi mesi: si aspettano intanto i risultati delle due Commissioni neonate, quali quella per la revisione del Codice dei beni culturali e del Paesaggio e quella per il rilancio dei beni culturali ed il turismo e per la riforma del Ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa.

Non ultimo l’annuncio dell’assunzione di oltre 150 dipendenti da inserire nell’organico del dicastero.

Si avvicinano inoltre altre due importanti ricorrenze che coinvolgeranno il Ministero dei beni e delle attività culturali: si tratta della scadenza della prima fase per le città italiane candidate a divenire Capitale della Cultura europea 2019 (il 20 settembre) e della rincorsa ai preparativi per l’Expo 2015.

 

 

 

vangoghSono state rese disponibili oltre 4 mila opere d’arte del Getty Museum grazie all’Open Content Program. Si tratta di un progetto attraverso il quale è possibile usufruire online di opere d’arte tra fotografie, dipinti e manoscritti, digitalizzati e messi in rete ad alta risoluzione.

La cosa straordinaria, di questi tempi è che le immagini non sono solo visualizzabili ma anche scaricabili, utilizzabili e modificabili. Purchè venga citata l’appartenenza al programma Open Content (questa la stringa da inserire “Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program“).
Con questa operazione il Getty, così come si legge dal sito, “spera che le persone usino le immagini per un’ampia serie di attività e che condivideranno il frutto di questo utilizzo con gli altri affinchè tutti si arricchiscano ogni giorno di più”
Noi ve ne proponiamo alcune. Se volete consultare l’archivio completo, questo il link

Il decreto legge “Valore Cultura” ha provocato reazioni interessanti nel Paese, non entusiaste ma complessivamente positive.
Su “Tafter”, sia Michele Trimarchi sia Bruno Zambardino, da diversi punti di vista, si esprimono positivamente, pur nutrendo perplessità. Tra gli articoli più critici va segnalato quello tagliente di una penna acuta del centro-destra, qual è Davide Giacalone, che ha intitolato un suo commento su “Terza Repubblica”, quotidiano online di Società Aperta, “La cultura che tuteliamo è sempre quella burocratica” (articolo apparso anche su “Libero” del 6 agosto).
Crediamo che i dubbi emergenti siano veramente tanti.
Ne avevamo già scritto su “Tafter” (“Decreto Valore Cultura. Cosa c’è dietro?”): le perplessità sono cresciute dopo aver finalmente letto, anzi studiato, il testo definitivo dell’annunciato provvedimento.
Il decreto legge mostra, nella stessa titolazione, una qual certa vocazione propagandistica, ma questo è certamente uno degli effetti meno deleteri della “politica spettacolo” cui siamo ormai abituati, anche nella versione più aggiornata dei “social network”.

Intanto, un’annotazione “di metodo”, che rappresenta un epifenomeno di una patologia tipica del nostro Paese e dei suoi spesso maldestri legislatori: prima di redigere quest’articolo, abbiamo consultato il sito dell’italico Parlamento. Esiste la scheda del decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto scorso, ma il sito web del Parlamento recita inequivocabilmente “non ci sono testi disponibili”.

Approfondiamo quindi lo status dell’iter: il disegno di legge n. 1532 (“Conversione in legge del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, recante disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”) risulta presentato il 9 agosto e “restituito al Governo per essere ripresentato all’altro ramo il 12 agosto 2013”.
Ad oggi, 15 agosto 2013, a due settimane dall’approvazione da parte del Cdm, il testo non è di pubblico dominio sui siti web del Parlamento.

È noto che queste gestazioni normative sono complesse, ma è altresì legittimo che il cittadino si domandi perché tutta questa nebbia agostana rispetto ad un testo che è stato annunciato con grancassa, ma di cui sono state presentate soltanto delle linee-guida: forse si tratta di lentezza procedurale determinata dal caldo torrido e dalla pausa dei lavori parlamentari… Comunque, sulle “slide” elaborate dal Ministero e su estratti sintetici del testo, s’è ingenerato il dibattito, non particolarmente vivace considerato la pausa agostana. Il Ministro, che è un attivista di Twitter, ha segnalato l’8 agosto che sul suo sito era stata “aggiornata un’infografica” che sintetizza efficacemente il provvedimento: complimenti al consulente grafico, bella operazione di marketing comunicazionale. Ancora sintesi, appunto. Graficamente gradevole, ma sintesi.

decretovaloreinfografica

In ogni caso, stanchi delle bozze pervenuteci per via amichevole, abbiamo finalmente reperito il testo del Decreto Legge “Valore Cultura” sulla Gazzetta Ufficiale (edizione di venerdì 9 agosto), e lo presentiamo – in anteprima assoluta, da quanto ci è dato sapere – ai lettori di “Tafter”. Non ci risulta ad oggi pubblicato, su quotidiani, periodi, portali e siti web un commento complessivo come quello che IsICult propone in esclusiva alla comunità dei lettori di Tafter: una sorta di vero e proprio primo “dossier”.

È interessante osservare come i 16 articoli siano suddivisi in modo quasi eguale tra 3 “capi”, la cui titolazione è già in sé interessante:
Capo 1: “Disposizioni urgenti per la tutela, il restauro e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano”
Capo 2: “Disposizioni urgenti per il rilancio del cinema, delle attività musicali e dello spettacolo dal vivo”
Capo 3: “Disposizioni urgenti per assicurare efficienti risorse al sistema dei beni, delle attività culturali”.
Il testo del decreto legge consta di circa 10.500 parole, oltre 1.200 righe, oltre 75mila battute. Notoriamente, una cartella giornalistica conta di 1.800 battute (60 battute per riga, 30 righe per cartella), e quindi siamo di fronte ad un testo di circa 42 pagine: non proprio snello, e non esattamente una lettura da ombrellone.
In termini di legistica, il testo appare chiaro in alcune parti, meno chiaro – e ridondante – in altre. Si ha ragione di temere che la redazione sia avvenuta in tempi abbastanza rapidi e con ritmi concitati e con apporti di saperi diversi, e se ne comprende la ragione: come abbiamo già avuto occasione di scrivere su queste colonne, il Governo Letta aveva necessità di non perdere del tutto la faccia, a fronte delle belle dichiarazioni a favore della cultura contraddette soprattutto della vicenda controversa della riduzione dei fondi a favore del tax credit cinematografico.

L’incipit è interessante: “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni urgenti” (!!!). A parte qualche deficit lessicale (urgenza, urgente…), la formula si ripete un paio di volte, per giustificare l’utilizzazione dello strumento speciale del “decreto legge”. Transeat.

L’articolo 1 del decreto legge riguarda Pompei e prevede che il Presidente del Consiglio nomini “un responsabile unico della realizzazione del Grande Progetto e del programma straordinario”, denominato “Direttore Generale di Progetto”. Si tratta del “Grande Progetto” Pompei approvato dalla Commissione Europea nel marzo del 2012 (ah, l’urgenza…). Il decreto prevede poi la “costituzione di una apposita struttura di supporto al Direttore Generale di Progetto” (25 persone, 20 funzionari e 5 esperti). Nelle more dell’effettiva operatività di quanto previsto dal dl, si precisa che il “Comitato di Pilotaggio del Grande Progetto Pompei” (di cui al decreto interministeriale del dicembre 2012: ah, l’urgenza…) e il Soprintendente per i Beni Archeologici di Pompei assicurano, “in continuità con  l’azione finora svolta, il proseguimento, senza interruzioni e in coerenza con le decisioni di accelerazione già assunte” (sarebbe interessante conoscere quali siano state queste decisioni, ma non divaghiamo…). Viene prevista la costituzione della… “Unità Grande Pompei” (la Sottosegretaria Borletti Buitoni, sul suo blog, scriveva il 2 agosto invece di una “Agenzia Speciale per Pompei”), che “è dotata di autonomia amministrativa e contabile”, e dipende dal Direttore Generale. In parallelo, si istituisce un “Comitato di Gestione” (che svolge anche le funzioni di “Conferenza di Servizi permanente), che deve approvare – entro un anno – un “Piano Strategico”. Il comma 6 dell’articolo 1 spiega in dettaglio in cosa consista questo “Piano Strategico”: appare discretamente ambizioso, trattandosi di “analisi di  fattibilità istituzionale, finanziaria ed economica del piano nel suo  complesso; crono-programma; valutazione delle condizioni di fattibilità con riferimento al loro avanzamento;   adempimenti di  ciascun  soggetto  partecipante; fonti di finanziamento attivabili per la loro realizzazione. Il piano prevede, in  particolare,  “gli  interventi  infrastrutturali  urgenti necessari a migliorare le vie di accesso  e  le  interconnessioni  ai siti archeologici e per il recupero ambientale dei paesaggi degradati e compromessi, prioritariamente mediante il recupero e  il  riuso  di aree industriali dismesse, e  interventi  di  riqualificazione  e  di rigenerazione urbana”.

