Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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New York ha scelto il suo nuovo sindaco: si tratta di Bill de Blasio, democratico italoamericano, classe ’61, che ha sbaragliato l’avversario repubblicano Joseph J. Lotha con il 73% delle preferenze. I sondaggi già lo davano vincente, nonostante un democratico non avesse ricoperto il ruolo di primo cittadino da ben 20 anni.
De Blasio succede a Michael Bloomberg, da 12 anni a capo della Grande Mela e già braccio destro di Rudolph Giuliani, il sindaco dell’attentato alle Torri Gemelle.
Il successo di questo 52enne si deve in gran parte alla sua campagna politica, incentrata su una forte comunicazione della propria identità familiare. Tutti i newyorkesi sanno infatti che de Blasio è sposato con Chirlane McCray, scrittrice attivista contro il razzismo e sostenitrice dei diritti delle donne omosessuali. Dalla loro unione, avvenuta nel 1994, sono nati due figli: Chiara e Dante. Tutti i membri della famiglia de Blasio hanno partecipato e sostenuto pubblicamente la corsa di Bill a sindaco della città, comparendo in video, talk show e in comizi per promuovere le proposte del candidato.
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Bill de Blasio ha dunque giocato la carta dell’emozionalità, mostrando al pubblico votante quanto fosse progressista anche nella sua quotidianità, con una famiglia moderna e mista, come molte ormai a New York: l’impegno nell’affermazione dei diritti civili della moglie e la sua italianità, esaltata dalla scelta di mantenere il cognome materno e di chiamare Dante e Chiara i figli, hanno poi giocato un ruolo preponderante per aggiudicarsi le preferenze della comunità LGBT e delle minoranze ormai decisive nelle elezioni.
La sua sensibilità nei confronti dei cosiddetti “latini” è ad esempio dimostrata dal fatto che il suo sito ufficiale è tradotto in inglese e spagnolo, senza contare poi l’utilizzo vasto dei social network per diffondere le sue proposte e per chiedere ai sostenitori di votarlo, senza mancare mai di pubblicare foto dall’album di famiglia. Una sorta di Obama ancor più diretto e genuino.
Altro elemento da non sottovalutare nella comunicazione messa in atto dal suo staff è anche la forte appartenenza al quartiere di Brooklyn, dove è nato. Qui, a pochi passi dalla sua abitazione, c’è infatti il cuore strategico del suo entourage e proprio al Park Slope Armory, l’ex caserma della Guardia Nazionale, convertita ora ad ostello giovanile, sta festeggiando insieme ai suoi sostenitori e vecchi amici, molti dei quali hanno contribuito finanziariamente alla sua corsa a sindaco: Bill ha potuto infatti contare su corpose donazioni.
Molti poi i giovani volontari che hanno collaborato per la campagna elettorale, con entusiasmo e fiducia, guardando a de Blasio come alla svolta politica e sociale che da tempo i newyorkesi attendevano. Del resto, anche nel video di lancio della candidatura, Bill de Blasio è presentato come il “cambiamento” necessario per ritrovare l’unità tra i cittadini e, soprattutto, l’uguaglianza.
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L’epopea di Banksy a New York è finita. 31 giorni trascorsi nella Grande Mela sono bastati all’anonimo artista di strada per far parlare di sé la stampa internazionale e la gente comune che ne ha seguito l’eroiche gesta da supereroe graffitaro.
Alla fine della sua vicenda americana, quello che resta è la sensazione, spiacevole e rassicurante insieme, che l’arte di strada si conferma un outsider rispetto al senso comune e ai cliché precostituiti. Il rischio corso dallo street artist di Bristol era quello di piegarsi alle leggi di mercato con delle operazioni di marketing plateali, con delle “performance” che poco avessero a che fare con l’arte e con la strada.
E invece no. L’ultimo messaggio di Banksy è stato molto chiaro: un palloncino svolazzante sulla Long Island Expressway che raffigura le lettere bombate della sua firma, e un appello a salvare 5Pointz, un capannone nel Queens le cui pareti sono ricoperte dalle firme creative di straordinari graffitari che rischia di essere demolito per lasciare spazio a un residence di lusso.
Nell’ultima audio guida, posta a commento della sua esibizione del 31 ottobre, Banksy invita a non istituzionalizzare l’arte demandandola a chiese, istituzioni o cartelloni pubblicitari. L’arte vera è quella fatta in strada, libera e anticonformista, l’arte che non serve a decorare ma che semplicemente e con potenza “è”.
New York è una città audace, ma rischia di essere inghiottita anch’essa dal perbenismo e dall’ipocrita buon senso. Banksy aveva già espresso questo parere sulla città che non dorme mai il 27 ottobre, scrivendo un articolo mai pubblicato per il New York Times: il One World Trade Center, il grattacielo in costruzione che sostituisce le Torri Gemelle dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, non è che una dichiarazione della “perdita di nervi” di una città che dovrebbe puntare su ben altro per attestare la propria capacità di ricrescita e la propria coraggiosa natura.
E così, anche dopo il bagno di popolarità newyorchese, Banksy si conferma un personaggio scomodo. Le sue opere sono state cancellate e denigrate, la sua identità è stata ricercata con morbosa curiosità, il suo nome e la sua attività sono diventate per un mese le sorvegliate speciali della polizia di New York. Il sindaco Bloomberg ha definito l’arte di Banksy uno dei tanti modi con cui deturpare delle proprietà private. L’artista mascherato ha eluso, però, tutti gli ostacoli che si sono frapposti al suo traguardo e ne è uscito vincitore.
Oltre a dare una bella lezione di stile e humor a critici bigotti e ortodossi, è riuscito anche nell’intento di prendere in giro il mercato dell’arte. Lo ha fatto prima vendendo originali delle sue opere a Central Park, senza che nessuno ne fosse a conoscenza, poi dando in dono al negozio dell’usato per beneficenza, Housing Works, un suo lavoro che è stato messo all’asta online per più di 600 mila dollari. Si tratta di un quadretto pastorale che l’artista aveva acquistato dal negozio stesso a 50 euro, e che aveva rivisitato inserendovi un soldato nazista che siede pensieroso su una panchina. I soldi ricavati dalla vendita andranno a senzatetto e malati di Aids.
A conclusione di questi 31 giorni di creatività, ironia, originalità, arte, mistero e anticonformismo non possiamo che sperare in una nuova serie di irriverenti performance artistiche ad opera di Banksy o di un suo coraggioso imitatore… chissà dove, chissà quando.
L’idea primigenia di Zuckeberg quando ha ideato Facebook era di creare un portale tramite il quale socializzare e fare rete. Oggi Facebook è diventato una realtà molto più articolata e complessa, e gli usi che se ne fanno si sono a dir poco moltiplicati. Facebook è diventato anche uno strumento per promuovere l’arte e la cultura, per curare la brand image di un’istituzione culturale o di un museo.
L’ha ben capito l’Essl Museum di Vienna, il museo a venti minuti dal centro della città, che raccoglie la collezione di arte contemporanea dell’austriaco Karlheinz Essl. Si tratta di un museo all’avanguardia, che basa la sua policy sul coinvolgimento diretto dei visitatori. Questi non sono semplici fruitori passivi delle opere esposte, ma sono protagonisti, soggetti direttamente coinvolti nelle attività del museo. Persino nelle sue scelte curatoriali.
La mostra LIKE IT!, inaugurata il 23 ottobre, nasce proprio seguendo i gusti degli utenti dell’Essl Museum che hanno scelto le opere da esporre tramite Facebook. L’esperienza social di LIKE IT! si è sviluppata in due fasi. Dal 30 settembre all’8 ottobre, i fan della pagina ufficiale dell’Essl Museum hanno avuto la possibilità di votare, attraverso un like, tra circa 120 opere, di varie tipologie – pitture, fotografie, video – tutte appartenenti ad artisti della collezione, nati a partire dal 1973. Le più votate sono andate a costituire la mostra allestita nella Great Hall del museo. Una volta scelte le opere era necessario dare inizio alla seconda fase del processo: a tutti gli “Amici” Facebook del Museo è stata data la possibilità di candidarsi come curatori della mostra. 5 elementi sono stati scelti per collaborare con Andreas Hoffer, critico professionista del museo. E così, dopo un workshop intensivo di due giorni, l’allestimento ha avuto inizio e i curatori in erba hanno potuto occuparsi anche dei testi di commento a corredo delle opere.
Un’opera fra tutte è stata scelta ad emblema della mostra, sia perché la più votata, sia perché effettivamente rappresentativa della natura della mostra: Estrella di Patrìcia Jagicza. Si tratta di un dipinto raffigurante una donna che si specchia in un bagno per uomini mentre si sta mascherando. È stata individuata come un simbolo del problema della privacy, del dilemma tra pubblico e privato di cui sono appunto espressione i nuovi mezzi di comunicazione digitale.
L’esperimento con la mostra LIKE IT! è continuato anche durante la Vienna Fair, tenutasi dal 10 al 13 ottobre. I visitatori della fiera sono stati chiamati a votare, stavolta, le 5 opere che costituiscono la parte speciale della mostra “Vienna Fair – The New Contemporary Special Selection”. Il parere degli utenti di Facebook, inoltre, è richiesto per tutto il corso della mostra – che si terrà fino al 6 gennaio – attraverso commenti e like che possono determinare cambiamenti nell’allestimento.
Andreas Hoffer stesso ha spiegato la necessità di portare avanti questo esperimento di curatela social partecipata: è inutile per un museo avere una pagina Facebook, un’identità sui social network, se questi devono essere usati passivamente. I social vanno considerati uno strumento professionale vero e proprio, indispensabile se sfruttato in tutte le sue potenzialità.
Ed effettivamente un prima esperienza del genere l’Essl Museum l’aveva già sperimentata con il progetto “Festival of Animals”. In quel caso erano quattro gruppi a scegliere le opere, a contribuire al catalogo della mostra e a interagire direttamente con gli artisti: i bambini di due scuole, un gruppo di donne della Caritas e i fan Facebook del museo.
