Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
Partita IVA 03068171200 | Codice Fiscale/Numero iscrizione registro imprese di Roma 03068171200
CCIAA R.E.A. RM - 1367791 | Capitale sociale: €10.000 i.v.
È stato presentato ieri mattina a Roma, al Teatro Orione sull’Appia, il volume “Immigrazione. Dossier Statistico 2013”, titolo che si accompagna in copertina, sempre a caratteri cubitali, a “Rapporto Unar. Dalle discriminazioni ai diritti”, realizzato dall’Idos (acronimo che sta per Immigrazione Dossier Statistico) su committenza giustappunto Unar. L’Unar opera nell’ambito del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta del primo annuario pubblicato in Italia per la raccolta di dati socio-statistici sui temi dell’immigrazione.
Per chi non conosce l’opera, si tratta di un corposo tomo di poco meno di 500 pagine, che, ormai a cadenza annuale, da oltre un ventennio (fino al 2003 curato dalla Caritas di Roma e poi dal Centro Studi Idos), propone un’interessante analisi, soprattutto quantitativa, della situazione dell’immigrazione in Italia, con molte tabelle e capitoli che affrontano le tematiche migratorie da diverse prospettive: statistiche, economiche, politiche, giuridiche.
Quel che qui vogliamo segnalare (denunciare?!) è che nel tomo, certamente prezioso, non c’è una pagina una dedicata alla cultura, allo spettacolo, alle arti, ai media: eppure i 5,2 milioni di cittadini stranieri regolarmente presenti a fine 2012 sul territorio italiano non sono – si ha ragione di ritenere – soltanto lavoratori e consumatori di beni materiali, ma anche fruitori e finanche autori di cultura. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è del 7,4 % del totale nazionale. Gli stranieri iscritti nelle scuole italiani sono poco meno di 800mila, e corrispondono al 9% della popolazione studentesca. I neonati stranieri hanno rappresentato nel 2012 il 15% di tutte le nascita in Italia. Le due comunità più rilevanti in termini quantitativi sono i cittadini del Marocco e dell’Albania, le cui comunità sono formate entrambe da circa 500mila persone; seguono i cinesi, con 300mila, ed è sopra la soglia dei 200mila l’Ucraina.
Il rapporto Idos è uno strumento certamente prezioso, e, in qualche modo, evoca l’ormai mitico rapporto annuale del Censis sulla situazione del Paese (giunto nel 2012 alla 46ª edizione): è indiscutibilmente un testo di riferimento, per chi si interessa di politiche sociali e specificamente di migrazioni. Se si vuole trovare un qualche deficit, va cercato nell’impostazione complessiva (non particolarmente critica, anzi un po’ asettica) e forse nella eccessiva parcellizzazione delle tematiche (75 capitoli!): insomma, sembra mancare una lettura critica sintetica. Una pecca anche nell’impaginazione, troppo classica, con un’architettura grafica che non invita alla lettura: non viene proposto nemmeno un grafico o una visualizzazione. Conferma di questo approccio eccessivamente tradizionale – nella rappresentazione dei dati – s’è registrata anche durante la presentazione del rapporto: la relazione di Pittau non è stata accompagnata da alcuna slide. E, per quanto accurato l’eloquio del “rapporteur”, un rapporto scientifico ha anche necessità di “rappresentazioni” visive sintetiche, e forse anche un po’ d’effetto… Questa mancanza non è compensata da un breve video curato dalla Rai, che ha cercato di estrapolare un set di dati dal rapporto, sullo sfondo di immagini di repertorio (il video sarà online su YouTube da oggi).
Al di là di questi aspetti “coreografici”, perché la presentazione e l’impostazione del volume ci preoccupa?!
Perché in tutti gli interventi, durante le tre ore di presentazione del rapporto, non abbiamo ascoltato alcuna riflessione sulla funzione della cultura come strumento di integrazione sociale, anzi di “interazione sociale” (come si usa ormai nello slang specifico della sociologia delle migrazioni). Eppure, sono proprio i media e la cultura gli strumenti che possono stimolare (o non stimolare) la coesione sociale, e la promozione di visioni plurali della realtà, che combattano esclusione e discriminazione.
Indiscutibilmente i relatori erano tutti di gran qualità e della massima rappresentatività istituzionale: dal Presidente dell’Idos Franco Pittau alla giornalista di Radio Vaticana Maria Dulce Araújo èvora, dalla Capo Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio Ermenegilda Siniscalchi, dal Direttore Generale dell’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) Marco De Giorgi alla Vice Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (con delega alle Pari Opportunità) senatrice Maria Cecilia Guerra, per arrivare alla onorevole Ministro per l’Integrazione Cécile Kashetu Kyenge.
Non una parola una dedicata alla cultura.
Va lamentato che non esiste una ricerca sulla fruizione culturale e mediale degli stranieri che vivono in Italia.
Va ricordato che pure esistono testate a stampa in lingua straniera edite in Italia, esistono emittenti radiofoniche e televisive locali che offrono trasmissioni per gli stranieri, esistono scrittori ed anche gruppi artistici – soprattutto in ambito musicale – che si impegnano a fare della cultura uno strumento di condivisione di valori, di integrazione, di coesione, di lotta al disagio, di difesa delle pluralità (ideologiche, religiose, etniche…).