Il costo di queste iniziative (attività del Direttore Generale di Progetto e dell’Unità Grande Pompei) viene quantificato in soltanto 200.000 euro per il 2013 ed in 800.000 euro per gli esercizi dal 2014 al 2016. Il comma 13 dello stesso articolo prevede un altro… “Piano Strategico”, questo circoscritto allo “sviluppo del percorso turistico-culturale integrato delle residenze borboniche”. Da segnalare anche che il decreto legge prevede che la Reggia di Caserta confluisca nel Polo Museale di Napoli: nasce quindi una Soprintendenza speciale, denominata “Polo museale di Napoli e Caserta”, che comprenderà, oltre alla Reggia Vanvitelliana, alcuni importanti musei napoletani come Capodimonte. Si ricorda che per Pompei sono disponibili, e non da oggi, 105 milioni di euro, di cui 45 milioni provenienti dall’Unione Europea, ma le pastoie burocratiche hanno finora impedito di utilizzarli e gli appetiti malavitosi permangono peraltro dietro l’angolo. Tra i dissidenti, riportiamo il brutale parere (potrebbe essere altrimenti?!) di Gianmarco Centinaio, Capogruppo in Commissione Cultura per la Lega Nord a Palazzo Madama, secondo il quale il decreto legge Bray, rispetto a Pompei, “ha tutta l’aria di essere l’ennesima occasione per sistemare i soliti compiacenti amici degli amici. Non servono i tarocchi per capire che, anche a seguito di questa inutile nomina, la situazione non cambierà di una virgola se non nelle già vuote tasche di un Paese alla canna del gas. Più che un direttore generale servirebbe l’esercito”. Tranchant.

L’articolo 2 del dl intende avviare un “programma straordinario finalizzato alla prosecuzione ed allo sviluppo delle attività di inventariazione, catalogazione e digitalizzazione del patrimonio culturale, anche al fine di incrementare e facilitare l’accesso e la fruizione da parte del pubblico”, e prevede la selezione di 500 “under 35” “da formare per la durata di dodici mesi”, allocando risorse per 2,5 milioni, ma a partire dall’anno 2014. Interessante osservare che il dl prevede la possibilità di una convenzione con la mitica – nata ma già malata – Agenzia per l’Italia Digitale, cui mai è stata assegnata alcuna sensibilità rispetto alla cultura ed al turismo.

L’articolo 3 del dl prevede che i proventi acquisiti dal sistema museale nazionale vengono “riassegnati a decorrere dall’anno 2014” allo stato di previsione della spesa del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Si restituisce quindi ai musei (ovvero al dicastero) quel che loro stessi producono. I proventi dei biglietti e del merchandising, con l’ultimo governo di centrodestra, erano stato dirottati verso il Ministero dell’Economia (restava soltanto il 10-15 % al Mibac). È una misura dal valore forse più simbolico che reale, ma comunque di buon senso e valida. Si ricorda che nel 2012 – per quanto riguarda gli incassi – si è trattato di 113,3 milioni di euro (a fronte dei 110,7 dell’anno 2011): tutte le biglietterie statali italiane messe insieme hanno fatto introiti corrispondenti al 25 per cento in meno del solo Louvre. Il decreto prevede un “onere derivante” da questo articolo nell’ordine di 19,2 milioni di euro a decorrere dal 2014.

L’articolo 4 del dl prevede che non siano considerate “pubbliche”: “l’esecuzione, la  rappresentazione  o  la recitazione  dell’opera  effettuate,  senza  scopo  di  lucro, entro la cerchia ordinaria della famiglia, del convitto, della scuola o dell’istituto di ricovero, così come all’interno delle biblioteche, a fini esclusivi di promozione culturale e di valorizzazione delle opere stesse”. Ci si domanda quale severo tutore del diritto d’autore, per quanto estremista, abbia mai potuto pensare che non fossero… “private” le iniziative promosse nell’ambito della famiglia (il legislatore, poi, preciserà certamente cosa intende per… “cerchia ordinaria”!). Si prevede inoltre – sempre in una sana prospettiva di accessibilità ai saperi – che ogni ricerca finanziata per una quota pari ad almeno il 50 per cento con fondi pubblici debba essere depositata “in archivi elettronici istituzionali” o “di settore”, entro sei mesi dalla sua disponibilità. Si prevede che Mibact e Miur adottino “strategie coordinate per la piena integrazione, interoperabilità e non duplicazione delle banche dati rispettivamente gestite, quali quelle riguardanti l’anagrafe nazionale della ricerca, il deposito legale dei documenti digitali e la documentazione bibliografica”. Il testo precisa che queste disposizioni non producono maggiori oneri per la finanza pubblica.

L’articolo 5 del dl prevede una distribuzione di risorse: 8 milioni di euro (1 milione nel 2013 e 7 nel 2014) per la prosecuzione dei lavori volti alla realizzazione del progetto “Nuovi Uffizi”; 4 milioni (1 nel 2013 e 3 nel 2014) per il “Museo nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah” di Ferrara istituito con la legge n. 91 del 13 aprile 2013; 2 milioni (1 milione nel 2013 ed 1 milione nel 2014) per “interventi indifferibili e urgenti di tutela di beni culturali che presentano gravi rischi di deterioramento”. Quest’ultima allocazione di pubblici danari provoca un sorriso di incredibilità in qualsiasi persona di buon senso, per l’entità del budget (ridicolo) a fronte delle dimensioni (enormi) del patrimonio culturale italiano, e del suo (diffuso) deterioramento, tra crolli e furti! No comment. Ah, in questo caso, gli interventi non sono soltanto “urgenti”, ma “indifferibili”.

L’articolo 6 del dl recita nel titolo:Disposizioni urgenti per la realizzazione di centri di produzione di arte contemporanea”. Bray ha precisato che il modello di riferimento è il francese “59 Rivoli” di Parigi. Il dl prevede che l’Agenzia del Demanio (anche sulla base di segnalazione dei soggetti interessati) individui a cadenza annuale immobili di proprietà dello Stato che siano “destinati ad ospitare studi di giovani artisti contemporanei italiani e stranieri”. Questi immobili dovrebbero essere “locati o concessi al canone di mercato abbattuto del 10 per cento” (non è intervento molto generoso, considerando anche che la manutenzione ordinaria e straordinaria è a carico del locatario), “in favore di cooperative di artisti e associazioni tra artisti, di età compresa tra 18 e 35 anni, italiani e stranieri”, mediante asta pubblica. Il testo prevede anche che “Le Regioni, le Province (ma queste non sono state abolite da altro provvedimento emergenziale del Governo Letta?! n.d.r.), i Comuni possono dare in locazione, per le finalità e con le modalità di cui al presente articolo, i beni di loro proprietà”. Quel passaggio “possano dare” è lievemente inquietante.

Il Capo 2 del decreto legge riguarda – come abbiamo segnalato – il “rilancio” del cinema, della musica e dello spettacolo dal vivo.

L’articolo 7 introduce anzitutto un inedito credito di imposta, nel limite di spesa di 4,5 milioni di euro annui, alle “imprese produttrici di fonogrammi e di videogrammi musicali”. Credito “nella misura del 30 per cento dei costi sostenuti per attività di sviluppo, produzione, digitalizzazione e promozione di registrazioni fonografiche o videografiche musicali, fino all’importo massimo di 200.000 euro nei tre anni d’imposta”. Le imprese debbono spendere un importo corrispondente all’80 per cento del beneficio concesso “nel territorio nazionale, privilegiando la formazione e l’apprendistato in tutti i settori tecnici coinvolti”. Il dl prevede che deve trattarsi di imprese “non devono essere sottoposte a controllo, diretto o indiretto, da parte di un editore di servizi media audiovisivi”: una previsione che intende privilegiare le imprese indipendenti, anche se la formulazione appare giuridicamente incerta, e ripropone questione delicata che riguarda anche il cinema e la fiction tv, sulla quale Agcom latita (chi è “produttore indipendente” in Italia???).

Abbiamo già posto, su queste colonne di “Tafter”, il quesito: con quale logica strategica il Governo decide che il credito di imposta è funzionale al settore cinematografico, ed ora a quello musicale, e non alla fiction televisiva o altri settori delle industrie culturali?! Non è dato sapere. Anche qui – si teme – capitale relazionale e potere delle lobby. Ricordiamo che qualche tempo fa, l’associazione italiana dei distributori di videogame, l’Aesvi, ha sostenuto una battaglia per introdurre credito d’imposta e detassazione degli utili a favore delle “imprese video ludiche”, battaglia di cui si è fatto alfiere il parlamentare del Pdl Antonio Palmieri…. Palmieri è il primo firmatario della proposta di legge n. 5093, presentata il 28 marzo 2012 alla Camera, “Disposizioni per la realizzazione dell’agenda digitale nazionale”, che, all’articolo 23, prevedeva “misure di sostegno fiscale alle aziende video ludiche italiane” (credito d’imposta e detrazione degli utili reinvestiti)…