Sempre Andreas Hoffer ci ha tenuto a precisare, però, che quello di LIKE IT! sarà un evento “one shot”: è assolutamente vietato ripetersi nel mondo dei social e le domande da porre al pubblico devono variare di continuo. Il caso di questo museo di Vienna va sicuramente tenuto in conto come esempio intelligente di uso dei social media, un modo interattivo e dinamico per coinvolgere pubblici sempre più vasti, soprattutto giovani, all’interno di strutture e processi che spesso sono percepiti troppo settoriali o elitari. Uno sguardo fresco e nuovo sulle cose, specialmente nel mondo dell’arte e della creatività, non fa mai male.
Se vi capita spesso di girare per negozi e di essere stufi delle solite marche e dei soliti prodotti, se cominciate a sudare freddo ogni volta che è il compleanno di qualcuno a voi caro perché incapaci di trovare un regalo originale, bene, allora dovreste dare un’occhiata a Buru Buru. Si tratta di uno store online dedicato esclusivamente all’artigianato contemporaneo. Si possono vendere o acquistare prodotti fatti a mano, di alta qualità, ma con un brand moderno, fresco e divertente… Persino a costi abbastanza contenuti!
È anche una community di crafter che ricerca e seleziona artigiani e creativi che necessitano di assistenza e supporto per far decollare la propria produzione, il proprio “piccolo brand”. Le parole chiave di Buru Buru sono sostenibilità, creatività, valore.
Buru Buru funziona un po’ come Ebay, nel senso che è possibile sia vendere dei prodotti, sia comprarli. Solo che il mercato di Ebay prevede merci di tutti i tipi e qualità. Per vendere su Buru Buru, invece, bisogna “candidarsi”, cioè sottoporre le proprie creazioni al giudizio dello store che valuta la compatibilità con la linea e il gusto adottati dal resto degli articoli.
Per acquistare basta solo registrarsi, scegliere tra abbigliamento, accessori, gioielli, cartolerie, prodotti per bambini, green, poster, ovviamente pagare e aspettare l’arrivo dell’agognato pacco a casa. È possibile anche personalizzare i propri acquisti, scegliendo l’illustrazione da abbinare all’accessorio o alla t-shirt preferiti. C’è anche una sezione “Offerte” per scoprire i prodotti scontati del momento. Per le fashion blogger sulla cresta dell’onda è, poi, possibile diventare “Ambasciatrici” Buru Buru e portare alto il vessillo della cultura artigianale indipendente.
Infine, è possibile navigare sulla sezione “Magazine” dello store, il blog di Buru Buru che contiene news, articoli, interviste sul mondo del design, della grafica, della moda.
Il sito ha una grafica adorabile, semplice e divertente. Muoversi all’interno della pagina web, alla ricerca del prodotto giusto, è facile e veloce.
Il tipo di merce messa in vendita potrebbe essere gradito maggiormente da chi ha un determinato tipo di stile, “alternativo”.
Il nome, “Buru Buru”, si ispira al linguaggio dei bambini che, pur farfugliando, riescono a fare capire cosa vogliono, soprattutto quando qualcosa li cattura, li attrae, li stupisce. Buru Buru quindi è volontà, entusiasmo, stupore.
I/le fashion victim, i/le fashion blogger, i designer, i creativi, gli artigiani 2.0, gli imprenditori fantasiosi, tutti coloro che hanno letto e amato “I love shopping”.
Vi piacerebbe girare uno spot pubblicitario sulle vostre passioni?
Non affannatevi, la cinepresa è già all’opera da tempo! Il marketing comportamentale è questo: non uno scherzo, ma una call to action in piena regola che entra nelle nostre “case” virtuali, a volte, senza neanche bussare. Una sorte di grande fratello in rete in perenne modalità “on” che traccia la nostra navigazione in internet e ci regala quei consigli per gli acquisti che desideriamo, senza neanche saperlo.
Sulla scia del gettonato “like” di Facebook, il viaggio dei nostri interessi online è, difatti, iniziato da anni. Preziose informazioni sui nostri profili sociali vengono raccolte, catalogate e archiviate proprio come si fa nei musei; ma non basta, qualcosa è cambiato nel panorama pubblicitario odierno. Se ieri si parlava di broadcasting e di induzione applicata agli spot online, oggi le parole d’ordine sono narrowing e deduzione storica, o meglio, si assiste al passaggio da una targhettizzazione su larga scala a una segmentazione sempre più inversa e oculata che mira a monte, o meglio, all’analisi dei nostri comportamenti d’acquisto più specifici.
In altre parole, i sistemi informatici non tracciano più solo ed esclusivamente i nostri interessi ma misurano le nostre passioni. La linea di demarcazione è sottile, ma il raggio d’azione è illimitato quanto strategico è l’utilizzo sempre più frequente dei dati filtrati dalla nostra abituale navigazione in rete. Così anche in tempi di crisi, la macchina della pubblicità guadagna terreno sulle nostre stesse azioni, anticipando bisogni a noi sconosciuti, ma studiati grazie all’effetto del data mining prodotto per lo più dai cookie applicati al browser, che scavano in profondità nei nostri comportamenti online generando e registrando una vera e propria mappatura del singolo target di riferimento. Quindi, non si parla più di patrimonio di informazioni, ma di un vero e proprio bagaglio di dati che viaggiano con la stessa cifra evolutiva degli strumenti sempre più in voga di search advertising e web analysis: in trasformazione come la realtà!
Ma quali sono i rischi reali per il consumatore?
Ritrovarsi bersagli di un viaggio contromano dove si diventa registi e attori invisibili del proprio spot preferito interpellando se stessi in un curioso “sguardo in macchina” che desterebbe l’attenzione anche dell’artista più avvezzo Vito Acconci.
Del resto, il passaggio da consumatore a “consumattore” è breve quanto il salto alla profilazione di utente di un servizio. Se da un lato il marketing comportamentale colpisce dritto al cuore della nostra privacy, dall’altro ci offre senza dubbio la possibilità di pensare e scegliere con maggiore facilità e senza messaggi invasivi i nostri acquisti grazie all’interpretazione capillare dei nostri comportamenti “sedimentati”.
In Usa, dove il behavioural marketing è molto più diffuso, si registra non tanto il divieto di questo modello strategico quanto la maggiore informazione degli utenti e la conseguente regolamentazione della pratica di accettazione di termini e condizioni di utilizzo di servizi web anche attraverso l’estensione della definizione di “informazione sensibile”.
In Italia, cresce la credibilità del web così come il mercato dell’online advertising ma ciò che avanza è proprio il mercato delle analisi. È, infatti, tutta italiana la start up Aida Monitoring che rende “umana” la business intelligence attraverso l’analisi del giusto mix di comportamenti e identità online degli utenti. Nata nel 2013, realizza dashboard personalizzate di monitoraggio in tempo reale delle conversazioni che si sviluppano sui Social e sul Web intorno a persone o a temi specifici e, integrandole con i dati relativi alle performance dei clienti online, offre alle aziende modelli interpretativi traducibili in azioni concrete.
E allora, ciak, si gira…che lo spot abbia inizio!
Sport ed economia: due mondi solo all’apparenza lontanissimi e che nascondono, in realtà, legami molto forti, soprattutto in termini turistici. Non a caso, più che di economia, bisognerebbe parlare di sviluppo del territorio, perché ogni grande evento sportivo di rilevanza internazionale è in grado di generare una ricaduta economica sul territorio. L’esempio recente delle Olimpiadi di Londra del 2012 lo ha dimostrato in pieno: a fronte di costi organizzativi spesso ingenti, la comunità che ospita l’evento sportivo può contare su un indotto molto elevato grazie al turismo, a patto che i servizi erogati siano all’altezza della situazione e siano in grado di rendere piacevole l’esperienza vissuta dagli appassionati.
A proposito di grandi eventi internazionali, l’Italia ha ospitato, poco più di una settimana fa, il Gran Premio di Formula 1, che si svolge da tempo a Monza. Il tracciato brianzolo è uno dei circuiti storici più importanti e apprezzati da chi vive il mondo dei motori, sia per il suo esclusivo layout a basso carico aerodinamico, sia per i leggendari piloti del passato che hanno corso su questa pista. In poche parole, impossibile non rimanere affascinati dall’atmosfera elettrizzante che si respira durante il week-end di gara.
Come ogni grande evento sportivo internazionale, anche il Gran Premio d’Italia a Monza è un attrattore turistico in grado di generare un elevato indotto economico sull’intero territorio milanese e brianzolo. Secondo gli ultimi dati rilasciati dalla Camera di Commercio di Monza e Brianza, l’edizione 2013 del Gran Premio d’Italia è riuscita a generare, nell’arco di una sola settimana, un indotto diretto di 31,5 milioni di euro, il 2,5% in più rispetto all’edizione dell’anno precedente. Merito delle attività legate alla ricettività alberghiera (compresi campeggi, ostelli e appartamenti), stimate in 10,4 milioni di euro, e le attività direttamente connesse allo shopping, con 10,2 milioni di euro. Senza dimenticare il settore della ristorazione, in grado di generare sul territorio lombardo l’equivalente di 8,4 milioni di euro, e quello della mobilità (autobus, taxi e treni), con una stima di 2,4 milioni di euro.
E se albergatori, ristoratori e commercianti brianzoli possono contare su un indotto turistico stimato in poco più di 16 milioni di euro, anche l’area milanese deve ringraziare il Gran Premio d’Italia e i suoi ospiti, con una stima di poco più di 9 milioni e mezzo di euro. C’è anche chi sceglie di combinare la passione per lo sport a una breve vacanza all’insegna del verde e del relax, come è avvenuto nei territori di Como e Lecco, che pure riescono a generare un indotto rispettivamente di 3,4 milioni e circa 1 milione di euro.