Un esempio ormai divenuto famoso a livello nazionale è l’Orchestra di Piazza Vittorio, ma sono attive in Italia decine e decine di gruppi musicali multietnici, rispetto ai quali non esiste alcuna letteratura scientifica e l’attenzione dei riflettori mediali è quasi inesistente.
Come se la dimensione culturale degli immigrati fosse una variabile minore, marginale, e non invece centrale…
Quel che sembra emergere (confermata anche dall’affollato convegno di presentazione del rapporto Idos) è una sorta di “deriva economicista” del senso dello Stato: tutti gli intervenienti hanno posto l’accento su quanto gli immigrati contribuiscano ormai all’economia nazionale, come produttori di reddito, come imprenditori, come consumatori. Come se questa variabile fosse essa a poter rafforzare (ri-legittimare eticamente?!) il senso dell’intervento pubblico nel settore. Gli immigrati contribuiscono alla ricchezza economica del Paese: “quindi” sono degni di adeguata attenzione.
Diversi intervenienti hanno richiamato la stima Idos secondo la quale il “bilancio costi/benefici per le casse statali” (inteso come delta tra la spesa pubblica per l’immigrazione, da una parte, ed i contributi e le tasse pagate dagli immigrati dall’altra) avrebbe registrato un risultato positivo di ben 1,4 miliardi di euro nel 2012: insomma, rimesse all’estero a parte, gli immigrati contribuiscono anche alla ricchezza degli italiani non stranieri…
Il fenomeno (cioè questa “interpretazione”) mostra inquietanti punti di contatto con il dibattito italiano sulle politiche pubbliche a favore della cultura: ogni tanto, emerge la ricerca alfa o lo studio beta che “contano”, “misurano”, “quantificano” l’economia della cultura: fatturato, addetti, imprese, indotto, moltiplicatori e compagnia cantando… Spesso si tratta di numeri in libertà, stime simpaticamente nasometriche, ma i giornali e gli altri media se le bevono (senza scrupolo), e talvolta anche quotidiani nazionali titolano a piena pagina dati e statistiche (che non sono validate, ma che fanno effetto)! Come dire?! L’economico conta più del semiotico: non ci si sofferma sul “senso” della cultura, ma sulla sua funzione economica.
Sembra venir meno il senso profondamente civile (costituzionale, ci sia consentito) dell’intervento pubblico (e le politiche a favore della cultura non sono differenti, in questo, rispetto alle politiche sociali): se il “settore” di riferimento “pesa” economicamente, allora sembra che cresca il senso del ruolo dello Stato!
Il rapporto viene distribuito gratuitamente a chi lo richiede (www.dossierimmigrazione.it). Essendo finanziato con danari dello Stato, ci sembra una bella decisione: non sempre accade in Italia (si ricorderà peraltro che un articolo del famoso decreto, poi divenuto legge, cosiddetto “Valore cultura” prevede proprio un obbligo a rendere gratuitamente disponibili le ricerche finanziate con danari pubblici).
Da segnalare, per la cronaca, che il rapporto Idos è giunto alla 23ª edizione, ma di fatto sembra trattarsi di una edizione… n° 1. Nato in effetti in ambito confessionale, essendo stato promosso dalla Caritas e dalla Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, ma comunque caratterizzato per una bella autonomia ideologica, nel 2013 si è incrinato il rapporto fiduciario tra la Caritas-Migrantes e l’Idos. Nuovo inedito committente è giustappunto l’Unar. A fine maggio 2013, l’Idos (che pure ha sede presso il palazzo che ospita alcuni uffici della Cei), diramava un laconico comunicato stampa: “dobbiamo dirvi con rammarico che, a livello nazionale, non è stato raggiunto un accordo per poter continuare la collaborazione con Caritas e Migrantes”. Di criticità di finanziamento trattasi, sembra leggersi tra le righe.
Il Presidente di Idos Pittau ha liquidato – con grazia – questo passaggio di consegne tra committenti/finanziatori (non avvenuto forse in modo proprio sereno) ricordando un auspicio di don Luigi Di Liegro (fondatore della Caritas Diocesana di Roma), il quale pare teorizzasse che non importa lo status del proponente di una bella idea (privato o pubblico, confessionale o aconfessionale che sia), ma quel che conta è che le buone progettualità vengano sviluppate… Meglio ancora se dallo Stato, che la collettività tutta deve (dovrebbe) rappresentare e tutelare. Verrebbe da commentare, con ecumenica benedizione: “tutto è bene, quel che finisce bene”. E quindi la comunità scientifica è ben lieta che il rapporto sopravviva ai travagli tra finanziatori. Anche se Pittau, ieri mattina, ha fatto comprendere a chiare lettere, con bonomia, che il contratto per l’edizione 2014 l’Unar non l’ha ancora perfezionato.
Non riteniamo che, nel passaggio di committenza, dalla Fondazione Migrantes della Cei all’Unar dell’italico Stato, ci sia stato un salto di qualità: il rapporto era e resta uno strumento di conoscenza importante. Spiace osservare che nell’edizione 2013 non vi sia più quella pur minima attenzione che c’era nel rapporto 2012, che dedicava pagine interessanti alle testate radiotelevisive di immigrati, intitolando efficacemente “Comunicare il diverso”.