Comunque, l’innovazione di Bray (estensione del tax credit dal cinema soltanto, come finora, ad altri settori dell’industria culturale) ha dei precedenti: si ricorda anche che il 17 dicembre 2012 è stato convertito il decreto legge n. 179 del 2012 (il cosiddetto “Decreto Sviluppo”, ovvero “Misure urgenti – ovviamente, n.d.r. – per lo sviluppo del Paese”), divenuto la legge n. 221 del dicembre 2012, che ha introdotto – nel silenzio dei più – un “credito d’imposta del 25 per cento dei costi sostenuti, nel rispetto dei limiti della regola de minimis (…), alle imprese che sviluppano nel territorio italiano piattaforme telematiche per la distribuzione, la vendita e il noleggio di opere dell’ingegno digitali”. La disposizione, stabilita dall’articolo 11 bis del decreto, ha l’obiettivo di migliorare l’offerta legale di opere dell’ingegno mediante le reti di comunicazione elettronica”. L’agevolazione dovrebbe essere applicata negli anni 2013, 2014 e 2015, “nel limite di spesa di 5 milioni di euro annui e fino a esaurimento delle risorse disponibili”, e dovrebbe essere coperta da un aumento del prelievo erariale sui concessionari dei giochi pubblici (le famigerate “slot machine”) e una diminuzione del loro compenso. Il condizione è d’obbligo (anche se la legge è vigente), perché i decreti attuativi sono ancora in gestazione ed il 5 luglio 2013 il succitato Palmieri ha presentato un’interrogazione parlamentare per stimolarne l’attuazione. Da ricordare che il “tax credit” è stato invocato – come misura antirecessiva – dall’associazione degli inserzionisti pubblicitari, l’Upa (Utenti Pubblicitari Associati): in occasione dell’assemblea annuale del 3 luglio, il Presidente Lorenzo Sassoli de Bianchi ha richiesto un credito di imposta per gli investimenti pubblicitari incrementali per il 2013 e nei tre anni successivi, fino a un tetto del 10 %, in modo da poter recuperare almeno gli investimenti perduti in questo ultimo biennio. Il Vice Ministro Antonio Catricalà ha sostenuto: “con convinzione, mi sono subito adoperato con il Ministero dell’Economia e la Ragioneria generale dello Stato per il suo accoglimento”. Non se ha ancora traccia, ma forse un’altra (piccola) manna è in arrivo. Come dire?! Ci sono figli di dèi minori, nell’industria culturale italiana?! la fiction televisiva, l’editoria libraria, il teatro, la danza… No, semplicemente, non esiste una strategia organica e lungimirante di sviluppo sinergico della cultura italiana tout-court!

L’articolo 8 è il più breve del decreto legge, ma forse il più impegnativo, almeno per le finanze pubbliche. Il tax credit a favore del settore cinematografico viene reso “permanente”, e si allocano 45 milioni di euro per il 2014, e 90 milioni di euro “a decorrere dal 2015”. Bene, anche se ci sembra di ricordare che il tax credit fosse stato già classificato come misura definitiva e permanente da precedente leggina, poi superata da successiva leggina…

L’articolo 9 ha un titolo interessante: “Disposizioni urgenti per assicurare la trasparenza, la semplificazione e l’efficacia del sistema di contribuzione pubblica allo spettacolo dal vivo e al cinema”. Prevede una revisione radicale dei criteri per il sovvenzionamento dello spettacolo dal vivo, che dovrebbero finalmente “tenere conto” dei seguenti criteri: “della importanza culturale della produzione svolta” (ma chi la certifica?!), “dei livelli quantitativi, degli indici di affluenza del pubblico nonché della regolarità gestionale degli organismi” (ben venga!). Si plaude all’introduzione di una valutazione del rapporto tra offerta e domanda, dopo decenni di sovvenzionamenti basati sulla… conservazione dell’esistente (anno dopo anno, si tendeva a conservare il livello di contributo accordato). Il decreto legge, al comma 2 di quest’articolo 9, prevede l’introduzione di grande trasparenza nell’assegnazione di incarichi dirigenziali, amministrativi ed artistici, consulenziali e collaborativi, richiedendo la pubblicazione dei dati essenziali, compensi e curricula. Eccellente iniziativa: è ora di fare un po’ di trasparenza in questo settore.

L’articolo 10 del dl intende introdurre una deroga ad alcune contestate norme introdotte dalla legge di stabilità del 2010 (legge n. 122 del 30 luglio 2010), che prevedeva la riduzione dei costi degli apparati amministrativi e la “razionalizzazione della spesa delle amministrazioni pubbliche”, attraverso alcune disposizioni draconiane (la partecipazione onorifica ai cda, un gettone di presenza di 30 euro a seduta, riduzione delle spese in consulenza, ecc.): non vengono ora sottoposti a questa scure, gli “enti e organismi che operano nel settore dei beni e delle attività culturali, vigilati o comunque sovvenzionati dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ivi inclusi i teatri stabili di iniziativa pubblica e i relativi circuiti e associazioni”. Tra l’altro, non dovranno più effettuare i “tagli orizzontali” sulle spese relative a pubblicità e tournée. L’onere è calcolato in 4 milioni di euro dall’anno 2014.

L’articolo 11 del dl è finalizzato al “risanamento” delle fondazioni lirico-sinfoniche ed al “rilancio” del sistema nazionale musicale di eccellenza. Segnaliamo che nelle slide presentate dal Ministro il 2 agosto si spiegava: “Cambia la governance: si stabilirà l’obbligo del pareggio di bilancio e l’applicazione delle norme del codice dei contratti pubblici”. E si annunciava sinteticamente il diktat: “presentare entro 90 giorni un piano industriale di risanamento ridurre fino al 50 % del personale tecnico amministrativo; interrompere i contratti integrativi”. Leggendo il testo del dl, si comprende la profondità di una vera e propria rivoluzione (annunciata).

Entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge, gli enti in situazione critica economico-finanziaria debbono presentare un “piano di risanamento”, che preveda “soluzioni idonee a riportare la fondazione, entro i tre esercizi finanziari successivi, nelle condizioni di attivo patrimoniale e almeno di equilibrio del conto economico”. Tra le “condizioni inderogabili” del piano anche “la riduzione della dotazione organica del personale tecnico e amministrativo fino al cinquanta per cento di quella in essere al 31 dicembre 2012”.

Il personale “in eccedenza” verrà trasferito ad Ales spa, ma “nell’ambito delle vacanze di organico e nei limiti delle facoltà assunzionali di tale società” (?!). Non entriamo nel merito lessicale, ma segnaliamo che il Dizionario dell’Enciclopedia Treccani (che Bray ben conosce, essendone stato Direttore Editoriale) non censisce la parola “assunzionale”, che pure circola nello slang dei lavoristi e sindacalisti ed il legislatore eleva alla dignità di vocabolario normativo. Battute a parte, qui – sia consentito – si apre un altro capitolo grigio della politica culturale italiana: qualcuno può spiegarci il senso di questo braccio operativo – società “in house” – del Mibac?! Qualcuno ne ha studiato mai l’efficienza e l’efficacia?! Sul sito della società non appare ancora, all’agosto 2013, il bilancio dell’esercizio 2012. Nel 2011, il totale ricavi è stato di 14 milioni di euro; 579 dipendenti, di cui 310 a tempo indeterminato. E risulta che la Procura della Corte dei Conti stia studiando le carte societarie, e non è una bella premessa. Il decreto legge prevede anche che dovranno altresì essere interrotti i “contratti integrativi”. Non abbiamo ancora sentito tuonare i sindacati, ma si prevede un autunno caldo, almeno… liricamente inteso!

Comunque, il 7 agosto un primo segnale dai sindacati è pervenuto, con una “lettera unitaria” al Ministro, firmata da Slc (Cgil), Fistel (Cisl), Uilcom (Uil) e Fials (Cisal): un segnale curioso, perché il giorno prima gli stessi avevano manifestato apprezzamento rispetto al decreto legge, pur precisando “ovviamente, stanti le buone premesse, siamo in attesa della scrittura definitiva del testo per un giudizio più mirato del decreto” (6 agosto). Il testo, però, non avevano evidentemente ancora letto. Scrivono il 7 agosto: “ad una attenta lettura del testo, non definitivo, in tema di Fondazioni Lirico?Sinfoniche, non possono esimersi dal manifestare forti perplessità, preoccupazione e, in alcuni casi, non condivisione per come vengono affrontati questi argomenti che interessano la vita dei lavoratori, il futuro occupazionale degli stessi, prospettando, inoltre, interventi impropri sulla contrattazione nazionale e di secondo livello”.

Certo, si tratta di un “testo non definitivo”, ma dall’8 agosto ha forza di legge… Tutto questo processo di riforma emergenziale deve essere curato da un “Commissario Straordinario del Governo”, che diviene una sorta di potentissimo tecnico al servizio dell’Esecutivo: un Superman della Lirica! Il dl precisa che le risorse umane e strumentali necessarie non determineranno “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”: Superman lavorerà quindi gratis?! Immaginiamo l’impegno che potrà profondere, con tutti i cattivi del pianeta che deve tenere a bada.