Tutti questi dati, uniti alla stima della Camera di Commercio secondo cui il brand “Gran Premio d’Italia” varrebbe la bellezza di 3,8 miliardi di euro, dimostrano che l’evento brianzolo è un catalizzatore turistico di tutto rispetto, in grado di far respirare abbastanza l’economia lombarda. Fin qui i numeri, ma nella realtà come viene vissuto il Gran Premio d’Italia? E soprattutto, come viene organizzato? Su quest’ultima domanda, la risposta non può essere pienamente positiva. E chi lo ha vissuto in prima persona, come il sottoscritto, lo sa bene…
Partiamo dai trasporti, che sono il cuore nevralgico dell’organizzazione, considerando che la stragrande maggioranza degli appassionati si muove con i treni e gli autobus. Come ogni anno, anche stavolta gli organizzatori hanno previsto delle navette che dalla stazione di Monza portano all’interno dell’autodromo. Ma con una brutta sorpresa per gli appassionati: mentre in passato le navette erano gratuite, quest’anno è stato introdotto un ticket di 4 euro andata e ritorno per ogni giorno di utilizzo.
È buona norma che, a fronte del pagamento di un servizio che è sempre stato gratuito, questo venga erogato nel migliore dei modi. Ma in Italia, spesso e volentieri, le cose non vanno così e Monza non è da meno: navette strapiene, con lunghe file da parte dei tifosi ai capolinea, e spesso imbottigliate nel traffico (il venerdì delle prove libere non era prevista neanche una corsia preferenziale). Arrivate nel parco dell’autodromo, le navette fermano in un parcheggio distante circa 20-30 minuti a piedi dall’area del villaggio, dalla quale è possibile raggiungere buona parte delle tribune. Una passeggiata piacevole, immersa nel verde, ma per chi ha fretta di seguire le competizioni in pista diventa davvero un inferno. Paradossalmente, basta prendere un comune autobus di linea per arrivare all’ingresso Vedano, dal quale è possibile raggiungere in appena una decina di minuti l’area centrale del villaggio, spendendo, per giunta, 3 euro andata e ritorno.
Anche sui treni bisogna fare qualche appunto: possibile non prevedere treni speciali dalla stazione di Biassono – Lesmo, limitrofa a uno degli ingressi principali dell’autodromo, il venerdì e il sabato, costringendo così i tifosi ad aspettare un treno ogni ora? Una leggerezza che inevitabilmente ha portato lamentele e discussioni, soprattutto da parte dei turisti provenienti dall’estero. Situazione migliorata la domenica, giorno in cui sono stati previsti treni speciali dalla stazione di Milano Centrale a quelle di Monza e Biassono – Lesmo. Ma anche in questo caso con una sorpresa: se fino all’anno scorso questi treni speciali erano gratuiti, quest’anno è stato previsto un biglietto di 4 euro per l’andata e il ritorno. Secondo alcuni, questa soluzione si è resa necessaria per evitare che qualcuno se ne approfittasse del treno gratuito per farsi una gita a Monza. Ma se davvero fosse stato questo il problema, bastava semplicemente controllare sul binario chi avesse i biglietti per vedere il Gran Premio, evitando così un’ulteriore spesa ai tifosi.
I controlli, altro grande problema… Approssimativi il giovedì, quando gli appassionati in possesso dell’abbonamento per tutto il week-end (fino all’anno scorso bastava il solo biglietto del venerdì) hanno potuto prendere parte all’esclusivo walk-about, ovvero la passeggiata nella corsia dei box, per ammirare da vicino le proprie vetture preferite e i meccanici all’opera, a patto di riuscire a superare la tagliola degli spintoni da parte dei tifosi più incivili (dobbiamo sempre farci riconoscere!). Un walk-about travagliato, dove è regnato il caos anche per una semplice sessione di autografi, gestita in modo scandaloso e senza un’organizzazione specifica a monte. Persino i commissari di pista si sono trovati in difficoltà nel dare indicazioni precise in merito.
Parlavamo di controlli e viene da chiedersi dove sono stati durante tutto il week-end se in tantissimi hanno montato le tende a due passi dalla pista pur essendo vietato il campeggio all’interno dell’autodromo. E che dire dei tanti bagarini che hanno affollato gli ingressi principali dell’autodromo e i tantissimi truffatori che hanno cercato di spillare soldi ai più sprovveduti con il classico gioco della pallina da trovare sotto uno dei tre bussolotti?
Impossibile non rimanere infastiditi da tutte queste evidenze. E, del resto, basta dare uno sguardo alla pagina Facebook dell’autodromo per scoprire le diverse lamentele e i messaggi stizziti lasciati da tanti appassionati (anche stranieri) che, giustamente, dopo aver speso cifre ragguardevoli per vedere il Gran Premio, si aspettavano un quadro generale decisamente migliore. L’insoddisfazione genera un pericoloso passaparola negativo che, a lungo termine, può danneggiare non solo l’immagine di Monza, ma anche l’attrattività turistica del nostro Paese, che già ha subito duri colpi nel corso degli ultimi anni.
Riprendendo uno di questi commenti, i monzesi hanno tra le mani un patrimonio straordinario, ma ce la stanno mettendo tutta per perderlo. Si, perché se i progetti per fare un Gran Premio a Roma (su un tracciato cittadino) sono ormai tramontati da tempo, esiste sempre il “rischio” di spostare tutto a Imola, altro storico tracciato legato purtroppo a un evento nefasto (la morte di Senna), ma amato fortemente da piloti ed appassionati. La provocazione, a questo punto, è d’obbligo: perché non dare una chance a Imola e spingere Monza a una doverosa pausa di riflessione? Sarebbe un modo per valorizzare fortemente il territorio romagnolo, non solo dal punto di vista turistico e culturale, ma anche economico. E, cosa più importante, ne guadagnerebbe l’Italia intera di fronte a turisti ed appassionati: almeno non saremo costretti a vedere sventolare vergognose bandiere con il “Sole delle Alpi” in mondovisione sotto al podio.
Cos’hanno in comune i Bronzi di Riace, Ponte Vecchio e Venaria Reale? Sono importanti pezzi del nostro patrimonio culturale, senz’altro. Ma sono uniti anche dall’essere saliti all’onore della cronaca per quello che alcuni definiscono “uso improprio” e asservito al mercato.
Si tratta in realtà di tre operazioni commerciali ben diverse. Nel 2008 i Bronzi comparivano in uno spot della Regione Calabria in versione “animata” o, come disse Salvatore Settis indignato, come “giovanottoni volgarissimi e abbronzati”. Uno spot certamente infelice soprattutto se pensato per il mercato estero e che ancora una volta sottolinea quanta strada ci sia da fare in Italia in materia di promozione turistica.
Altra storia per Ponte Vecchio a Firenze e Venaria Reale a Torino, “venduti”, come set site-specific per la realizzazione di una cena per vip il primo e per uno spot di Sky la seconda. Non sembrano operazioni peggiori di tante altre, più o meno note, dai monumenti coperti per mesi da maxi-affissioni (ci ricordiamo il Ponte dei Sospiri sovrastato dall’immagine di una bottiglia di Coca Cola?) ai musei e ai monumenti prestati alle sfilate di moda. E che dire allora delle film commision?
La questione è delicata e non si può buttare tutto nello stesso calderone. La cultura ha sempre più bisogno di risorse economiche e stare sul mercato è uno dei modi per recuperarne. Non si tratta necessariamente di svendersi ma di cogliere invece delle opportunità per promuoversi come Paese d’arte e ottenere visibilità.
Naturalmente le modalità in cui ciò avviene sono fondamentalmente importanti. Per questo servono regole: sulla tipologia di operazioni commerciali e di partner possibili, sulle strategie di comunicazione, sulla destinazione degli incassi ottenuti. E decisori in grado di elaborare e attuare strategie di prezzo adeguate al valore culturale e iconico di ciò che si intende mettere a reddito.
Martha Friel è docente di marketing delle organizzazioni culturali, IULM, Milano
Che cosa sono i MOOCs? L’acronimo sta ad indicare i Massive Open Online Courses, cioè dei corsi gratuiti disponibili online di alto livello formativo.
Dov’è la notizia? Che il grande colosso del web, Google ovviamente, sta mettendo mano alla formazione preparando una piattaforma, dal nome mooc.org, che dal 2014 diventerà una sorta di Youtube per la formazione.
Finora non sembrerebbe un’iniziativa molto innovativa, visto il successo dell’anno scorso di Course Builder, ma le cose cambierebbero radicalmente se vi dicessimo che i corsi caricati sul sito sono dei migliori docenti del MIT e delle università di Harvard? E vi diciamo anche di più: Big G sta predisponendo sulla stessa piattaforma la possibilità per i docenti di tenere le loro lezioni direttamente online, gratis e aperte a tutti in nome della condivisone e dell’associazionismo no-profit.
Per questo, partner dell’iniziativa è EdX, la no-profit creata dalle università di Harvard e dal MIT proprio in nome della condivisione del sapere (tra i soli esponenti universitari però).
L’amministratore delegato della EdX con queste parole plaude l’iniziativa: “Da sempre abbiamo apprezzato l’impegno di Google per il libero accesso al sapere e pensiamo che possa essere il partner perfetto per delineare un nuovo tipo di educazione libera da vincoli economici e spaziali”
Certo è che prima o poi anche i progetti no profit per andare avanti hanno bisogno di soldi: che verranno da donazioni e sottoscrizioni specificano da Google, ma continueranno ad essere totalmente gratuiti per gli utenti worldwide.
Che le strategie di marketing di Google si stiano piano piano dirigendo verso la filantropia? Così sembrerebbe, visto anche l’annuncio sempre da Mountain View della recente alleanza con Udacity per la creazione della Open Education Alliance volta a fornire strumenti formativi utili alla ricerca di un lavoro nelle industrie tecnologiche.
Siete pronti al vostro diploma di laurea targato Google?
Nascondono il loro volto, restano nell’anonimato o si appropriano di visi non loro. Sono artisti, cantanti, gruppi musicali, scrittori o performer che hanno deciso di mandare avanti le loro opere senza che queste vengano collegate e possano essere collegabili ad una persona.