Come utilizzano internet gli stranieri che vivono in Italia?!
Che impressione hanno di come la Rai rappresenta la loro immagine?!
Si tratta di quesiti che restano senza risposta. E che pure meritano essere analizzati, perché potrebbero fornirci interpretazioni inedite di stereotipi e cliché, e forse anche strumentazione adeguata per superare le discriminazioni. Che sono frutto di degenerazioni dell’immaginario collettivo. E proprio la cultura e l’arte possono combattere in modo efficace le distorsioni
Una battuta finale sull’apprezzabile autoironia della Ministra Kyenge: ha enfatizzato come le tematiche della migrazione debbano essere affrontate meglio soprattutto dagli operatori scolastici, ed ha raccontato che, in un incontro con studenti di una scuola elementare, si è trovata qualche giorno fa spiazzata alla domanda di un bambino: “ma ministro… il vostro governo ha un programma???”. Una risata convinta s’è elevata dalla platea.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Nel nostro Paese, ancora oggi, si realizzano spot o campagne pubblicitarie in cui si tende a rappresentare la famiglia in modo molto tradizionale, come era negli anni ’50 o ’60: il papà che lavora fuori casa, la mamma casalinga, i figli che studiano e hanno necessità di ricche colazioni e sostanziose merende (benché l’obesità infantile sia piaga riconosciuta).
Questi stereotipi non sono più totalmente in linea con la nostra società, che è cambiata, si è evoluta e in cui i ruoli si sono modificati: il papà oggi cambia i pannolini, la mamma lavora anche fuori casa, ecc. Non siamo certo ai livelli del nord Europa, ma ritengo giusto che la pubblicità rifletta la società contemporanea.
E’ quindi corretto che si tenga conto anche delle situazioni non tradizionali (se vogliamo usare questa terminologia), delle diversità (tema che sarà proprio al centro della Nona Conferenza Internazionale della comunicazione sociale che come Unicom stiamo organizzando al fianco di Pubblicità Progresso per il prossimo 18 novembre a Milano, dedicata a “Il valore della diversità – Verso una nuova cultura di genere”).
Ben venga, dunque, se la pubblicità adeguandosi ai tempi, contribuisce ad un cambio di mentalità.
Non trovo invece che sia corretto strumentalizzare questi temi (omofobia, violenza sulle donne ecc.) perché, purtroppo, fanno scalpore e quindi fanno sì che si parli di quello o quell’altro spot.
Riguardo all’infelice affermazione di Guido Barilla, si può leggere in due modi differenti. Può essere stata frutto di una svista, carpita a tradimento da un abile conduttore. Diciamo che da un capitano d’azienda ci si aspetterebbe più capacità di reazione e più prontezza, invece sembra sia caduto molto ingenuamente nella trappola che gli era stata tesa.
Viceversa potremmo sospettare che si sia voluto esprimere in questi termini proprio per sfruttare lo scalpore che ne è derivato, ma in questo caso si è rivelata un’arma a doppio taglio, un vero boomerang.
Un ultimo commento lo lascio alla nuova comunicazione di Enel “#Guerrieri”: trovo l’idea creativa interessante, capace di generare il coinvolgimento e di far sentire protagonista la gente comune con i suoi problemi quotidiani, a patto che non sia un modo di accattivarsi questo target in vista di future operazioni finanziarie.
… quindi sì alla vita reale, no alle strumentalizzazioni.
Donatella Consolandi è Presidente Unicom – Unione Nazionale Imprese di Comunicazione
Attori e personaggi famosi travestiti da figure del passato, stavolta non su un set fotografico o cinematografico, ma in foto, come se fossero dentro un quadro.
Modern Renaissance. Modern Celebrities in Old Art è il tema di un contest indetto dalla piattaforma online Worth1000. Worth1000 è un sito che propone giornalmente competizioni creative di tutti i tipi, dai photoshop contest, alla scrittura, dalla fotografia all’illustrazione.
Il concorso in questione chiedeva ai partecipanti di modificare i quadri più celebri della storia dell’arte, inserendovi i volti delle celebrità del cinema e della televisione. Ecco comparire un Johnny Depp “con l’orecchino di perla”, un Leonardo Di Caprio vangoghiano, e c’è persino un Dottor House alla David.
Il Decreto Valore Cultura ha un significato e una portata che vanno oltre le misure – pur importanti – in esso contenute. Per la prima volta dopo tanti anni infatti sembra emergere un approccio di sistema alle politiche di sostegno pubblico al comparto, una “vision” che considera ad esempio l’audiovisivo un segmento della produzione creativa ad alto potenziale occupazionale e generatore di ricadute sul piano economico e industriale.
Certo, si tratta solo di un piccolo passo ma fatto nella giusta direzione e che dimostra che nonostante le emergenze quotidiane è possibile derogare ai tagli orizzontali là dove gli investimenti pubblici vengono considerati realmente strategici.