Viene introdotto un “fondo di rotazione” di 75 milioni di euro per finanziamenti di breve periodo (3 anni). Una parte di questo budget, 25 milioni di euro, può essere anticipata dal Mibac nel corso del 2013, su indicazione del Commissario Straordinario, “sulle disponibilità giacenti”. Si ricorda – en passant – che il debito complessivo delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane veleggia intorno ai 350 milioni di euro… Viene riformata radicalmente anche la “governance”: permane il Presidente nella persona del Sindaco del Comune ove ha sede la fondazione; viene introdotto un “Consiglio di Indirizzo” formato da Presidente, dai rappresentanti degli fondatori pubblici e dai soci privati che versino almeno il 5 per cento del contributo dello Stato; il Sovrintendente (organo unico di gestione), nominato dal Mibact ma su proposta del Consiglio di Indirizzo; viene previsto un “organo monocratico di monitoraggio degli atti” adottati dal Sovrintendente, che invia una relazione al Mibact, ogni due mesi (tempo reale!); il Collegio dei Revisori, formato da 3 membri, di cui il Presidente designato dal Presidente della Corte dei Conti. Il “Consiglio di Indirizzo” ha l’obbligo di “assicurare il pareggio di bilancio”, e, in caso di violazione dell’obbligo, è prevista finanche la “responsabilità personale” (che paura!). Si stabilisce che le fondazioni sono sottoposte agli obblighi della legge n. 163 del 2006 ovvero al Testo Unico sugli Appalti: ciò è bene per la trasparenza della “res pubblica”, ma non è bene per le esigenze spesso atipiche che caratterizzano la produzione culturale. Si prevede anche una “conferenza” nazionale dei Sovrintendenti, finalizzata a garantire “la maggiore diffusione in ogni ambito territoriale degli spettacoli, nonché la maggiore offerta al pubblico giovanile, l’innovazione, la promozione di settore con ogni idoneo mezzo di comunicazione, il contenimento e la riduzione del costo dei fattori produttivi, anche mediante lo scambio di spettacoli o la realizzazione di coproduzioni, di singoli corpi artistici e di materiale scenico, e la promozione dell’acquisto o la condivisione di beni e servizi comuni al settore, anche con riferimento alla nuova produzione musicale”. Ottime intenzioni, attendiamo di vedere i fatti, come scrive Trimarchi. Il decreto legge prevede che la quota del Fus venga assegnata, tra le varie fondazioni, sulla base di queste quote percentuali: 50 per cento, “costi di produzione”, ma anche sulla base di “indicatori di rilevazione della produzione”; 25 per cento sulla base del “miglioramento dei risultati della gestione attraverso la capacità di reperire risorse”; 25 per cento sulla base della “qualità artistica dei programmi”. Si introduce il principio tipico della politica culturale “anglosassone” (Uk ed Usa, alcuni Paesi del Nord Europa): lo Stato ti sostiene, ma se tu sei in grado di reperire sul mercato altre risorse…

Il Capo 3 è intitolato “Disposizioni urgenti per assicurare efficienti risorse al sistema dei beni, delle attività culturali”.

L’articolo 12 introduce la chance di “donazioni di modico valore”, ovvero fino a 5.000 euro, attraverso modalità estremamente semplificate. Si ricorda che le donazioni sono oneri deducibili dal reddito (per le imprese) o detraibili dall’imposta sul reddito (per persone fisiche) e che in Italia queste dinamiche sono ostacolate da procedure burocratiche complesse e demotivanti. Il tetto della somma in questione appare veramente molto molto modesto, e segnaliamo che in occasione della conferenza stampa il Ministro Bray ha evocato le esperienze di “crowdfunding”. Il comma 2 prevede che “entro il 31 ottobre 2013” (dando per scontata l’approvazione del decreto legge?!), il Ministero “individua forme di coinvolgimento dei privati nella valorizzazione e gestione dei beni culturali, con riferimento a beni individuati con decreto del medesimo Ministro”, facendo proprie le indicazioni della “commissione di studio già costituita presso il Ministero”. Non c’è riferimento a decreto ministeriale di sorta, e quindi il riferimento è oscuro. Come è noto il 9 agosto, il Ministro ha istituito una “Commissione per la Revisione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” (presieduta da Salvatore Settis) ed il 12 agosto un’altra non meno ambiziosa “Commissione per il Rilancio dei Beni Culturali ed il Turismo e per la Riforma del Ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa” (presieduta da Marco D’Alberti), ma si tratta di organismi consulenziali evidentemente altri. Si riferisce forse al “Comitato Tecnico-Scientifico per l’Economia della Cultura”, formato da professionisti di livello (già presieduto dal compianto Walter Santagata; attuale Presidente Giuseppe Pennisi, componenti Paolo Baratta, Paolo Iannelli, Andrea Moretti), che campeggia sul sito del Mibac, ma le cui attività non sono di pubblico dominio?! In occasione dell’audizione del 24 maggio, Bray aveva annunciato: “Per queste finalità, sarà presto costituito un gruppo di studio, cui sarà demandato il compito di approfondire le forme e le modalità più efficaci per l’esplicarsi del rapporto tra soggetti pubblici e privati nella gestione delle attività di valorizzazione, in modo da individuare soluzioni che consentano di coniugare le esigenze della migliore fruizione pubblica degli istituti e dei luoghi della cultura con la sostenibilità economica delle gestioni e la valorizzazione della progettualità degli operatori economici”. Non si ha pubblica evidenza di questo “gruppo di studio” o “commissione” che sia, e si attendono chiarimenti.

L’articolo 13 appare pleonastico, dato che precisa (cui prodest?!) che il Ministro è “autorizzato ad avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri per le finanze dello Stato, del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici (beh, sarebbe surreale se il Ministro non se ne avvalesse, no?! n.d.r.), nonché di altri Comitati Tecnico-Scientifici e organismi consultivi istituiti e nominati con decreto del medesimo Ministro in numero non superiore a 7”. E si precisa che “gli organismi di cui al comma 1 operano senza oneri a carico della finanza pubblica”. Osserviamo – en passant – che la Commissione per la Revisione del Testo Unico (nominata il 9 agosto) è formata da 5 componenti, mentre quella per il Rilancio (nominata il 12 agosto) da 20 membri. Tutti lavoreranno alacremente… gratis!

L’articolo 14 è intitolato “Oli lubrificanti e accisa su alcol” ed è evidentemente fuori contesto, così come l’articolo 15, “Norme finanziarie”, che si caratterizza per un testo così criptico (rimandando di legge in legge) da rendere inutile un tentativo di decrittazione. Quel che sembra di comprendere è che l’accise sulla benzina continuerà ad alimentare il tax credit cinematografico: con gran gioia degli automobilisti che magari al cinema non vanno nemmeno una volta l’anno, e nemmeno sanno di questo loro bel contributo al sistema culturale nazionale.
Fin qui, l’analisi del testo.

Come ha scritto Trimarchi, “carta è e carta rimane finché non se ne comincia l’attuazione”. Crediamo che però che la carta scritta da Bray e dal suo staff consulenziale meriti un’analisi accurata, sia per la legistica (debole assai) sia per la strategia (valida anche se deficitaria). A proposito di consulenti, si segnala che il 2 agosto il Responsabile nazionale Cultura della epifaniana segreteria Pd, Antonio Funiciello, ha rivendicato che “il Pd ha svolto la sua parte nell’ideazione e nel sostegno all’iniziativa”. E si ricorda un convegno nazionale del Pd del 2005 intitolato proprio “Valore Cultura – Progetti e politiche di sviluppo per la cultura e per l’economia nella società postindustriale”.
In sostanza, lo spirito complessivo che anima il provvedimento appare condivisibile (razionalizzazione e modernizzazione), e rappresenta certamente un segnale di inversione di tendenza, ma è purtroppo un timido segnale.  Appare evidente che il Ministro guardi all’eccellente modello francese (come ha peraltro pubblicamente riconosciuto) ed è cosa buona e giusta.
Appare altrettanto evidente che il decreto legge ripropone patologie storiche del nostro Paese: frammentarietà ed occasionalità.
Interviene su alcuni nodi delicati, ma non ha il coraggio di prendere il toro per le corna.

Dettagli tecnici a parte, scrittura normativa incerta a parte, operazioni comunicazionali mirate a parte… ci si domanda: esiste una “intelligenza” (e finanche “strategica”) alla base di questi interventi “urgenti” su questioni “emergenziali”?! La risposta è negativa. Ci sembra un tentativo normativo basato su buone intuizioni, così come su belle intenzioni. Ma il risultato è frammentario, fragile, timido. Pannicelli caldi, insomma.
Ribadiamo: mai è stata realizzata una analisi di impatto, per esempio, sul tax credit cinematografico, e quindi nessuno può dimostrare se si tratta di cura efficace o di effimero palliativo, rispetto allo sviluppo sano (plurale e innovativo) del sistema cinematografico italiano. E poi… perché il “cinema” sì e la “fiction” no?! Non è dato sapere: assenza di “policy making” lungimirante, mercanteggiamenti tra lobby più (Anica) o meno (Apt) potenti, interventi emergenziali ed urgenti (appunto). Così va il mondo… cioè l’Italia.