Così come il Trattato del Sublime rimase alla storia assieme all’Anonimo del Sublime, il suo incerto e discusso autore, molti potrebbero essere gli artisti, in diversi ambiti, di cui ricorderemo il creato senza possedere ricordo fisico del creatore.
Ce ne vuole al giorno d’oggi a sfuggire a internet, ai social network, alla stampa, ai blogger, alla tv, ai giornali, ma alcuni sembrano riuscirci sul serio. In questi anni in cui COME comunichi è più importante di COSA comunichi l’anonimato potrebbe a prima vista essere una scelta anacronistica.
Niente di più sbagliato. L’oblio è esso stesso comunicazione, un marketing efficace che permea un nome di aleatorietà e mistero, due caratteristiche difficilmente riscontrabili nei personaggi pubblici.
Meno ti vedo, più ti voglio vedere. Meno so di te, più ho brama di sapere.
Passiamo allora in disamina le figure più rappresentative di questa corrente:
BANSKY: street artist amatissimo e anticonformista le sue opere appaiono nel cuore della notte. Nessuno sa il suo nome, nessuno sa com’è fatto. E quelli che dicono di averlo visto all’opera hanno prontamente venduto queste informazioni su ebay.
Perché lo fa? Perché le sue opere di street art sono bellissime ma non sempre legali.
Durerà per sempre? Probabilmente no. Pur rimanendo anonimo, Bansky rilascia interviste a radio e giornali, senza però mai mostrare il suo viso e camuffando adeguatamente la sua voce.
GUERRILLA GIRLS: collettivo di artiste anonome, le Guerrilla Girls nascono a New York nel 2985. La loro arte consiste nel diffondere manifesti artistici con il fine di promuovere le donne e le persone di colore all’interno dell’arte contemporanea.
Perché lo fanno? Perché denunciano i rapporti corrotti nel grande mercato dell’arte, nei circuiti di Hollywood e hanno paura di ritorsioni nei loro confronti.
Durerà per sempre? Probabilmente sì perché allo stato dei fatti forse nemmeno loro sanno più chi sono. Nel 2001, infatti, il gruppo ha dato vita a tanti altri mini aggruppamenti tra cui le
Guerrilla Girls, Inc., le GuerrillaGirlsBroadBand e le Guerrilla Girls On Tour.
MINA: cantante italiana tra le più famose di sempre, di lei si conosce nome, cognome e volto ma dal 1978 non si esibisce più in pubblico e quindi nessuno sa che aspetto abbia oggi.
Perché lo fa? Perché ha deciso di congelare la sua figura a quella degli anni ’70 e desidera che di lei sia ricordata principalmente la sua voce.
Durerà per sempre? No. Le sue apparizioni sono sporadiche ma, continuando a cantare e ad incidere cd spesso si trovano in rete i dietro le quinte delle sue registrazioni.
GORILLAZ: i Gorillaz sono un vero e proprio progetto musicale virtuale. Definiti come una cartoon band, vendono milioni di dischi in tutto il mondo ma la loro composizione è ancora incerta. Di loro si conoscono solo Damon Albarn (leader dei Blur e dei The Good, the Bad and the Queen) e Jamie Hewlett, co-creatore del comic book Tank Girl. La band è poi costituita da quattro personaggi sotto forma di animazioni: 2D, Murdoc, Noodle e Russel. Recentemente è stato aggiunto un quinto membro, Cyborg Noodle.
Durante i loro live le luci sono soffuse e si riescono ad intravedere solo ombre. Quando le luci si alzano, la band si mostra a volto coperto.
Perché lo fanno? Per differenziarsi dagli altri e perché i membri della band cambiano in continuazione.
Durerà per sempre? Durerà finché continueranno ad incidere dischi. Una volta morto il “marchio” Gorillaz, non avranno più scuse e potranno svelare di più. Per il momento devono tener duro e stare al gioco, anche perché il primo album della band pubblicato nel 2001 ha venduto circa 6 milioni di copie in tutto il mondo e gli è valso l’entrata nel Guinness dei primati come band virtuale di maggior successo.
Tiriamo le fila: se l’anonimo uccide la propria identità fisica, è pur vero che spesso non ci riesce per sempre. La maggior parte degli pseudonimi e delle maschere sono stati abbandonati in punto di morte. Della persona o del personaggio. Nessuno riesce a resistere all’effetto che fa e tutti vogliono essere riconosciuti prima che sia troppo tardi.
Perché in fondi tutti siamo umani ed abbiamo diritto ai nostri 15 minuti di celebrità.
Anche chi è stato celebre per una vita intera, ad insaputa degli altri.
Ah, ovviamente siccome durante la scrittura di questo articolo mi sono appassionat* all’argomento, ho deciso di non firmare questo articolo e di prendere anche io parte, per poche ore, al regno incontaminato dei personaggi senza volto e senza nome.
Non tirate ad indovinare, non ci riuscirete. Un giorno magari, deciderò di uscire allo scoperto.
Dopo la performance con Jay-Z, il rapper statunitense che ha sperimentato l’ “Abramovic Method” e ne ha fatto un video per “Picasso baby”, un’altra icona della musica si è prestata a farsi immortalare nella sperimentazione di quello che Marina Abramovic, la famosa perfomer serba, definisce un metodo per “aumentare lo stato di consapevolezza della propria esperienza mentale e fisica”: ecco dunque apparire in un video una Lady Gaga completamente nuda che, durante un ritiro di tre giorni, ha seguito l’artista tra boschi e luoghi incontaminati per lasciarsi sedurre da questa particolare pratica, a metà tra l’artistico e l’ascetico.
[vimeo 71919803 w=500 h=281]
Urla mononote si susseguono nel video che mostrano la cantante senza veli e in pose meditative, spesso anche assieme alla stessa Marina Abramovic.
Anche in questo caso, come accadde anche per Jay-Z, non sono mancate le polemiche: che le performance della Abramovic stiano diventando troppo mainstream e più legate a strategie di marketing anziché a scopi artistici? Se lo sono chiesti in molti, visto che questo filmato capita proprio a fagiolo tra la promozione del nuovo album di Lady Gaga e la campagna per il finanziamento su Kickstarter dell’Istituto Marina Abramovic.
Rimane comunque il fatto che ormai il metodo della Abramovic è conosciuto in tutto il mondo: dopo il suo “The Artisti s present” al MoMA di New York, l’artista conosce ora un momento di assoluta popolarità in tutto il mondo: tanto che sarà a Venezia il 30 agosto in occasione della Mostra d’Arte Cinematografica, per la presentazione del film “The Abramovic Method” di Giada Colagrande girato grazie al contributo della Fondazione Furla.
Anche lì, in una serata esclusivamente ad inviti, il pubblico potrà sperimentare il suo ormai celebre metodo.
Prendi un calderone di cultura, economia e impresa, mettigli dentro una ciotola di teatro, due cucchiai di marketing, mezza porzione di senso degli affari strategico, mescola tutto insieme e quello che ottieni è il teatro in franchising.
Gianluca Cassandra, direttore del Teatro Moderno di Latina, è il cuoco di questo nuovo piatto da presentare al sistema teatrale italiano, un piatto che può avere un retrogusto amaro, o che può risultare gustosissimo. Quello che il giovane uomo di cultura e d’affari propone è una formula che permetta a imprenditori, a start up, o a produttori di iniziare un business col teatro per ragazzi. “Negli ultimi anni – ha spiegato Gianluca Cassandra – la crisi del sistema teatrale italiano, aggravata dalla riduzione sia del Fondo Unico dello Spettacolo che del sostegno che possono garantire gli Enti Locali […] ha fatto sì che sul versante della produzione, le grandi compagnie e i teatri hanno cercato di minimizzare il rischio, ovvero hanno spinto le loro produzioni e programmazioni verso spettacoli più sicuri, garantiti dai soliti nomi e dalle solite idee in cartellone. Questo atteggiamento è destinato a non pagare e le imprese teatrali, se vogliono garantirsi un futuro, dovranno allargare i loro orizzonti culturali per conquistare nuove fette di mercato… Tutto questo mi ha portato a inventare Che Spettacolo Ragazzi! Ho messo a punto i mezzi con i quali i teatri potranno affrontare il presente ed il futuro panorama culturale costruendosi solide basi artistiche ed economiche. Come? Costruendosi la loro stagione scegliendo tra spettacoli e servizi ideati ad hoc, avendo chiari i costi e i guadagni con un solo piccolo investimento. Una rivoluzione”.
Che spettacolo ragazzi! – prodotto dell’azienda di Cassandra, Art About, che produce e distribuisce eventi – mette a disposizione un cartellone di spettacoli suddivisi in base a fasce d’età o grado di istruzione scolastica, da acquistare con l’investimento minimo di 1000 euro. Gli spettacoli sono tenuti dalla compagnia “Teatro del Beau” di Simone Fioravanti e Santa Spena. Il pacchetto offerto al cliente comprende la produzione di 4 spettacoli e una consulenza sul business plan, oltre che ad eventuali servizi aggiuntivi a scelta: service audio/luci, sito web dedicato, servizio di pubblicistica e affissione.
Il vantaggio di questo sistema di “franchising senza vincoli” risiede nel ridurre al minimo gli eventuali rischi del cliente, che non incorre in penali nel caso lo spettacolo programmato non dovesse riuscire ad andare in scena. Il franchising del teatro permette, infatti, di abbattere i costi fissi, non prevede l’apertura di un negozio, o la necessità di ordini minimi. Al cliente è lasciata principalmente la responsabilità della comunicazione con gli eventi.
Forse i puristi del settore potrebbero storcere il naso davanti a questo accostamento così audace tra teatro e guadagno: sulla homepage del sito di Che spettacolo ragazzi! si legge a carattere cubitali “Guadagna con il teatro. 1. Scegli il tuo cartellone. 2. Investi un minimo di 1000 euro. 3. Guadagna il triplo”. In realtà, il sistema teatrale italiano, come la gran parte dell’intero settore culturale, ha bisogno di uno svecchiamento radicale che consenta l’ingresso al suo interno di un certa forma mentis imprenditoriale che non lo svilisca, ma al contrario lo potenzi e lo valorizzi.