Sembrerebbe maturo quel cambio di passo necessario per avviare una seria e radicale riforma della governance per estendere ad esempio i benefici fiscali anche al settore della fiction (ben venga intanto il provvedimento a favore della produzione indipendente musicale) e del sistema di raccolta della risorse da far affluire al comparto dei contenuti creativi e culturali creando dei tavoli negoziali con i tradizionali player (broadcaster e Telcos) e nuovi operatori globali della rete (OTT).
Bruno Zambardino è analista senior della Fondazione Rosselli e Direttore didattico As.For. Cinema
La presentazione annuale della relazione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni al Parlamento e al Governo si ripropone anno dopo anno come un rito istituzionale, dal quale non si possono certo pretendere fuochi d’artificio e sensazionali rivelazioni.
Spesso, in queste occasioni diviene più rilevante l’aspetto coreografico che quello contenutistico. Storicamente la relazione è stata presentata nella prestigiosa Sala della Lupa della Camera dei Deputati, ma la prima sortita della consiliatura presieduta da un anno da Angelo Marcello Cardani è stata ospitata nella più accogliente Sala della Regina, che beneficia peraltro di un impianto di climatizzazione all’altezza del torrido luglio romano (le precedenti presentazioni della relazione erano divenute famose per il tasso di… sudorazione degli astanti, oltre che per i diffusi sbadigli).
Un antropologo osserverebbe come si tratti di un rito assolutamente… maschile. In barba alle “quote rosa”, si contavano in sala forse una decina di donne su circa duecento presenze, e peraltro si ricordi che tutti i componenti dell’Agcom sono senza dubbio maschi (Antonio Martusciello, Francesco Posterano nella Commissione Servizi e Prodotti; Antonio Preto e Maurizio Dècina nella Commissione Infrastrutture e Reti).
Curiosa presenza di molti “vice”: è intervenuta Marina Sereni, Vice Presidente della Camera (senza la grazia nemmeno di un cenno di giustificazione sull’assenza della Boldrini, che ha così involontariamente alimentato le polemiche su un qual certo suo assenteismo dai lavori parlamentari), il Vice Ministro per lo Sviluppo Economico Antonio Catricalà, il Vice Presidente della Corte Costituzionale Luigi Mazzella… Forse troppi “vice”, per l’economia simbolica di kermesse come questa. Come se Parlamento e Governo prendessero le distanze dai rispettivi ruoli, ed osservassero con distacco Agcom.
In effetti, Parlamento e Governo sono “decision maker” mentre l’Agcom dovrebbe essere un mero “regolatore”. Si tratta però di un regolatore che a fronte dell’assenza del legislatore, si vede costretto ad intervenire come supplente: il caso del regolamento sul diritto d’autore online è sintomatico, così come quello della regolazione del pluralismo elettorale e politico.
Ma anche la “materia” Rai è nelle competenze Agcom, anche soltanto per le linee-guida sull’ormai ridicolo “contratto di servizio” Rai (scaduto da sette mesi). In queste materie (ed altre ancora), il Paese è governato da norme vecchie ed obsolete, ma il Parlamento dormicchia.
La relazione di Cardani, snella (una ventina di pagine, meno di un’ora di lettura), si caratterizza per il tono pacato e molto diplomatico. È come se volesse attenuare la rappresentazione delle criticità del sistema mediale italiano, in primis il gravissimo ritardo nella diffusione della banda larga e nella diffusione della rete come strumento di conoscenza, partecipazione, commercio, imprenditorialità: il 37 % degli italiani non ha mai avuto accesso ad internet!
Si conferma la centralità dei contenuti audiovisivi nella “dieta mediatica”, che assorbono circa due ore delle giornate di ogni italiano, il 42 % dei totali 274 minuti dedicati alla comunicazione (qui omettiamo critiche sulla qualità della fonte).
Pochi e lievi cenni critici. Agcom certifica il calo degli investimenti pubblicitari: – 19 % per l’editoria, – 18 % per la tv, – 13 % l’esterna, – 7 % la radio…
Soltanto il web è in controtendenza, con un + 12 % (ed ha una fetta del 14 % della torta pubblicitaria totale). Basti osservare che editoria ha perso il 14 % del proprio fatturato in un anno soltanto, con un calo di 1 miliardo di euro nei ricavi. Nel 2012, i quotidiani hanno visto calare del 10 % la vendita di copie, e del 19 % i ricavi pubblicitari!
Nel business tv, Sky ha superato Mediaset nel totale dei ricavi, e Rai è terza.
Il business totale del settore delle comunicazioni sarebbe calato dai 65,8 miliardi del 2011 ai 61,5 miliardi del 2012.
Diverte notare come uno dei primi dispacci diramati dall’Ansa sintetizzava la debolezza della Rai nell’offerta su internet: il portale della Bbc è il 5° per utilizzazione (numero accessi) nel Regno Unito, prima di Yahoo, quello della Rai è al 28° posto in classifica. Questa è forse l’unica freccia amara, tra quelle lanciate dal delicato arciere Cardani.
Agcom conferma l’intenzione di emanare un regolamento in materia di diritto d’autore online (lo si attende da anni…), ma ribadisce che semmai il Parlamento decidesse di intervenire, si ritirerà in punta di piedi (anzi, si adeguerà). Tanto l’Autorità sa benissimo che il Parlamento, con l’attuale maggioranza “collosa”, non interverrà.