Altra annotazione: nel decreto “Valore Italia”, non 1 parola 1 sul turismo. Eppure, la Sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni, nel post del 2 agosto sul suo blog, aveva scritto: “Sono stati presi anche provvedimenti utili per il turismo, in particolare per rilanciare il turismo sostenibile e culturale”. Scomparsi in itinere, Sottosegretario?! In verità, in occasione della conferenza stampa del 2 agosto (qui il video, per gli appassionati del genere), Bray ha annunciato che provvedimenti in materia di turismo sono ancora in gestazione… Affidati alle cure della Sottosegretaria finalmente con delega, Simonetta Giordani.
Il decreto legge resterà in vita per 60 giorni ed avrà “forza di legge”, ma gli effetti prodotti sono provvisori, perché i decreti-legge perdono efficacia sin dall’inizio, se il Parlamento non li converte in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione.
Dal 9 agosto all’8 ottobre 2013, appunto. La Camera riapre i lavori il 6 settembre. In 1 mese 1, si riuscirà ad approvare una legge di conversione, nei due rami del Parlamento?!
Riusciranno “i nostri eroi” a far approvare il decreto legge in tempo utile?!

Scarica qui il testo integrale del Decreto Legge

 
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

buononuovoC’è del buono e del nuovo, e forse stavolta non per forza il buono non è nuovo e il nuovo non è buono. Il decreto “Valore cultura” contiene molte misure (come le definisce il gergo burocratico ormai privo d’aria) che spaziano da Pompei alle donazioni individuali, dal tax credit al piano industriale (sic) delle fondazioni liriche, dai giovani artisti che finalmente si possono esprimere in alcuni spazi demaniali ad alcune forme di elusione della spending review.

Giudicare il decreto sulla carta è un esercizio che lasciamo volentieri ai non pochi polemisti per vocazione. Carta è e carta rimane finché non se ne comincia l’attuazione, e anche se analoghe esperienze del passato remoto e recente giustificano qualche sospetto il Ministro è appena insediato e già il fatto che prenda per le corna il toro multiforme e capriccioso del sistema culturale italiano va preso come un segno incoraggiante.

Quello che possiamo, anzi che vogliamo, mettere in evidenza è che un intervento del genere, per quanto complesso e variegato, rischia il naufragio nella solita palude dell’emergenza permanente che piace così tanto all’establishment culturale italiano se non viene seguito in modo sistematico e deciso da un ridisegno del sistema stesso, che sopravvive con difficoltà a causa di una normativa obsoleta, ideologica, priva di incentivi e orientata alla conservazione dello status quo.

Inutile dire che mentre lo status quo di alcuni decenni fa è rimasto più o meno invariato (era questo lo scopo del gioco) la società e la cultura che ne rappresenta la più profonda identità si sono evolute, hanno attraversato fasi di dubbio e di desiderio, hanno aperto le loro finestre su un mondo sempre più dinamico e laico. Qui ancora ci si balocca con il dualismo tra pubblico e privato (che anche nei manuali è tema da bar dello sport), con le ubbìe moralistiche di chi si compiace di un assedio di fatto inesistente, con il terrore della barbarie che tenta goffamente di respingere ogni principio di responsabilità e di trasparenza.

Ce n’è abbastanza per aspettarsi finalmente la presa d’atto che l’Ottocento è finito, che i musei non possono essere tuttora uffici periferici del Ministero; che i teatri non perseguono alcun obiettivo strategico; che le relazioni internazionali si limitano ad alcune tournées confidando di fare cassa e di sedurre qualche imprenditore gonzo; che la formazione, l’accesso e lo svolgimento delle professioni culturali è soggetto a regole bizantine e a criteri da corte imperiale; che del pubblico e della società non si occupa praticamente nessuno.

Il progetto Pompei potrà generare risultati interessanti, ma sarebbe il caso di esplicitare le relazioni con la Soprintendenza speciale, che è il frutto del precedente tentativo di rendere decente un sito la cui specialità diluisce pericolosamente nell’opacità. Già la lirica è attraversata da un po’ di anni da onde di commissariamenti. La recente esperienza di Mario Resca, messo lì ad aprire mercati ma del tutto privo di orientamenti e di indirizzi, la dice lunga: il manager non può essere utile se il vertice strategico del Ministero non gli pone le domande giuste. L’attesa del Deus ex Machina potrebbe essere l’ennesimo palliativo che non riesce a frenare il cupio dissolvi della cultura italiana, così convinta di essere unica da non riuscire a diventare normale.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

broadbandIl Decreto Valore Cultura ha un significato e una portata che vanno oltre le misure – pur importanti – in esso contenute. Per la prima volta dopo tanti anni infatti sembra emergere un approccio di sistema alle politiche di sostegno pubblico al comparto, una “vision” che considera ad esempio l’audiovisivo un segmento della produzione creativa ad alto potenziale occupazionale e generatore di ricadute sul piano economico e industriale.

Certo, si tratta solo di un piccolo passo ma fatto nella giusta direzione e che dimostra che nonostante le emergenze quotidiane è possibile derogare ai tagli orizzontali là dove gli investimenti pubblici vengono considerati realmente strategici.

Sembrerebbe maturo quel cambio di passo necessario per avviare una seria e radicale riforma della governance per estendere ad esempio i benefici fiscali anche al settore della fiction (ben venga intanto il provvedimento a favore della produzione indipendente musicale) e del sistema di raccolta della risorse da far affluire al comparto dei contenuti creativi e culturali creando dei tavoli negoziali con i tradizionali player (broadcaster e Telcos) e nuovi operatori globali della rete (OTT).

 

Bruno Zambardino è analista senior della Fondazione Rosselli e Direttore didattico As.For. Cinema

valorecultura

Partiamo dall’annuncio ufficiale diramato nella tarda mattinata di venerdì 2 agosto:

“La Presidenza del Consiglio comunica che il Consiglio dei Ministri si è riunito oggi alle ore 10.30 a Palazzo Chigi, sotto la presidenza del Presidente del Consiglio, Enrico Letta. Segretario il Sottosegretario di Stato alla Presidenza, Filippo Patroni Griffi. Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio, Enrico Letta, e del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Massimo Bray, ha approvato il decreto legge “Valore Cultura” riguardante disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”.

Il comunicato stampa segnala che la riunione si è conclusa alle 12.38.

Discretamente tempestiva la reazione di alcune lobby:
alle 15.35, l’Anica esprime “grande soddisfazione per il rinnovo del tax credit”; l’Agis si esprime poco dopo per bocca del Presidente dell’Anec (gli esercenti), che manifesta “soddisfazione e sollievo”;
alle 17.36, i 100autori – che si autodefiniscono “associazione dell’autorialità cinetelevisiva” – titolano “Bene il ripristino del tax credit” (diverte riportare la parte finale del comunicato: “Da oggi può ricominciare una progettazione a lungo termine per trovare le forme ed i modi più adatti ad innovare liberalizzare, rilanciare uno dei mestieri più belli del mondo: quello che con le immagini racconta storie al mondo intero, fa pensare, divertire, crescere uomini e donne, e da oggi, perché no anche Ministri”);
alle 18.12, si registra una reazione meno entusiasta dell’Anac – la associazione storica degli autori cinematografici – che qui riproduciamo: “Mentre accogliamo il ripristino, da parte del Governo, del tax credit come segnale di un’auspicale inversione di tendenza rispetto alle politiche demolitorie attuate nel recente passato nei confronti del cinema italiano, non possiamo ignorare che questo provvedimento rappresenta soltanto una piccola boccata di ossigeno offerta a un malato in rianimazione, le cui condizioni restano critiche. Noi riteniamo che il cinema italiano abbia bisogno, oggi, di una politica capace di esprimere una visione strategica che tenga conto, armonizzi e valorizzi, anche attraverso singoli provvedimenti, tutta la molteplicità di esperienze, creative e produttive, che la nostra cinematografia è in grado di rappresentare”;
l’indomani, alle 9.50 di sabato 3 agosto, perviene un po’ tardivo comunicato stampa del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici, anch’esso positivo ed ottimista…
Non apparteniamo all’eletta schiera di coloro che hanno avuto chance di leggere il testo del provvedimento (sempre di bozza trattasi comunque), che non è stato reso di pubblico dominio dalla Presidenza del Consiglio. Si dovrà verosimilmente attendere qualche giorno, anche perché immaginiamo vengano apportati i soliti ritocchi dell’ultimo minuto.
Come hanno scritto i 100autori: “Leggeremo con attenzione ogni singola riga del decreto, ma l’anima della iniziativa di oggi è che dagli investimenti nella cultura e nelle industrie culturali si può e si deve ricominciare a pensare lo sviluppo del Paese”. Apprezzabile la prudenza, eccessivo l’ottimismo temiamo.

Crediamo veramente sia necessario leggere con estrema attenzione il testo, anche perché, con modalità abbastanza inconsueta, sul sito web della Pdcm ed in allegato del comunicato stampa diramato dal Mibac, viene proposta una sintesi, con file in formato Power Point, con 17 slide di poche righe ognuna. In sostanza, abbiamo la sintesi, ma non il testo del documento, e sappiamo bene quanto, soprattutto in Italia, possa nascondersi nei meandri dei testi normativi e soprattutto tra le righe dei criptici testi cui ci ha abituato il legislatore nazionale. “Tafter” ha già segnalato il 2 agosto le novità annunciate dal documento governativo.