D’altra parte l’idea alla base di Che spettacolo ragazzi! è tutt’altro che puramente mercificatoria: attraverso il teatro in franchising si guadagna sì, ma l’intento è anche quello di rendere il teatro non un luogo dove si vive un evento one shot, ma un’abitudine, un luogo di ritrovo e di formazione, che vada a costituire l’identità culturale del territorio nel quale opera.
Quanti concerti, rassegne e musica del vivo sono protagonisti dell’estate non solo italiana ma di tutto il mondo. Sarebbe meraviglioso viverli tutti in diretta, cantando a squarciagola e sbracciandosi ballando a più non posso. Ma…non sempre tutto ciò è possibile: la distanza dalla città in cui si esibiscono i nostri artisti preferiti o semplicemente il fattore prezzo di ogni singolo live ci impongono una dura selezione che, per forza di cose, ci lascia a bocca asciutta.
Nell’epoca dello streaming e della musica digitale, ovviamente, tutto ciò può non rappresentare più un problema.
Sono moltissime, infatti, le applicazioni e i siti che ci permettono di assistere ai concerti in diretta o immediatamente dopo le esibizioni live dei maggiori gruppi musicali.
Così, grazie a servizi come Livestream, Ustream, gli hangout di Google Plus o gli hashtag di Twitter corredati dai video di Vine siamo in grado di goderci anche gli spettacoli a cui non siamo riusciti ad assistere fisicamente e di cui sul web si realizzano dei veri e propri rockumentary.
Ha fatto notizia, negli ultimi giorni, l’abbandono degli Atoms for Peace di Spotify, il servizio di musica straming approdato in Italia 6 mesi fa e che, secondo il gruppo di Tom Yorke non gioverebbe l’industria musicale, alimentando il download illegale di brani.
Spotify, che non ha reagito bene, ha rilanciato pubblicando una ricerca, effettuata nei paesi europei che dimostra come, dalla nascita di Spotify ad oggi, il dowload di branni illegali è diminuito drasticamente, così come avvenuto già con l’avvento di iTunes su device Apple.
Nella speranza che anche nel nostro paese (che dalla ricerca risulta essere uno dei paesi in cui oltre il 77% della popolazione ricorre a download illegale di musica online) si abbassi drasticamente la percentuale di coloro i quali scaricano illegalmente musica, le alternative possibili per godere di buona musica a prezzi ragionevoli arriva da Soundhalo, lo stesso servizio sposato proprio dagli Atoms for Peace per i loro prossimi concerti nella Roundhouse di Londra.
Con questo video, infatti, Tom Yorke, Nigel Godrich, Flea, Joey Waronker e Mauro Refosco hanno annunciato la possibilità di (ri)vedere la loro perfomance su pc, smartphone e tablet in alta qualità di suono per meno di 10 sterline.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=zyCyPYm-Idc]
E voi, rinuncereste ad un concerto live per vivere un’emozione in streaming?
Intervista a Giuseppe Tamola, country manager di Zalando Italia
I dati relativi ai consumi non sono certo incoraggianti e tante aziende come la vostra, per reagire alla sfiducia degli acquirenti, hanno investito nella propria immagine e creatività con successo.
Che ruolo gioca la pubblicità e la comunicazione in tale frangente? Quali i messaggi che volete far giungere? Quali i mezzi e i payoff scelti per farlo?
Naturalmente un primo obiettivo è far conoscere la nostra realtà e, più nello specifico, il nostro servizio. Vogliamo che i consumatori comprendano come si articola la nostra offerta e il servizio attraverso cui la veicoliamo. Vogliamo comunicare che Zalando è il miglior approdo online dove trovare la moda su misura per le proprie esigenze.
È inoltre importante saper comunicare, in generale, i vantaggi dell’acquisto in rete, così come è essenziale fornire informazioni riguardo alla sicurezza della nostra piattaforma e offrire piena trasparenza sui processi.
Da un lato cerchiamo di esporre sempre in maniera chiara le caratteristiche del nostro servizio e i nostri USP: nessuna spesa di spedizione, reso gratuito, pagamento alla consegna senza costi aggiuntivi, assistenza clienti sempre disponibile e gratuita. Dall’altro utilizziamo un payoff – “Urla di piacere” – che sottolinea l’emozione dei nostri clienti nel momento in cui ricevono i propri ordini. Questi diversi elementi percorrono tutti gli ambiti della nostra comunicazione, dalla presenza onsite alle campagne televisive.
Quanto ai mezzi, Zalando si è distinta per il proprio marketing mix, dunque per l’utilizzo sinergico dei diversi canali di comunicazione online e offline. Questa sinergia è uno dei nostri punti di forza, in particolare poiché il mix è sempre declinato rispetto alle esigenze e caratteristiche dei singoli mercati. Questo ha significato, nel caso dell’Italia, il rafforzamento della componente offline: abbiamo trovato nuove vie per interagire efficacemente anche con gli utenti meno inclini a utilizzare la rete e i siti di acquisto online.
Estate: tempo di cambio di stagione e di rinnovo del guardaroba. Quali sono le misure anti-crisi che ZALANDO ha predisposto per andare incontro ai propri clienti e assicurargli un look nuovo e di tendenza?
La possibilità di reperire i nuovi trend è garantita dal nostro stesso modello di vendita: Zalando è uno shop in-season, il che significa che ci focalizziamo sulle nuove collezioni, le quali costituiscono la parte più importante del nostro assortimento. Questo implica un modello principalmente full-price, ma non mancano le promozioni, sempre disponibili in abbondanza sul nostro sito. Inoltre, l’offerta è ampia e trasversale: fermo restando che i prodotti devono sempre garantire determinati standard di qualità, la gamma è vasta e soddisfa ogni fascia di prezzo, partendo dai basic fino ad arrivare all’high-end fashion.
Accanto ai più importanti brand internazionali affianchiamo prodotti di nicchia, difficilmente reperibili in Italia e sicuramente fuori portata per chi non si trovi in una grande città. Al contempo curiamo molto la selezione di brand italiani e abbiamo dislocato il reparto acquisti per lo shop italiano a Milano, in modo che i nostri Buyer siano in grado di interagire più efficacemente con le label del nostro pa ese. Tutto ciò ci permette di offrire un assortimento selezionato senza paragoni all’interno della catena di retail tradizionale: per visionare una selezione analoga dovreste visitare indicativamente 300 negozi fisici.
ZALANDO ha esordito come negozio on line di calzature e successivamente si è aperto a nuovi prodotti legati all’abbigliamento e all’arredamento. Come avete presentato e spiegato questo ampliamento? E come è stato accolto?
Quando siamo sbarcati in Italia offrivamo già sia scarpe sia abbigliamento, ma in una prima fase abbiamo comunicato principalmente la nostra offerta di calzature. La linea di abbigliamento è stata più ampiamente comunicata a partire dal nostro secondo spot televisivo, “La Banca”, ma venne introdotta in Zalando nel febbraio 2010 (prima che Zalando.it fosse online) e da allora ha sempre registrato performance eccellenti. Parlando di Zalando in generale, oggi più del 50% delle vendite deriva da accessori, living, sport e abbigliamento – tutte categorie in forte crescita.
Quanto alla sezione “Casa”, è piuttosto recente per quanto riguarda il mercato italiano ma cresce velocemente, con ottime performance. L’ampiamento resta inquadrato nel segmento del lifestyle, che è quello in cui si muove Zalando, ed è stato accolto molto positivamente perché abbiamo prestato attenzione a selezionare le giuste marche e a offrire prodotti che potessero essere interessanti per i nostri clienti.
I clienti di ZALANDO come navigano? Prediligono la consultazione per brand o cercano i prodotti per categoria? Chi sale sul podio dei prodotti più amati?
Abbiamo utenti dai profili molto diversi, e dobbiamo tenere conto di entrambe le modalità di navigazione. Naturalmente vi sono alcune differenze: ad esempio la ricerca per brand è più costante nel corso dell’anno, mentre la navigazione per categorie è spesso vincolata alla stagionalità. Al contempo possiamo notare alcune differenze di genere: l’uomo tende a essere più affezionato a certi brand mentre la donna, parlando per linee general, è più incline a ricercare ispirazioni tra stili e colori.
Dato il grande numero di prodotti che offriamo è importante fornire la giusta assistenza a quei clienti che non sono in cerca di qualcosa di specifico: per questo abbiamo implementato una piattaforma particolarmente user-friendly e abbiamo iniettato all’interno dello shop le competenze fashion che sono presenti in azienda. Come? Con mezzi diversi: ad esempio, attraverso un magazine online che offre ispirazioni e overview sui diversi trend, così come per mezzo di un set di filtri intuitivo e che permette di accedere a selezioni di prodotti molto ben profilate.
Non è semplice estrarre una lista dei prodotti più amati ma possiamo dire con certezza che i clienti italiani amano i brand del nostro paese, sempre tra i top-performer del nostro catalogo.
Giocando con l’immaginazione, a quale personaggio della cultura consiglierebbe di rifarsi il guardaroba su ZALANDO? Con quale outfit?
Se si dovesse scegliere un personaggio del mondo della cultura, mi piacerebbe vedere un classico personaggio dei fumetti come Dylan Dog cimentarsi con l’acquisto online.
Sarebbe curioso capire come andrebbe a interagire con la tecnologia (da lui sempre rifiutata) e che effetti avrebbe sul suo guardaroba. Si lascerebbe consigliare dal nostro servizio clienti? Sarebbe disposto a vestire una t-shirt stampata e un paio di chino colorati? Lo abbiamo visto innamorarsi di bellissime donne, vediamo se con Zalando può scoccare la scintilla…
ZALANDO è attivo in molti Paesi europei, ciascuno caratterizzato da proprie tendenze. Se dico Gran Bretagna, cosa le viene in mente? E per Spagna, Francia e Germania, quali sono gli articoli “must have” del momento?