L’Autorità benedice lo scorporo della rete Telecom Italia (decisione definita addirittura “coraggiosa e innovativa”), ma non più di tanto, perché attende le ulteriori mosse del gruppo di Bernabè e vuole vedere le carte.
Nulla dice Agcom rispetto all’esigenza di stimolare la produzione di contenuti di qualità. Si limita ad un cenno rispetto alle esigenze di verificare eventuali posizioni dominanti all’interno dei singoli mercati del Sic (il duopolio Rai + Mediaset ha l’87 % dei ricavi nel settore della tv gratuita, Sky ha il 78 % nella tv pay…).
Nulla dice rispetto al rischio di dinamiche parassitarie da parte dei “nuovi aggregatori” (Google in primis).
Nulla dice in materia di emittenza radiotelevisiva locale (esiste ancora?!).
Nulla dice rispetto all’occupazione, alla forza-lavoro: come se l’economia del sistema non fosse basata anche sul lavoro, oltre che sul capitale (ci si perdoni la passatista citazione marxiana).
Nulla dice l’Agcom – in sostanza – sul problema centrale, che nemmeno identifica: l’evoluzione del sistema mediale italiano sta producendo continuo impoverimento strutturale e depauperizzazione delle risorse allocate sulla produzione di contenuto (calano gli investimenti, la disoccupazione cresce, il precariato impazza). Vale per l’editoria di qualità, per il cinema, per la musica, per la fiction, eccetera.
L’Autorità non identifica la patologia fondamentale del sistema. La pirateria è un problema importante, ma non il più grave. Cardani si limita a scrivere: “il ruolo della produzione di contenuti non viene meno” (!). Quella che sta… venendo meno, caro Presidente, è la “produzione” stessa di contenuti, non il suo ruolo.
Da segnalare che è intervenuto in sala, con il suo ormai noto look molto “casual”, Roberto Fico, il Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai (soprannominato, forse con eccessivo entusiasmo, “il mastino” da “Prima Comunicazione”), il cui pensiero crediamo di immaginare, mentre ascoltava le molto molto molto moderate parole di Cardani ed osservava i quattro altri silenti componenti del soviet Agcom schierati in bella mostra sul tavolo di presidenza.
Segnaliamo alcuni dettagli che riteniamo significativi. La relazione non si caratterizza per quella vena poetica e per quelle raffinate citazioni cui ci aveva abituato il past President Corrado Calabrò (ci sono però chicche come l’incipit: “per comprendere la dimensione di un fenomeno sarebbe necessario poter valutare il controfattuale della sua assenza”, sic), si evince che è stata elaborata sotto la guida di un economista e non di un giurista, e ciò è innovativo.
Molti sono i dati citati, ma, da ricercatori, ci preoccupa un po’ la pluralità di fonti utilizzate, con numeri che temiamo possano finire per smentirsi l’un l’altro, per difformità metodologica e contraddittorietà interna: in una nota a piè di pagina, i redattori utilizzano la simpatica formula “ex multis” (come dire, abbiamo colto qua e là), inadeguata per un documento che dovrebbe rappresentare la “summa” (anche scientifica, no?!) in materia.
E preoccupa anche che Cardani utilizzi il termine “consumatori” riferendosi al target finale dell’Autorità. In punta di piedi, ci permettiamo di ricordare al Presidente che l’Agcom ha delle funzioni molto più delicate della consorella Agcm (Garante della Concorrenza e del Mercato): dovrebbe vedere i propri “stakeholder” non nei “consumatori”, bensì nei fruitori, ovvero nei cittadini.Non si tratta di un distinguo semantico marginale.
E, rispetto a questi cittadini, Agcom dovrebbe anche pensare alle funzioni culturali del sistema dei media. Funzioni che sembrano essere completamente ignorate, nella relazione: la parola “cultura” è completamente assente dalla relazione di Cardani (ma anche la parola “emittenti locali”, come se… non esistessero più le radio e tv indipendenti: di grazia, sono deboli e marginalizzate, ma vanno ancora in onda!). In sostanza, viene ignorata completamente la intima relazione tra l’economico ed il semiotico. Ma l’Agcom non dovrebbe vigilare anche su questo?! Sul senso (di società) che l’attuale assetto del sistema mediale produce, che è poi il senso stesso (il più intimo) della democrazia! Sui valori (anche etici!), sulla Weltanschauung che i media stimolano.
Non debbono essere tenuti sott’occhio soltanto la concorrenza ed il pluralismo, ma anche la produzione di senso: la cultura, insomma. Tutto l’approccio della relazione è quantitativo, ma l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni non dovrebbe avere a cuore anche la “qualità”? Come dire?! Il mandato Agcom dura ben sette anni: Cardani e colleghi hanno di fronte qualche anno per un… ravvedimento operoso.
Attendiamo poi di leggere la Relazione vera e propria, ovvero il corposo tomo che, quest’anno, per la prima volta nella storia dell’Agcom, non è stato distribuito ai partecipanti, e non si sa nemmeno se verrà stampato su carta (effetti perversi della “spending review”: è vero che pochi lo leggevano, ma era comunque uno strumento utile).