Cerchiamo di analizzare il “dietro le quinte”. Venerdì in tarda mattinata, e quindi prima della decisione del Governo di utilizzare lo strumento del decreto legge, una testata ancora poco nota (anzi per la verità quasi semi-clandestina), ma di gran qualità tecnica (e di eterodosse posizioni), “Odeon”, pubblicata dal lombardo Tespi Mediagroup, intitolava un’interessante analisi “dietrologica”, a firma di una delle penne più acute del giornalismo di indagine in materia di politica dell’audiovisivo, Andrea Dusio: “Tax Credit: allegretto andante per trio… Le agevolazioni fiscali verranno prorogate in virtù di un ordine del giorno promosso da tre parlamentari di Scelta Civile: Andrea Romano, Edoardo Nesi ed Enrico Zanetti. Tutti e tre figuravano nella Fondazione Italia Futura, come il Presidente di Anica Riccardo Tozzi”.

Dusio scrive che “l’emendamento  inatteso” (in base al quale il governo avrebbe dovuto provvedere, “già nella prossima Legge di Stabilità o con altre urgenti iniziative legislative”, ad estendere le agevolazioni fiscali previste dal tax credit per il cinema italiano oltre la scadenza del 31 dicembre 2014) “non sarebbe stato ispirato dall’intervento del Ministro Bray, né tantomeno dalla pressione del Pd, che pure ostenta continuamente la propria attenzione al settore cinema, ma nasce da un ordine del giorno presentato da tre parlamentari di Lista Civica, Andrea Romano, Edoardo Nesi ed Enrico Zanetti”.

In effetti, sul sito web di Andrea Romano, si legge: “Avevo proposto già in Commissione Bilancio un emendamento al Decreto Fare che rimediasse al taglio del tax credit venuto con quel provvedimento. Sono particolarmente lieto che la Camera dei Deputati abbia voluto accogliere questa raccomandazione, che punta a conservare per il settore cinematografico uno strumento di raccolta e valorizzazione di investimenti privati che ha dato ottimi risultati e che è ormai imprescindibile per un settore fondamentale della nostra industria culturale. La decisione di ridurre la durata e la quantità del tax credit con il Decreto Fare è stato un errore politico, al quale sono convinto che il Governo vorrà porre rimedio raccogliendo l’indicazione della Camera”. Da segnalare che un analogo ordine del giorno è stato presentato anche da Matteo Orfini ed altri parlamentari del Pd, e chiedeva – come ha ricordato il neo Responsabile Cultura e Comunicazione del Pd (Segreteria Epifani), Antonio Funiciello – l’estensione anche all’audiovisivo del tax credit: ma questo odg è stato derubricato a “raccomandazione” accolta dal Governo, che, alla fin fine, però non ha tramutato la raccomandazione in testo, nel decreto legge…

“Odeon” sostiene quindi maliziosamente (ma – crediamo – a ben vedere) che “più delle minacce di serrate e cortei, poterono le buone relazioni”. È pur vero che l’emendamento in questione è stato approvato quasi in contemporanea rispetto alla minaccia, manifestata da ultimo il 25 luglio in occasione della conferenza stampa di presentazione a Roma della Mostra del Cinema di Venezia, di non far entrare i politici nelle sale cinematografiche della rassegna veneziana: il che sarebbe stato effettivamente un bell’affronto per la… politica spettacolo! E va segnalato che il Mibac aveva diramato, alle 9.15 del 25 luglio, guarda-un- po’ proprio qualche ora prima della conferenza stampa per Venezia, un comunicato stampa che recitava: “Si è svolto ieri presso il Ministero dei Beni, delle Attività culturali e del Turismo un incontro del Ministro, Massimo Bray, con le associazioni di categorie cinematografiche. Nell’occasione, in un clima di cordialità e collaborazione, il Ministro ha ricostruito le fasi dell’impegno del Governo nel ripristinare la norma del tax credit per il 2014, con un primo stanziamento da 45 milioni di euro, che era stata totalmente cancellata. Comprese le ragioni della protesta degli operatori del cinema e riconosciuta l’importanza di una norma che consente gli investimenti nel settore, il Ministro ha assicurato il suo impegno e quello del Governo per ricostituire completamente i fondi”. L’indomani però il portavoce dei 100autori Nicola Lusuardi aveva evidenziato che si trattava di “impegni in un futuro non definito”. Il Consiglio dei Ministri di venerdì 2 sembra aver messo “data certa” alle belle intenzioni. Sempre se il decreto legge verrà convertito in legge.

Se “Odeon” attribuisce alla dalemiana Fondazione Italianieuropei (della cui rivista lo stesso Ministro Bray è stato peraltro direttore) un potere di influenza impressionante (anche se verosimilmente corrispondente al vero), è opportuno osservare che il ripristino del tax credit è comunque iniziativa apprezzabile: va però ricordato che manca, ancora una volta, una seria lettura critica ed un approccio strategico alla politica culturale nazionale. Qualcuno gioisce poi perché Letta e Bray hanno allocato anche 5 milioni di euro 5 a favore di un inedito tax credit per la musica, “senza distinzioni di genere”.

Perché alla musica e non al teatro (per esempio)?! E perché non a favore dell’audiovisivo tout-court? In effetti, plaudono associazioni di settore come Fimi ed Audicoop, ma l’associazione dei produttori televisivi Apt non s’è unica al coro di applausi… E peraltro perché 5 milioni soltanto, e non 3 o non 10?! Ancora una volta, si procede nasometricamente, con approssimazione, senza che alla base del processo di “policy making” vi siano ricerche di scenario, studi di fattibilità, valutazioni ex ante, e soprattutto analisi sistemiche ed organiche sull’economia della cultura e sull’efficienza ed efficacia dell’intervento pubblico. Leggine piuttosto che leggi: da decenni, il sistema culturale italiano vive di interventi “d’emergenza” (il “decreto legge” lo è peraltro per antonomasia). Leggine, leggi-ponte, leggi-tampone, leggi emergenziali, per non dire di decreti ministeriali che talvolta sembrano assurgere a normazione supplente (fenomeno che finisce per riguardare anche le autorità indipendenti, Agcom inclusa).

Al di là del tax credit per il cinema (sul cui impatto concreto non esiste alcun studio valido, realizzato da soggetti di parte o istituzione alcuna), gli interventi decantati nelle slide ministeriali appaiono, ancora una volta, frammentari ed occasionali, su Pompei così come sui musei o sui finanziamenti pubblici allo spettacolo. Il Ministero ha tentato di ben curare l’operazione comunicazionale, ma la legge imminente dovrà essere oggetto di un’analisi accurata. Si può comodamente scrivere – come si legge nelle slide – “è il primo passo verso una riforma strutturale dello spettacolo… i fondi non saranno più assegnati a pioggia sui diritti acquisiti… saranno invece distribuiti in relazione alle attività svolte e rendicontate…”. Bene, bravo, ma concretamente cosa significa??? Attendiamo non soltanto il testo, ma la relazione con cui il dl verrà trasmessa alle Camere per l’approvazione. E vogliamo vedere cosa accadrà durante l’iter, altro che… “primo passo”. Speriamo non sia un passo del gambero. Una discreta preoccupazione – dati i precedenti legislativi in materia – permane: basti pensare al rischio di emendamenti killer da parte di Brunetta e di qualche altro estremista neoliberista.

Comunque, Ministro Bray, ci consenta: ci vuole coraggio per sostenere che “non accadeva da trent’anni”… Cosa, di assistere ad un intervento così… (dis)organico???
Da segnalare infine che la ricaduta stampa dell’iniziativa è stata modesta, veramente limitata: a parte una prevedibile “l’Unità” entusiasta (ha titolato con gran retorica “Viene restituita la dignità perduta”), pochi articoli su altre testate: Paolo Conti sul “Corriere della Sera” utilizza la metafora “boccata d’ossigeno”, riprendendo forse involontariamente la lettura critica dell’Anac, e precisa un “decreto normale solo per la cultura”. Forse dipende però dal torrido agosto che colpisce anche le redazioni dei quotidiani. Segue.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

brayE’ stato approvato quest’oggi dal Consiglio dei ministri, il Decreto “Valore Cultura” che riassume in tutte  le misure introdotte dal neo ministro Massimo Bray in materia di beni culturali e spettacolo dal vivo.
Il Decreto si compone di 3 macrocategorie: Grandi Progetti; Valore Cinema Spettacolo; Valore Risorse.