In Francia nel corso della prossima stagione vedremo un ritorno dello stile grunge, con un mix tra il look “no future” di Kurt Cobain e un tocco di lusso. In Gran Bretagna il grigio e i pattern geometrici. Per la Germania, per citarne alcuni, sicuramente le stampe naturali e le righe verticali, nonchè materiali trasparenti, pelle e pizzo. In Spagna per la stagione corrente vanno invece stampe floreali e look nautico.
Il settore dell’e-commerce sta trasformando il modo di fare shopping. ZALANDO come sta cambiando invece le modalità di acquisto on line? Quali novità avete in riserbo?
A fianco delle nostre competenze in ambito moda, possiamo vantare senza ombra di dubbio alcune delle più solide competenze in ogni ambito dell’ecommerce: logistica, marketing oppure tecnologia – basti pensare che abbiamo oltre 300 esperti IT costantemente al lavoro per ottimizzare la piattaforma e i processi sottesi. Sicuramente abbiamo fatto molto per unire questo spettro di competenze all’interno di un’unica formula, costruendo un servizio ottimale e centrato sulle esigenze dell’utenza.
Inoltre abbiamo concentrato i nostri sforzi nell’adattare il modello a ogni singolo mercato, creando una sinergia tra ecommerce e specificità del paese in cui operiamo. Ad esempio, oggi ci si accorge che molti utenti italiani preferiscono i pagamenti in contante: Zalando.it, nel maggio 2011, è stato il primo player a offrire in Italia il pagamento in contrassegno senza costi aggiuntivi a prescindere dall’importo. Allo stesso tempo abbiamo cercato di comunicare – attraverso canali non-tradizionali per un player online – i vantaggi dell’ecommerce. E possiamo dire con orgoglio di aver convinto molti utenti a effettuare il primo acquisto online proprio su Zalando.
Gli italiani sono ancora poco avvezzi all’ecommerce e sentono la necessità di toccare con mano i prodotti, ma nel momento in cui si rendono conto che un servizio è affidabile diventano molto fedeli. Questa è la ragione per cui abbiamo applicato un metodo ibrido per interagire con la clientela, ad esempio accettando anche ordini telefonici. Vogliamo essere upfront e non abbiamo problemi a esporre in homepage il nostro numero di telefono, invitando i clienti a contattarci per esporre problemi, critiche o semplicemente per ricevere assistenza.
Quanto alle novità, siamo consapevoli del ruolo che il mobile giocherà nel futuro e stiamo lavorando in questa direzione, così da esser sicuri che gli utenti abbiano a disposizione la migliore esperienza d’acquisto a prescindere dalla modalità con cui decidono di entrare in contatto con Zalando.
Strade invase da ciucci e biberon, negozi pieni di fiocchetti rosa e blu, vetrine tappezzate dai volti di una coppia che si abbraccia felice, in dolce attesa, dolciumi decorati con bon bon e scarpine da neonato. No, non si tratta di un incubo per chi odia il rosa e lo zucchero, o di un sogno per chi ama Hello Kitty e i cuccioli. È il volto reale che ha assunto Londra negli ultimi tempi.
Se pensavate, infatti, di essere scampati alle Royal Wedding del 2011, siete stati ingannati. Da nove mesi a questa parte impazza la Royal Baby mania. Il/la bambino/a più famoso (e atteso) del mondo sta per nascere, e Londra sembra essere invasa da una frenesia incontrollabile di maternità, voglia di festeggiare e di… comprare!
Sì perché il Royal Baby, già prima di nascere, è più potente dell’intera famiglia reale. Solo la sua attesa ha fatto svuotare portafogli e tasche degli inglesi amanti della corona e dei turisti in cerca di souvenir a tema “premaman”, per la gioia di commercianti e rivenditori. Passeggiando per le strade di Londra è possibile acquistare: un bavaglino a righine fucsia con lo stemma della corona “Born to rule”; un libro di ninna nanne che sulla copertina riporta la scritta “Shhh, Don’t Wake the Royal Baby” e una simpatica regina Elisabetta che si paracaduta chi sa dove con un marmocchio tra le braccia; innumerevoli piattini con decori a tema “royal baby”, inclusa una versione con Winnie The Pooh; una confezione speciale di biscotti a forma di biberon, orsacchiottino, calzettina, carrozzina, scatolina delle sorpresine; monete commemorative del lieto evento; e poi ancora tazze, portachiavi, ciondoli, magliette, etc, etc, etc. D’altra parte persino i genitori di Kate, i Middelton, hanno percepito l’andazzo da “gallina dalle uova d’oro” e hanno pensato per il loro sito di prodotti per feste, Party Pieces, una linea completa di piatti, posate, forchette e chi più ne ha più ne metta, intitolata “Little Prince”, “Little Princess”.
Se poi, fino a qualche tempo fa la follia collettiva scaturita da fame di gossip e sperticato affetto per la famiglia reale, si esplicava solo nel mondo della gente in carne ed ossa, oggi la febbre da bebè targato Kate e William si respira, anzi si inghiotte proprio, anche sul web. Impazzano le pagine facebook, gli ashtag, i like, i tweet, i siti – seri o faceti – ma la trovata più divertente, scellerata e inquietante assieme è la app pensata da Apple. Sì, avete capito bene, esiste una Royal Baby App che si presenta così: “Benvenuti nella Royal Baby App, una celebrazione del felice giorno di Kate e William. Potrai scaricare gratuitamente le prime foto del nuovo nascituro e dei suoi genitori felici. Riceverai anche le ultime news, i Twitter sull’evento e molto altro”. Un’occasione imperdibile…
Come se non bastasse, l’attesa del Royal Baby alimenta anche la fame di scommesse che caratterizza gli inglesi. Pare siano state già puntate 1 milione di sterline, per indovinare la data precisa della nascita, il sesso del bambino, il suo peso. Ma soprattutto quello che diverte di più è scommettere sul nome. Sono sulla cresta dell’onda i nomi Alexandra, Diana, Elizabeth, se nascerà femmina, se sarà maschietto i nomi più gettonati sono George, James e… Beckham!
Di certo per gli inglesi il Royal baby scenderà dal cielo con una cicogna e un bel po’ di manna. A quanto pare, l’introito che il/la piccolino/a porterà al paese ammonta a 300 milioni di euro. E notevoli sono anche gli influssi benefici che il lieto evento sta avendo sul turismo verso Londra. Un albergo si è attrezzato con una sala a tema “bimbi regali” che riporta foto e ritratti di William ed Harry da bambini; altri alberghi pensano a sconti e agevolazioni per le coppie o le donne in dolce attesa. Anche il Museum of London si è fatto trascinare dall’ondata di entusiasmo e ha organizzato la mostra “Royal Arrival” che raccoglie cimeli dei passati nascituri regali.
Il bebè era atteso per il 13 luglio e c’è chi dice che si stia facendo aspettare troppo. Noi siamo sicuri, invece, che, come per tante altre cose, il prolungarsi dell’attesa renderà il momento della sua nascita ancora più dolce e sospirato, sperando che la maggior parte delle aspettative su di lui vengano scaricate in questi frenetici giorni di attesa, permettendogli quanto meno di vivere dei rilassati primi giorni di vita.
Dico LETTO e dico PORNO. A che pensate?… Sbagliato!
La chiave di congiunzione tra queste due parole è IKEA. Il noto marchio di arredamento e design svedese, infatti, è l’ignaro protagonista di questa grande trovata pubblicitaria messa in atto da due freelance creativi newyorkesi che hanno strutturato un portale simile in tutto e per tutto ad un sito pornografico (www.hotmalm.com) e che da questo si discosta solo per il fatto che il porno-divo in questione è, nientepopodimenoche…il letto Malm.
Eccolo quindi nella sua versione aperta, chiusa, smontata, montata, con buchi visibili e in livestreaming di notte.
Le categorie del sito soddisfano poi gli eccitati più esigenti: si va dai Twin Malm, al Malm con animali, al Malm adulto, fino al Malm molto giovane passando per i Malm biondi come la betulla o neri come l’ebano.
Corredano il tutto frasi a doppio senso, immagini allusive e video apparentemente hard in cui il letto Malm, che soffre di solitudine, ci chiede di chattare con lui in una private session.
Ogni immagine o fotogramma di video però non riporta ad esperienze ultraterrene con il nostro beneamato mobile, bensì al catalogo Ikea, dal quale sarà però possibile scegliere la versione più adatta a noi di colui che ci porteremo in camera da letto.
Siete pronti a vivere un’emozione hard?
Poniamo per assurdo che il principio di autoderminazione dei consumatori si estendesse a quel piano cartesiano dove la curva della domanda incontra la curva dell’offerta nel processo di definizione del prezzo di un bene e ne alterasse la natura.
Poniamo sempre per assurdo che tale nuova attitudine iniziasse a spaziare nella vastità dei settori merceologici attuali e lentamente diventasse una pratica comune e alternativa. Facciamo, infine, finta che questo fosse il risultato – forse un tempo utopico? – di un processo di democratizzazione delle regole di mercato classiche che porrebbe la posizione della domanda in una sorta di primato e, oserei dire, di dirigismo nella definizione del prezzo di un determinato bene.
Escludiamo ora il congiuntivo imperfetto, d’obbligo nelle frasi ipotetiche del terzo tipo, e poniamo tutto al presente indicativo, otteniamo affermazioni di realtà contingente: quanto detto in premessa ora è attualità e sempre più notiamo una crescente trasformazione del ruolo dei consumatori e quindi delle reazioni dei produttori e commercianti.
Urge testimoniare con degli esempi quanto affermato in premessa per capire che oggi la pratica del prezzo-fai-da-te non è un’assurdità ma una realtà sempre più sperimentata. Altri Paesi, vedi Spagna, Gran Bretagna, Portogallo, Olanda e Germania, la praticano da tempo e con grande riscontro di pubblico.