È comunque disponibile sul sito dell’Autorità (464 pagine: aaargh! abbiamo controllato, anche qui il concetto di “cultura” non è presente, se non nel capitolo dedicato ad alcuni obblighi della Rai: da non crederci…), insieme ad alcune slide di sintesi dei dati (che estrapolano dal tomo un set di interessanti informazioni, ovviamente… tutte soltanto quantitative).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
“Un party in casa online”, è questo lo slogan di Potluck, un social network con lo scopo di “chiacchierare” con altri utenti sugli argomenti che si ritengono più cool. L’azione principale è, infatti, quella di condividere link con gli amici. I link postati possono riguardare orientamento politico, convinzioni sociali e morali, o semplicemente gusti musicali, hobby, pagine divertenti sulle quali si vuole avviare una conversazione. Potluck può essere definito, quindi, una via di mezzo tra un forum e un social network.
Il prodotto, disponibile su pc e presto anche su iphone, ha una sezione “Notifiche” e una “Profilo” che funzionano come su Facebook, e permette tre azioni principali:
• Post: per postare i link che si ritengono interessanti, col semplice strumento del “copia e incolla”.
• Friend Activity: per vedere i link postati, commentati o segnalati (hearted, corrispettivo del like di Facebook) dagli utenti amici.
• Rooms: per vedere tutto quello che è stato detto su un link, le persone che lo hanno apprezzato, ed eventualmente unirsi alla conversazione.
È possibile anche vedere i profili degli amici in comune e aggiungerli.
È un’idea interessante per sviluppare conversazioni e dibattiti su quello che si ritiene piacevole e appassionante, anche sui social, mezzi che spesso non danno spazio ad approfondimenti. Potrebbe essere uno strumento utile per capire in maniera più completa gli orientamenti di pensiero di amici, vecchi e nuovi.
È una piattaforma ancora poco conosciuta, disponibile solo in inglese e che, se non si doterà di un’identità forte e definita, rischierà di non riuscire ad allinearsi a Twitter e Facebook, con i quali ha molte cose in comune (forse troppe).
Gli ideatori di Potluck ci tengono a sottolineare che il loro social esce dall’ottica del cosiddetto “Success Theatre”, l’ansia da prestazione che nasce dalla ricerca di approvazione quando si posta sui social network. Su Potluck l’enfasi non è posta sull’individuo, ma sugli interessi comuni che condividono un gruppo di persone.
Giornalisti, politici, opinionisti, di professione o per vocazione. A tutti coloro che amano chiacchierare e “fare salotto” anche online. Ma anche a chi è un po’ timido e preferisce non essere giudicato.
Si è tenuta giovedì 20 giugno a Roma, in una sala messa a disposizione della Camera dei Deputati, una riunione promossa da MoveOn per rilanciare le loro radicali proposte per una riforma del servizio pubblico radiotelevisivo.
L’invito recitava: “Il sapere è di tutti. Una Rai indipendente al servizio della libertà di informazione. Tavolo di lavoro Parlamento – società civile”. E si leggeva: “Siamo al 57° posto al mondo come libertà di informazione. Costruiamo un servizio pubblico tv prendendo ad esempio i modelli europei più avanzati. Per una Rai senza il totale controllo dei partiti e del governo, con una legge di stampo europeo proposta dalla società civile”.
Il movimento, coordinato dal pugnace Marco Quaranta, ha tra i propri esponenti la ex parlamentare Tana de Zulueta (senatrice dal 1996 al 2001 nelle fila dei Ds, rieletta nel 2001 e passata nel 2004 ai Verdi, nelle cui liste viene rieletta nel 2006), e tra i simpatizzanti l’editorialista de “la Repubblica” Giovanni Valentini e l’ex senatore Vincenzo Vita (che è intervenuto all’incontro ormai come rappresentante di Articolo 21).
Si è trattato di un’occasione interessante soprattutto per cercare di comprendere le idee del neo Presidente della Commissione di Vigilanza Roberto Fico, che ha seguito con attenzione tutti i lavori, e ne ha tracciato le conclusioni. In verità, è forse la prima volta nella nostra esperienza professionale (e forse nella storia della politica televisiva in Italia) che un ruolo istituzionale così importante e delicato viene affidato ad un giovane dai modi assolutamente informali e dal look certamente “casual”.
Sono intervenuti nel dibattito sia operatori del settore noti (l’ex commissario Agcom Nicola D’Angelo, l’ex direttore di Rai Educational Renato Parascandolo, l’ex responsabile cultura di Rifondazione Comunista Sergio Bellucci… da osservare una presenza di molti “ex” ed anche ciò deve stimolare una riflessione su chi è attualmente fuori dalle “istituzioni”) sia ignoti (lavoratori “di base” della Rai, giornalisti non particolarmente famosi…). Si sono ascoltate quindi tesi evolute e storiche (molto appassionato l’intervento veramente fuori dal coro di Corradino Mineo, ex direttore di RaiNews ed attualmente parlamentare del Pd, così come quello di Loris Mazzetti, che ha ricordato la passività di molti a fronte del famigerato “editto bulgaro”), ma anche argomentazioni – come dire?! – ingenue e “semplici”. Complessivamente, si è trattato di una iniziativa stimolante, per quanto non innovativa, se non nella rara occasione di un esponente istituzionale molto dialogico.