Vediamo nello specifico le principali novità:
Valore Grandi Progetti riassume le Disposizioni urgenti per la tutela, il restauro  e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano. Non poteva non farne parte Pompei.
Dopo aver decretato le 5 idee vincitrici della call for ideas “99 ideas – Pompei”, questi gli interventi riguardanti il più importante sito archeologico italiano:

– Per gestire e coordinare gli interventi e gli appalti fuori e dentro il sito archeologico sarà istituita la figura di un Direttore generale del progetto Pompei che dovrà definire le emergenze, assicurare lo svolgimento delle gare, migliorare la gestione del sito e delle spese

– Il Direttore sarà l’amministratore unico del nuovo organismo «Progetto Pompei», che avrà il compito di definire i tempi di realizzazione degli interventi e potrà ricevere donazioni ed erogazioni liberali; avrà il supporto di tecnici provenienti dall’amministrazione statale (massimo 20 persone) e di 5 esperti in materia giuridica, economica, architettonica, urbanistica e infrastrutturale

La Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia sarà separata dal polo museale di Napoli e Caserta dove nascerà la nuova Soprintendenza per i beni archeologici

Novità anche per quanto riguarda il comparto museale e per inserimento lavorativo dei giovani in ambito culturale:

– Il Ministero avrà la possibilità di razionalizzare i fondi interni per gestire al meglio le aperture museali

– Gli introiti della vendita dei biglietti e i proventi del merchandising relativi ai siti culturali, che con la finanziaria del 2008 erano stati ridotti fino all’attuale 10-15% , saranno riassegnati interamente al MiBAC

– Alcuni spazi statali e demaniali saranno affidati alla gestione di artisti under 35, sulla base di bandi pubblici a rotazione semestrale. In questo modo, sull’esempio di «59 Rivoli» a Parigi, saranno creati spazi all’interno delle città in cui gli artisti potranno esprimersi creativamente e ricercare nuove forme di espressione

– Per facilitare l’accesso e la fruizione del patrimonio culturale da parte del pubblico, il MiBAC attuerà un programma straordinario di inventariazione e digitalizzazione. Per questo, saranno selezionati 500 laureati under 35 ai quali sarà data la possibilità di accedere a un tirocinio di 12 mesi . Il progetto pilota partirà nelle regioni Puglia, Campania, Calabria e Sicilia, con i primi 100 ragazzi

Uno dei punti fondamenti del Decreto, nonché uno dei più contesi in questi giorni, riguarda invece il tax credit. Per il tax credit per il cinema, come auspicato dagli operatori del settore, sarà garantita la cifra di 90 milioni di euro. Ispirato a quello sul cinema verrà introdotto inoltre un tax credit pari a 5 milioni di euro sulla musica, ispirato a quello sul cinema, per far fronte alla crisi del mercato musicale e promuovere giovani artisti e compositori emergenti
Ne beneficeranno opere prime e opere seconde, senza distinzioni di genere.

In tema di tagli viene specificato inoltre che gli enti culturali vigilati dal MiBAC e i Teatri stabili pubblici non dovranno più effettuare i tagli orizzontali sulle spese relative a pubblicità e tournée come previsto dalla spending review.

E’ in questo punto che viene introdotta la Riforma delle fondazioni lirico-sinfoniche:

– Le fondazioni potranno accedere a un fondo di 75 milioni di euro, che sarà gestito da un commissario straordinario. Dovranno presentare entro 90 giorni un piano industriale di risanamento; ridurre fino al 50% del personale tecnico amministrativo; interrompere i contratti integrativi.

IL MiBAC, per salvaguardare i lavoratori, ha previsto la possibilità di trasferimento nelle varie sedi territoriali di Ales spa del personale tecnico amministrativo in esubero fino al 50%
Cambia inoltre la governance: si stabilirà l’obbligo del pareggio di bilancio e l’applicazione delle norme del codice dei contratti pubblici e verrà introdotto l’obbligo di cooperazione tra le fondazioni e di condivisione di programmi e spettacoli

Come si riuscirà ad evitare sprechi e finanziamenti a pioggia? Queste le idee contenute nel decreto:

– Le pubblicazioni che documentino ricerche finanziate almeno per metà da fondi pubblici, saranno accessibili gratuitamente e telematicamente da chiunque

– Le esecuzioni, le rappresentazioni e le letture di una di queste opere, qualora avvenissero all’interno di una biblioteca, non saranno ritenute pubbliche se realizzate per promozione culturale e valorizzazione dell’opera stessa. Sarà pertanto attuata una strategia con il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca per evitare duplicazione e sovrapposizione delle banche dati

– I fondi non saranno più assegnati a pioggia sui diritti acquisiti ma saranno invece distribuiti in relazione alle attività svolte e rendicontate.

– Ai fini di trasparenza sarà poi prevista un’anagrafe degli incarichi amministrativi e artistici degli enti di spettacolo

Dulcis in fundo: i privati potranno elargire denaro alla cultura ricevendo delle agevolazioni fiscali: le donazioni fino a 5mila euro in favore della cultura potranno essere effettuate: senza oneri amministrativi a carico del privato; con la garanzia della destinazione indicata dal donatore e con la piena pubblicità delle donazioni ricevute e del loro impiego

“La cultura – ha affermato durante la seduta il premier Letta – è il cuore del nostro Paese e la possibilità di attrarre investimenti è una delle nostre priorità. Ci sono molti problemi nel campo della cultura”
Riusciremo a risolverli?

fareTutti i segnali raccolti dagli analisti dicono che questa sarà l’estate del ‘Fare’.
Sono un po’ meno concordi nel definire del ‘Fare’ cosa.

Io che dal Fare sul serio ho sempre un certo timore, provo a mettere in fila cosa significhi e a dare una lettura all’estate che lasci in bocca il sapore di questi tempi.
Innanzi tutto non riesco a non pensare ai 3.200.000 disoccupati che hanno poco da ‘Fare’. Sono flessibili, si sa, e possono magari Fare melina, Fare tardi la sera tanto la mattina possono dormire, Fare la coda per la carta verde, Fare quello che possono per tirare avanti, Fare corsi di formazione senza sbocco, Fare finta che tutto vada bene, Fare quello che gli dicono, Fare il contrario di quello che vorrebbero, Fare un biglietto di sola andata per la Germania.

Intanto Papa Francesco ha deciso di ‘Fare’ una bella gita fuori porta a Lampedusa e ha ribadito la linea del Vangelo su accoglienza e solidarietà. Ci ha messo tanta forza che metà della politica cattolica si è arrampicata sulle pissidi per non ammettere di aver usato quelle pagine per accendere il camino. Poi è andato a ‘Fare’ la scampagnata in Brasile, tenendosi ben stretta la borsa, sollevando più di un “Ohhh!” stupito tra chi pensava che favelas e povertà fossero fuori moda nell’estate 2013. Francesco, vuole anche Fare chiarezza sullo IOR ma chissà se glielo faranno Fare.
A Londra due giovinastri incoronabili hanno deciso di ‘Fare’ un bambino a lungo innominato che ha generato una ola che dalla sala parto è arrivata alle bianche scogliere di Dover. Stampa, tv, media, hanno già provato a Fare santo subito il pupetto reale, probabile sovrano nel 2060 con delega su Kingdom Centauri ai confini della galassia.

Il nostro governo poi ha chiamato un provvedimento Decreto del ‘Fare’. Semiotica e Scienze della Complessità stanno cercando di capirne le ragioni. Nel decreto ci si lancia nel Fare il lifting alle Provincie, si prova a Fare molto fumo sulle sigarette elettroniche, si decide di Fare fuori il cinema italiano, si dimentica di Fare qualcosa (di sinistra, destra, sopra o anche di sotto) per i 3.200.000 di cui sopra oltre che aprirgli il wi-fi gratis.
Agli evasori e alle mafie invece si concede di continuare a Fare quello che sanno Fare meglio. È il Made in Italy.

Gli editori quest’anno però non sono riusciti a Fare uscire il libro dell’estate. Sì, provano a Fare cassetta con titoli labirintici come ‘La cattedrale del profeta misterioso’, ‘ I papiri stropicciati del Mar Morto’, ‘Scusa se ti porto al mare’, ‘Un mare di sogni bui come il latte’, ‘Fammi Fare la tua ombra in marzapane’. Ma gli italiani leggono sempre meno, e non perché devono Fare l’esame della vista. I sospiri goduti che l’anno scorso ci hanno fatto Fare le ‘50 Sfumature’ stavolta non tracimano più da sotto gli ombrelloni dove si nota invece una ripresa del Fare le parole crociate, 2 Euro di certezze e grande catalizzatrici nel Fare gruppo. “3 verticali: Produrre, Costruire, Dar vita a qualcosa”. “Fare!” appunto. Anche se non siamo molto capaci.

La logica della complessità, ci dice che dopo l’estate del ‘Fare’ dovrebbe arrivare l’autunno del ‘Baciare’, ‘Lettera’ a Babbo Natale per l’inverno poi, e ‘Testamento’ finale col logo della BCE in primavera, dove poi dal letame nasceranno i fior e il ciclo ripartirà.

Samuel Saltafossi è sociologo della complessità

wwwstreetQuello dell’Agenda Digitale è, ormai, un argomento ben noto che ultimamente richiama sempre più attenzione da parte dell’opinione pubblica. Non solo per l’importanza che l’Agenda riveste all’interno della Programmazione Europea per il 2020, ma anche per le dinamiche (per dirla alla “Boris”) un po’ troppo italiane, con le quali tale “iniziativa faro” viene portata avanti nel nostro Paese. Come recita un vecchio adagio: “tra dire e il fare c’è di mezzo il mare”. E per quanto sotto l’aspetto comunicativo il recente decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013, abbia voluto sorvolare su questo scarto differenziale, la riprova che la saggezza popolare ha sempre un fondo di verità non ha tardato a manifestarsi.