In Italia invece si è affacciata da un paio di anni con timidi esperimenti legati più a realtà imprenditoriali di quartiere. Mi riferisco per esempio a un ristorante a Massino Visconti, piccolo paesino sul Lago Maggiore in provincia di Novara, dove si arriva al ristorante, si ordina, si mangia e quando è il momento del conto è il cliente a decidere quanto corrispondere in base alla qualità del cibo e del servizio ricevuto. Oppure percorrere l’Italia fino a Sud, a Napoli, e aspettare l’ultimo mercoledì del mese quando, su prenotazione, è possibile rifarsi il look dai fratelli Luca e Vincenzo, proprietari di un salone di bellezza in una delle zone più chic ed esclusive di Napoli a Piazza Amedeo: taglio, piega, colore o colpi di sole insomma qualsiasi servizio reso e poi pagato ad un prezzo deciso dallo stesso cliente.
È auspicabile evidentemente che nel processo che porta un cliente a stabile il prezzo da corrispondere entrino in gioco, il buon senso e un altissimo senso di civiltà e rispetto del lavoro e della professionalità altrui e di chi ha rimesso il proprio lavoro, il proprio servizio e la propria credibilità nella buona fede del consumatore e nella sua fiducia.
Non solo servizi che si traducono in qualcosa di materiale ma anche la sfera dell’immateriale è stata toccata in questa innovativa pratica del prezzo-fai-da-te. Più propriamente mi riferisco alla sfera della cultura e del mercato editoriale.
La casa editrice Edizioni Progetto Cultura 2003 ha lanciato il progetto Filo della fiducia con la pubblicazione di “Antologia di Racconti” – volume I della collana Il Filo della Fiducia. Progetto a loro dire “rivoluzionario”. La rivoluzione consiste nel rimettere al libero arbitrio del lettore la decisione del prezzo e far sì, in questo modo, che il senso di responsabilità del lettore e la sua fiducia incentivino il difficile mercato editoriale premiando la meritocrazia e i 12 autori della Antologia di Racconti. Sul sito www.filodellafiducia.it vi sono le istruzioni per diventare i protagonisti di questa inedita esperienza di fruizione della cultura.
Gli esempi potrebbero continuare – vedi il mercato dell’energia del gas e della luce – ma è bene concludere affermando che la pratica del prezzo-fai-da-te riporta in auge l’antico senso di responsabilità del fruitore/consumatore e il suo sentimento di fiducia nei confronti di chi lavora per il pubblico, traducendo in concreto la risposta del commerciante o libero professionista “fate voi”, molto comune nel meridione d’Italia, alla domanda “quanto vi devo?”!
Arrivano dal Sud Africa ma non hanno nulla da spartire con le follie psichiche di Oscar Pistorius oppure con le ultime ore di vita di Nelson Mandela.
Loro sono i Die Antwoord (significato: “La Risposta”) e chi non li ha mai visti dal vivo li ha sicuramente contemplati in video, in quei filmati che circolano come trottole sul web grazie ad una originalità spaventosa a tratti spaventevole, ai contenuti espliciti e alla capacità che questi 3 tipi hanno di tenerti incollato sulla pagina di Youtube finché le immagini non terminano. Oppure finché non riesci a comprendere cosa dicono. Perché parlano l’Afrikaans e tra una parola e l’altra, anziché respirare, ci piazzano un “f**k”. Perché fa fico, sembrerebbe.
Ma chi sono, in sostanza, questi tre ceffi che si vestono come dei cosplayer nipponici e si presentano ai concerti con i mutandoni dei Pink Floyd?
Lui: nome di battesimo Watkin Tudor Jones, ribattezzato “Ninja”, già membro degli Original Evergreens, dei Max Normal, della Construction Corporation ed infine dei MaxNormal.tv è, a ragion veduta, il frontman della band. Corpo bianco pieno di tatuaggi (anche osceni) occhi spiritati, capelli rasati che lasciano libera una cresta squadrata. Diciamo pure: è il classico tipo che una ragazza non farebbe mai conoscere ai suoi genitori. E per questo piace tantissimo.
Lei: una Sailor Moon hip hop, fisico anoressizzato ma definito, vocina ipnotica e ad effetto da Barbie Girl (userà infatti un effetto al microfono per questa resa vocale? – la domanda ce la siamo posta tutti). Ma Anri du Toit, ribattezzata Yo-Landi Vi$$er, è una tipa tosta. Balla, canta, si spoglia, si riveste, impreca. Perfetta spalla per il suo compagno Ninja. Che è compagno anche nella vita, nonostante le varie smentite. Perché forse non tutti sanno che i due hanno anche una figlia assieme, Sixteen (7 anni), la quale con due genitori del genere non poteva non comparire in un video (la troviamo in I fink u freeky, al minuto 2:44 con un “innocuo” pitone sulle spalle).
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=8Uee_mcxvrw&w=560&h=315]
Dj Hi-Tek: è proprio a casa sua che tutto è partito, o almeno questo è quello che ci vogliono far credere. Perchè facendo un pò di ricerche, scopriamo che Dj Hi-Tek non esiste. O meglio, forse esiste ma non si fa vedere, e nei video viene interpretato ogni volta da persone diverse. Sarebbe lui, comunque, a quanto narra la leggenda, il creatore del genere proprio dei Die Antwoord, lo “Zef” rap.
Ma, in sostanza, cosa sono questi Die Antwoord oltre ad essere un mix di video girati magistralmente (e non così low-budget come spiegano nelle loro interviste), una cascata di parolacce, una ossessione compulsiva per i simboli fallici, per i tatuaggi e per la volgarità esplicita?
Sono tre elementi diversi tra loro (ma poi neanche troppo) costruiti a tavolino come i grandi fenomeni mainstream insegnano, leggi Lana del Rey ma anche PSY.
Eppure di strada ne devono ancora fare. 40 minuti di perfomance live a Roma (a Villa Ada per Roma Incontra il Mondo) dopo 3 album è davvero troppo poco per permettersi, come hanno fatto, di rifiutare di fare da gruppo spalla a Lady Gaga nel suo tour mondiale che approdava in Sudafrica definendo la sua musica “shit”. Non paghi, i Die Anwoord l’hanno anche piazzata in uno dei loro “delicatissimi” video, “Fatty Boom Boom”, e l’hanno fatta sbranare da un leone. Tanto per ridere, ovvio.
Lei, di contro, ha pubblicato un bel tweet di risposta del tipo: “I fink u freaky but u don’t have a hit. Hundred thousand tickets sold in SA #thatsmyshit”.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=AIXUgtNC4Kc&w=560&h=315]
Provocano, urlano, si fanno paladini dell’uguaglianza in Sud Africa e si professano contro la violenza, fendendo la scena con la lama del turpiloquio. E’ come quando si va al cinema o al teatro: sai che è tutto finto, ma lo metti in conto e stai al gioco.
Perché ti ipnotizzano con la loro musica altissima, con i loro costumi sconclusionati, con la loro capacità di essere trasgressivi ma nel modo più blasonato possibile. E allora capiamo perché in Sud Africa si sono già stancati di loro, definendoli troppo commerciali. E noi, quando ci stancheremo di loro?
Si sente tanto parlare in questi giorni dell’arrivo dell’uso degli hashtag su Facebook, ma in quanti sanno realmente di cosa stiamo parlando? Molti utenti, soprattutto internauti del mondo di Facebook, si domandando cosa può giovare nell’utilizzo di questo strumento, il cancelletto #.
Ma cerchiamo di capire meglio. Cosa è l’Hashtag ? Identificato con il simbolo del cancelletto (hash) # viene utilizzato nel web per indicizzare parole, argomenti, temi di discussione e possono generare allo stesso modo attività di marketing. La parola diventa cliccabile e conduce al risultato di una ricerca su Twitter di quel termine.
Ad esempio se scrivo un tweet “ La #Turchia è in una situazione politica molto pericolosa”, offro ai miei followers la possibilità di andare a indagare su quello che succede in Turchia cliccando direttamente dalla parola chiave e, facilmente, si può leggere tutto ciò che si sta dicendo su quell’argomento su Twitter in pochissimi secondi. I tre fondatori di Twitter, Jack Dorsey, Evan Williams e Biz Stone, hanno definito il social network come “ a real-time information network that connects you to the latest information about what you find interesting ”, un modello di informazione efficace perché in tempo reale e le news che interessano sono facilmente raggiungibili e seguibili.
Se Twitter, nato nel 2006, ha la sua essenza nei tweet definiti come piccoli crepitii di informazione lanciati agli altri utenti come messaggi in una bottiglia e dove il ruolo principale lo gioca la community dove sono gli internauti che devono aprire quel messaggio, interagire, re-tweettare e commentare.
Ma su Facebook, che ruolo hanno gli hashtag?
Facebook è il social network. Primo nelle classifiche mondiali, ha spopolato rapidamente negli anni e come dimenticare lo slogan di apertura del social al momento dell’iscrizione “per restare in contatto con le persone della tua vita”, un mondo virtuale nel quale l’interazione degli utenti è la sua natura e ne ha contraddistinto i tratti trasferendo comportamenti sociali nel mondo virtuale. Per le sue caratteristiche è diventato il social network più ambito dai brand mass market e non solo, da chiunque voglia farsi conoscere: non sei su Facebook? Allora non interessi.
Il social ha ideato le pagine per far si che le aziende che vogliono raggiungere il proprio target e la massima interattività, lo possono fare nel massimo rispetto della privacy dei propri utenti. Dopo questa breve panoramica sarà più semplice comprendere l’adozione dell’# su Facebook e come prima analisi si rivela che il vantaggio maggiore nell’utilizzo di questo strumento è sicuramente per le aziende o per i brand che possono sfruttare il sistema di ricerca per migliorare le performance di Facebook ADS (il sistema di “inserzioni” che permette ad aziende e professionisti di promuovere prodotti e servizi) e poter incrementare gli introiti. La comunicazione attraverso gli hashtag permetterà di migliorare l’online reputation, engagement, online contest, event live.