Move On ha promosso un “tavolo”, del quale faranno parte politici, tecnici, esponenti della società civile, che intendono impegnarsi per una Rai “dalla parte dei cittadini”.
Sullo scenario, si agitano spettri di varia natura: la prospettiva (parzialmente rientrata) della chiusura del “psb” in Grecia, le curiose valutazioni “economicistiche” della Rai elaborate da Mediobanca (come a segnalare che il “psb” potrebbe andare “sul mercato”), l’audizione del Vice Ministro Catricalà che non ha escluso l’assegnazione del servizio pubblico attraverso una gara, e quindi senza garantire l’esclusiva Rai (una vecchia tesi cara ai liberisti oltranzisti).
Premesso che riteniamo che l’attuale assetto governativo non determinerà alcuna proposta di riforma né della Gasparri, né di altre norme sul sistema dei media (troppo contrapposti sono gli interessi per addivenire ad un compromesso), è prevedibile che la proposta di Move On sia destinata, purtroppo, a restare lettera morta, esattamente come è avvenuto – a suo tempo – con la proposta di legge di Tana De Zulueta.
Ciò non significa che iniziative di provocazione non debbano essere promosse: anzi. Che si gettino nuovi sassi nel vecchio stagno. Prima o poi, forse, qualcosa accadrà. Sarebbe accaduto certamente qualcosa se il Pd avesse seguito la prospettiva Rodotà. L’attuale governo conferma invece una dinamica gelatinosa di consociativismo, allorquando crediamo che il Paese abbia necessità, urgente, di riforme, radicali.
Ricordiamo che il “MoveOn italiano” nasce su ispirazione del movimento americano che ha contribuito alla vittoria di Obama e quindi all’approvazione della nuova riforma sanitaria. Scopo dichiarato del movimento “è promuovere la Democrazia attraverso azioni partecipate al livello locale, nazionale e, insieme ad analoghe reti straniere, internazionale. Vorremmo stimolare la partecipazione tra i cittadini e i partiti, per contribuire – tutti assieme – ad un reale cambiamento delle condizioni politiche e culturali del nostro Paese”. MoveOn vorrebbe una televisione pubblica libera di “fare da cane da guardia ai poteri”.
Tra le tesi di MoveOn:
1. superamento dell’anomalia per la quale l’azionista del servizio pubblico è il Ministero dell’Economia;
2. al posto della Commissione Parlamentare di Vigilanza, costituzione di un Consiglio per le Comunicazioni Audiovisive, composto in maggioranza – 11 su 20 – da esponenti della società civile;
3. il Consiglio nomina i vertici della concessionaria del servizio pubblico (Rai), manager che devono essere selezionati in base a criteri di professionalità, competenza, indipendenza;
4. il Consiglio nomina altresì i componenti dell’Agcom, anche in questo caso garantendo criteri selettivi basati su esigenze di competenza, indipendenza, trasparenza;
5. il Consiglio si pone al servizio degli utenti Rai, stimolando modalità interattive di controllo e valutazione, e garantendo ai cittadini un uso attivo e consapevole dei media del servizio pubblico.
Correlata battaglia è rappresentata dall’esigenza di nuove norme antitrust.
Una petizione può essere firmata sul sito di www.change.org.
Il Presidente Fico si è impegnato a partecipare al “tavolo”, e già questa è una notizia inedita, dato che il Presidente di una Commissione Parlamentare si caratterizza spesso per un ruolo in qualche modo “a-partisan”. Fico invece, evidentemente, intende schierarsi, eccome.
Nelle sue conclusioni Fico ha auspicato di poter essere il Presidente “dell’ultima Commissione di Vigilanza Rai”, ma questo auspicio reca, come sottotesto, il rischio di una scomparsa della Rai (il che è male) e non soltanto del “controllo partitico del servizio pubblico” (il che è bene). Secondo Fico, “la Rai è un patrimonio pubblico che non va smantellato, ma risanato e a cui va dato un nuovo assetto di governo puntando al superamento della stessa Commissione di vigilanza”. Temiamo che il Movimento 5 Stelle, nel tentativo di attuare alcuni dei suoi nobili propositi, potrebbe finire per buttare dalla finestra… anche il bambino, oltre che l’acqua sporca.
Fico ha annunciato che approfitterà del parere che la Commissione è tenuta a manifestare sul nuovo contratto di servizio Rai in gestazione, per convocare audizioni eterodosse: nonostante i funzionari della Commissione gli abbiano segnalato che lui può audire soltanto “dirigenti” della Rai, Fico ha annunciato l’intenzione di non rispettare questa indicazione, e di convocare anche lavoratori Rai… non titolati, ed esponenti della società civile.
Effettivamente, se Fico riuscisse a concretizzare questo intendimento, ne potremmo vedere delle belle!
Temiamo però che il dissidente Fico possa finire per svolgere un ruolo, certamente utile in termini dialettici, ma purtroppo non determinante nell’economia politica complessiva del sistema. Come sta accadendo ai due consiglieri dissidenti in Rai: in effetti, non ci sembra che dalle posizioni “resistenziali” di Colombo e Tobagi stia emergendo alcuna correzione di rotta Rai, ma semplicemente la sacrosanta rivendicazione di un’idea altra di servizio pubblico.