A ricordarci che non bastano i buoni propositi (come ognuno di noi dovrebbe aver imparato di capodanno in capodanno) è stavolta il Garante per la Protezione dei Dati Personali, che in una serie di documenti (lettere e comunicati stampa) ha ribadito all’attuale governo forti perplessità che si sente in dovere di rendere note. Ma quali sono queste perplessità e quali disposizioni impattano nello specifico? Stando al testo integrale del decreto legge pubblicato in Gazzetta Ufficiale, le norme che riguardano l’implementazione di innovazioni e semplificazioni inerenti lo sviluppo degli strumenti digitali in Italia sono contenute all’interno del Titolo I: Misure per la crescita economica. In questo titolo vengono trattate numerose tematiche di interesse nazionale, dall’ambiente ai beni culturali (sebbene sulla validità di questi interventi ci sia ancora da riflettere) fino ai temi dell’Expo.

Le norme che interessano l’ammodernamento del sistema digitale sono contenute nel Capo II: Misure per il potenziamento dell’agenda digitale italiana, fatta eccezione di una disposizione inserita nell’art. 10 del Capo I: Misure per il sostegno alle imprese.
Per quanto questa possa sembrare un’inezia da filo-giuristi, la differenza di collocazione è di fondamentale importanza: essa va a confermare che le disposizioni contenute nell’articolo 10 hanno lo specifico obiettivo di agevolare il mondo imprenditoriale. Fa dunque sorridere (ma neanche troppo) che proprio tali prescrizioni siano state indicate dal Garante come troppo onerose, ma il sorriso (se mai c’è stato) diventa un riso amaro quando si apprende dalle stesse parole del Garante che tali predisposizioni erano già state inserite e depennate in passato; come recita il testo della lettera al Presidente della Commissione Bilancio: “E’ appena il caso di ricordare, poi, che taluni obblighi di monitoraggio e registrazione di dati, erano stati stabiliti dal decreto-legge n. 144 del 2005 (c.d. decreto Pisanu) per categorie di “gestori” diversi da coloro che offrono accesso a Internet con tecnologia wi-fi, e sono stati successivamente soppressi anche in ragione delle difficoltà e degli oneri legati alla loro applicazione (decreto-legge n. 225 del 2010).”

Per gettare un po’ di luce sulla questione, è forse utile ricordare cosa prescrive il decreto legge all’art. 10 che disciplina, come indica il titolo, la “Liberalizzazione dell’allacciamento dei terminali di comunicazione alle interfacce della rete pubblica”. Al punto primo dell’articolo si legge: “L’offerta di accesso ad internet al pubblico è libera e non richiede la identificazione personale degli utilizzatori. Resta fermo l’obbligo del gestore di garantire la tracciabilità del collegamento (MAC address).” Il che vuol dire che chi offre un servizio wi-fi ai propri clienti, non è più tenuto alla registrazione dell’identità di coloro che usufruiscono del servizio. In realtà se da un lato viene liberato da quest’onere viene poi gravato di ulteriori responsabilità: il gestore, stando a quanto prescritto dal decreto legge non solo deve “registrare un indirizzo MAC” (indirizzo tra l’altro agevolmente modificabile) ma deve anche garantire la tracciabilità di tutti i collegamenti ad esso correlati.
Ma c’è di più: il punto secondo del medesimo articolo recita: “La registrazione della traccia delle sessioni, ove non associata all’identità dell’utilizzatore, non costituisce trattamento di dati personali e non richiede adempimenti giuridici.” E anche su questo punto il Garante ha qualcosa da ridire, affermando che: “ciò che più preme a questa Autorità è sottolineare come le disposizioni in commento, nell’escludere che un trattamento di dati costituisca un trattamento di dati personali, rischiano di impattare sulla tutela dei diritti fondamentali e di confliggere con la definizione stessa di dato personale contenuta, oltre che nel Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lg. 30 giugno 2003, n. 196), nella stessa direttiva europea sulla tutela della vita privata.
E con questo la questione appare risolta: le predisposizioni che avevano lo scopo di rendere più facile la vita di coloro che offrono, dietro una sempre più forte richiesta da parte degli utenti, un servizio di wi-fi, non solo non la rendono affatto più semplice, ma rischiano di eludere i diritti fondamentali della vita privata.

La stessa obiezione emerge in merito ad un’altra disposizione del decreto, e nello specifico, quella relativa all’articolo 17: Misure per favorire la realizzazione del Fascicolo Sanitario Elettronico. Quest’articolo si occupa di apportare delle modifiche ad un precedente articolo inserito nel decreto-legge n. 179 del 18 Ottobre 2012, vale a dire il cosiddetto Decreto Sviluppo. La questione diventa quindi un po’ più complicata, dovendo giocare di rimando tra un decreto e l’altro. Per capire appieno cosa sia stato modificato, e cosa abbia preoccupato, ancora una volta, il Garante, è forse utile inserire qualche riferimento del decreto originario. L’art. 12 del decreto legge 179, che porta il titolo Fascicolo Sanitario Elettronico e sistemi di sorveglianza nel settore Sanitario, specifica al punto primo la natura di tale fascicolo, e vale a dire: l’insieme di dati e documenti sanitari di tipo sanitario e sociosanitario generati da eventi clinici presenti e trascorsi, riguardanti l’assistito.
La registrazione e la catalogazione di tali dati hanno specifici obiettivi che sono invece enucleati al punto secondo del medesimo articolo: “Il FSE è istituito dalle regioni e province autonome nel rispetto della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali, a fini di:

a) Prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione;
b) Studio e ricerca scientifica in campo medico, biomedico ed epidemiologico;
c) Programmazione sanitaria, verifica delle qualità delle cure e valutazione dell’assistenza sanitaria.”

Questo dunque è l’articolo che istituisce il Fascicolo Sanitario e che ne determina le finalità e gli obiettivi.

L’attuale decreto fare, apporta alcune modifiche a tale riferimento legislativo, e nella fattispecie sono due gli interventi più interessanti: da un lato l’apposizione di una precisa scadenza per l’istituzione del fascicolo, e vale a dire “Entro il 31 Dicembre 2014”, dall’altra una modifica che ha invece come focus precipuo la natura dei dati che possono essere registrati e catalogati. Nell’articolo originale si leggeva che in base a quanto stabilito in ordine alle finalità del FSE previste ai punti b) e c) (qui, interamente riportati), tali fini venivano perseguiti dagli organi competenti “nei limiti delle rispettive competenze attribuite dalla legge, senza l’utilizzo dei dati identificativi degli assistiti e dei documenti clinici presenti nel FSE (corsivo nostro). L’attuale decreto-fare invece riduce le limitazioni previste ai soli dati identificativi, lasciando invece libero l’utilizzo dei documenti clinici presenti nel Fascicolo. È a questo titolo che si esprime dunque il Garante, sollevando la questione di una potenziale incompatibilità tra le finalità del fascicolo e la qualità dei dati raccolti.

Ciò che si è venuto a creare a seguito della pubblicazione in gazzetta ufficiale del decreto legge, sembra essere una dinamica piuttosto frequente quando si parla di progresso digitale: da un lato una spinta verso l’utilizzo sempre più intensivo di dati, al fine di migliorare i servizi, anche a fronte di ciò che viene richiesto in ambito comunitario; dall’altro il diritto degli individui ad una vita privata, con la certezza che i propri dati sensibili vengano utilizzati solo ed esclusivamente nei limiti imposti dai principi imposti in sede di tutela. Trovare un equilibrio tra queste forze non è mai stato semplice, e la traiettoria che segue la realizzazione dell’Agenda Digitale Europea (prima ancora che Italiana) è forse quella caratterizzata dalla balistica più complessa, oscillante com’è tra utopie di democrazia diretta (vedi Parlamento Elettronico) e distopie orwelliane sempre più riconoscibili (si pensi allo scandalo datagate relativo al progetto della NSA statunitense). Non è facile decidere in quale corrente di pensiero posizionarsi, e soprattutto, l’argomento non ammette una posizione univoca, propendendo in alcuni casi verso un maggior controllo, in altri verso una maggiore libertà d’azione. Quel che è sicuro, tuttavia, è che nonostante il decreto legge trovasse la propria ragion d’essere proprio in virtù dell’urgenza delle disposizioni in esso contenute, era possibile evitare sprechi di tempo, costi ed energia, interpellando in precedenza il garante della privacy su questioni che certamente avrebbero interessato l’area di competenza. E forse, evitare grotteschi remake di errori già commessi in passato.

Nel frattempo il Governo ha modificato “parzialmente” il decreto accogliendo alcune delle obiezioni mosse.
La modifica apportata al decreto-legge riguarda nello specifico l’articolo 10 che viene ad essere così modificato: “L’offerta di accesso alla rete internet al pubblico tramite rete WIFI non richiede l’identificazione personale degli utilizzatori. Quando l’offerta di accesso non costituisce l’attività commerciale prevalente del gestore del servizio, non trovano applicazione l’articolo 25 del codice delle comunicazioni elettroniche di cui al decreto legislativo 1° gennaio 2003, n.259 e successive modificazioni, e l’articolo 7 del decreto-legge 27 luglio2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, e successive modificazioni”.
Rimangono tuttavia ancora molti dubbi.