Per ogni hashtag ricercato si viene a creare una nuova pagina a tutti gli effetti che include e racchiude in essa tutto ciò che è condiviso dagli utenti. Ad esempio cliccando sulla parola #mare, si apre una pagina dedicata solo a questo argomento per cui è semplice il monitoraggio da parte sia dei singoli utenti, ma anche dei brand. L’altra faccia della medaglia è che si può dimostrare uno strumento di rischio per la fuoriuscita di commenti negativi. La facoltà di potersi connettere con una parola chiave ad altri utenti e pagine porterà sicuramente alla creazione del solito campo di “ricerca” o “ interessi” per ricercare un dato tema.
Sarà più semplice coinvolgere gli utenti in attività mirate e sarà più semplice l’integrazione con gli altri social da Instagram a Google Plus e poter seguire eventi in real-time. Sta di fatto che ogni singolo utente potrà visualizzare con un determinato hashtag solo i messaggi, nell’elenco dei post, pubblicati da amici o contenuti in modalità pubblica, quindi visibili a tutti. La privacy degli utenti in questo modo non sarà intaccata, anche se si allontana dai fini reali del tool #. Esattamente come su Twitter si avrà presto la possibilità di seguire gli hashtag più utilizzati, la possibilità di acquistare hashtag sponsorizzati e seguire trend più rilevanti degli utenti che si seguono, ma il limite rispetto a Twitter è evidente nel sistema di privacy che Facebook non ha intenzione di alterare. Ai fini dell’utilizzo del cancelletto per l’interazione fra gli utenti ne ha ben poco, ma è invece più fruibile sicuramente per i brand.
Facebook “connette” gli utenti ai propri interessi. Lo fa favorendo le iscrizioni alle pagine ufficiali, le espressioni di gradimento, la personalizzazione dei profili. Sempre più gente su Facebook (o utilizzando i Plug In esterni) stabilisce una connessione tra sé e un certo numero di “like”. Ciò ci permette di intercettare questa gente sia tramite Facebook ADS sia per mezzo delle altre strategie. Inoltre se si riflette sul fatto che la modalità di vendita delle inserzioni su Facebook è il costo per impression, fa si che si l’uso dell’hashtag si trasforma in link che si ricollega alla pagina Facebook e incrementando sicuramente il numero della pagine presenti sulla piattaforma, quindi impression. Il guadagno per Facebook è evidente. La domanda è: siete ancora sicuri di voler continuare ad usare gli # al di fuori di Twitter?
Il cyberspazio è un luogo virtuale dove uomini e donne di tutto il mondo si incontrano, discutono, scambiano contenuti attraverso i nuovi canali dove lo spazio ricreato è un luogo vivo, lievitati da forti emozioni ed interessi. Oggi grazie all’aumento delle nuove campagne sociali e agli strumenti utilizzati, raggiungere delle somme da donare in beneficenza, non è più così lontano.
Molte associazioni si sono dotate di nuovi strumenti di marketing che attraverso piccoli gesti conquistano il cuore di chi aderisce alle iniziative senza la prerogativa di sforzi economici. La creatività contraddistingue le nuove forme di contatto virtuale. Se si pensa come nell’arco di una pausa caffè si possono concentrare moltissimi momenti di cura o di eventi per la persona, allo stesso tempo i luoghi virtuali sono diventati anche questo, momenti di stacco.
Il caffè s’identifica come pratica quotidiana e sono i gesti più semplici che restano impressi nella memoria. Oggi le campagne sociali sono costruite sulla base dei valori, emergenti o consolidati, che rispecchiano i bisogni informativi e comunicativi degli individui.
Una campagna esemplare è quella nata nel 2011 da parte dell’associazione internazionale Avaaz – Il Mondo in Azione, la comunità online che crea campagne per portare la politica dei cittadini nei processi decisionali di tutto il mondo. Tra le prime forme di raccolte è stato lanciato lo slogan “Aiutiamo Avaaz: il prezzo di un caffè per il cambiamento” per sottolineare, come, il piccolo contributo da parte di ciascun membro è di fondamentale importanza per la sopravvivenza dell’associazione e dalle loro iniziative.
Le campagne sociali sul web permettono una diffusione nello scenario mediatico che fino ad oggi era recluso a una parte pagante delle agenzie di comunicazione e anche in termini di visibilità si fuori esce dai confini territoriali e raggiunge un impatto decisamente superiore grazie al “Tam Tam” degli utenti e la comunicazione a rete. Un traguardo raggiunto è stato quello della Federazione Internazionale HUMANA People to People presente in 43 Paesi di Africa, Asia, Europa, America che incita all’adozione a distanza di bambini africani al solo costo di un caffè.
Far leva sull’emozione degli individui e portarli a riflettere sulla condizione esistenziale che affronta ogni giorno un individuo da altre parti del mondo e i differenti costi della vita, dove il costo di un caffè corrisponde all’adozione di un bambino. Nei social network si creano spazi di discussione e di pressione decisionale. Il tutto, se riflettiamo, che può essere racchiuso all’interno di una pausa caffè.
Il semplice accesso al proprio profilo, un semplice like, può attivare una campagna; si può partecipare a un flash mob, girare un video online, cambiare il modo di pensare e di vivere in un arco di tempo ristretto come quello di una pausa caffè. Il caffè piace in moltissimi modi, lungo, ristretto, macchiato, freddo, e ciò nonostante è sempre presente nella nostra vita e ci accompagna. Allo stesso modo la vita sociale di un essere umano varia a seconda delle condizioni sociali, politiche ed economiche.
Da questa idea nasce “1caffè” una Onlus a sostegno di altre associazione per la raccolta fondi attraverso promozioni e donazioni quotidiane sul web. La vision punta sulla semplicità del gesto e lo collega a un atto di eroismo. L’associazione ha un testimonial d’eccezione, Luca Argentero, attore e tra i membri fondatori dell’associazione che fa leva sul suo status simbol nei confronti dei giovani aperti a queste nuove forme d’iniziativa. Scorrendo la pagina Facebook sono molte le associazioni sostenute da questo meccanismo di solidarietà e abbracciano un contesto multiculturale. La campagna di raccolta dei caffè ha la durata di un solo giorno per associazione. Coloro i quali aderiscono all’iniziativa, ricevono in seguito i contatti dell’associazione alla quale hanno elargito il denaro, per seguire l’operazione in tutti gli aspetti e scoprire insieme gli obiettivi raggiunti.
Anche l’Unicef ricorda che per sostenere le loro azioni, aiutare un bambino costa meno di un caffè. Il cyberspazio diventa un amplificatore incontrollabile, una cassa di risonanza che se gestita con un sotto velo di strategie di marketing aiuterà le realtà sociali a emergere.
Da tempo, ormai, il marketing ha scoperto le potenzialità offerte dalla rete e dagli strumenti del web 2.0. Le community virtuali hanno visto progressivamente crescere la loro sfera d’influenza e, sempre più spesso, sono considerate veri e propri target a cui mirare con una comunicazione specifica. I social network e i siti di social book marking si sono rivelati ottimi strumenti per migliorare la link popularity, aumentare il traffico dei siti internet, rafforzare il brand e contribuire alla costruzione della web reputation, e l’article marketing viene sfruttato da un numero crescente di aziende.
Di pari passo con la mutazione di approccio al marketing, la rivoluzione della partecipazione si sta espandendo a macchia d’olio e sono sempre più i settori produttivi e le pratiche culturali contagiate e sedotte dalla sua diffusione. Nel campo dell’editoria, a questo proposito, sono stati raggiunti esiti molto interessanti: dopo la creazione di reti sociali, più o meno a maglie larghe, per lo scambio dei libri e lo sviluppo dell’editoria sociale, quest’oggi si vuole condividere la scrittura e la produzione dei volumi, sviluppata rigorosamente dal basso.
E’ questo il caso di Pendolibro, un’iniziativa lanciata dal social book magazine Libreriamo, dedicato alla promozione della lettura, dei libri e della cultura in generale. Il progetto è pensato per coinvolgere in prima persona quanti fra gli oltre dieci milioni di italiani che si mettono in moto ogni giorno, per motivi di studio e di lavoro, hanno la passione della scrittura e vogliono raccontare la loro esperienza, fatta di emozioni, incontri, sogni e rabbia. L’iniziativa vuole spronare i viaggiatori a rivelare la dimensione intima e relazionale dell’esperienza quotidiana, invitandoli a dare libero sfogo alla fantasia e a diventare protagonisti di un’opera editoriale condivisa.
Con una selezione di questi racconti, condotta dalla redazione di Libreriamo con il contributo di alcuni illustri critici italiani, sarà infatti prodotto e editato un e-book, che verrà poi pubblicato e condiviso gratuitamente su internet. La scelta di servirsi delle nuove tendenze del web 2.0 per dare vita ad un’iniziativa sperimentale, volta alla promozione della lettura, trova la sua ragion d’essere nella forte motivazione di questo team editoriale, che sostiene apertamente il libro come strumento di crescita culturale e come propulsore della democratizzazione del pensiero pubblico.
L’editoria digitale in Italia è un mercato giovane, ma destinato a crescere molto rapidamente. E’ un settore che si presta a molteplici sperimentazioni ed è altamente probabile che nel prossimo futuro le soluzioni più innovative e radicali vengano proprio dal mondo degli utenti e da progetti che sappiano proporre nuove modalità di coinvolgerli nella creazione del valore e dei contenuti.
Emerge così, chiaramente, come anche in Italia la diffusione degli strumenti del web 2.0 stia profondamente cambiando sia l’approccio delle aziende al marketing e alla comunicazione, sia i processi di produzione culturale, ridefinendo regole, ruoli e modalità. L’humus creativo e di sperimentazione che si pone alla base di questi fenomeni può costituire una fonte di stimoli importante per lo sviluppo della società contemporanea e per la riconversione dell’economia del Paese.