Non è questo che una buona metà degli italiani si attende dalla Rai. O dalla Vigilanza. E non è casuale che i due dissidenti Rai abbiano inviato un messaggio ai promotori dell’iniziativa MoveOn: Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo che hanno espresso il loro pieno appoggio ai 5 punti del Manifesto di MoveOn, precisando che di queste proposte c’è bisogno per “l’impatto nefasto della attuale forma di governance sulla vita aziendale”. Tobagi e Colombo sostengono che “le energie dei cittadini e della politica debbano convergere sullo sforzo di riformare quel grande patrimonio collettivo che è il servizio pubblico”, e che non è il caso di “disperdersi in diatribe sulla privatizzazione”. In vista del rinnovo della concessione del servizio pubblico nel 2016, ritengono che “sia necessario sviluppare un dibattito ampio e organizzare una consultazione che coinvolga in maniera seria e strutturata i cittadini”.
L’incontro si è chiuso con l’impegno di avviare il tavolo di lavoro nelle prime settimane di luglio. Attendiamo, fiduciosi, lo sviluppo dell’iniziativa.
Per martedì 2 luglio, intanto, Articolo 21 ha promosso un incontro di riflessione critica, sempre sulle tematiche del servizio pubblico, dalle ore 10 alle ore 14, presso il Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro): prevedibilmente un dibattito utile… pur ospitato nei saloni di un ente ritenuto inutile dai più (ed immaginiamo cosa ne possa pensare Beppe Grillo).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale
Il 5 giugno si è tenuto a Roma, presso la sede della Regione Lazio, un incontro tra Lidia Ravera, Assessore alla Cultura e Sport e Politiche Giovanili della Giunta Zingaretti (insediatasi a metà marzo), ed una folta rappresentanza delle tante associazioni, professionali ed imprenditoriali, che caratterizzano il “piccolo mondo” degli italici cinematografari. È stata una occasione ghiotta, per chi cerca di comprendere gli orientamenti della eterodossa neo-Assessore (che si è autodefinita una “aliena”, rispetto ai “palazzi della politica”, in un bell’articolo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 1° giugno scorso). Ravera è stata chiamata alla guida delle politiche culturali della Regione Lazio da Nicola Zingaretti, che ha voluto mettere in atto un’operazione spiazzante, anche perché Ravera, pur ben collocata a sinistra, non è iscritta al Pd, ed è quindi sganciata da dinamiche partitocratiche.
Da osservatori critici – quali siamo, da decenni – della politica culturale, a livello nazionale e locale, abbiamo, fin dai primi giorni, apprezzato la estrema cura comunicazionale (linguistica e semantica) con cui Ravera si è manifestata, in alcune pubbliche occasioni: che fosse un intellettuale ed un’artista, era evidente, ma che riuscisse ad arricchire il “linguaggio della politica” con una forma elegante ed al tempo stesso significativa (significante) è una bella sorpresa. Anche perché si tratta di un bel parlare che sembra riuscire a non cadere in quella qual certa ridondanza retorica che caratterizza invece talvolta un altro eccellente “affabulatore” – politico di professione – qual è Vendola, ad esempio.
Ciò premesso, la Ravera, che ha ereditato un assessorato retto per alcuni anni da Fabiana Santini (il cui curriculum evidenziava al massimo il ruolo di capo della segreteria dell’ex Ministro Scajola) nella Giunta Polverini, ha subito precisato, non appena insediatasi, che avrebbe “studiato”, e che avrebbe anzitutto “ascoltato”… “prendendo appunti” (formula che ribadisce spesso, e che effettivamente corrisponde alla realtà). Ha anche premesso con chiarezza: “la Regione Lazio, e questo Assessorato, non saranno più un bancomat, anche perché il bancomat s’è rotto”.
In estrema sintesi, va ricordato – ai lettori che non vivono a Roma e nel Lazio – che la Giunta Polverini (aprile 2010-marzo 2013) aveva, a sua volta, ereditato dalla Giunta Marrazzo (aprile 2005-ottobre 2009) un notevole livello di interventismo nelle politiche culturali, con particolare attenzione all’audiovisivo: finanziamenti consistenti, sostegno ad iniziative incerte come il Fiction Fest, iniziative promozionali varie.
Il deficit della Giunta Marrazzo va cercato nell’assenza di programmazione, ovvero di un piano strategico organico e di medio periodo: ha prevalso una pluralità di interventi, che è presto degenerata in policentrismo dispersivo, a partire da una assenza di sintonia tra “anime” della stessa giunta: le politiche culturali erano curate da Giulia Rodano (poi divenuta responsabile cultura nazionale dell’Italia dei Valori, ed ormai allontanatasi dalla politica); le politiche comunicazionali erano gestite da Francesco Gesualdi (segretario generale della Regione, già direttore generale di Cinecittà, fiduciario di Marrazzo).
Con una gestazione complessa, la Giunta Polverini ha comunque approvato una legge regionale sul cinema e sull’audiovisivo, che un qualche segno di innovazione ha provocato, a partire dalla denominazione della norma stessa, che, per la prima volta in Italia, ha “accomunato” il cinema e l’audiovisivo (non cinematografico). Sono stati allocati fondi per 15 milioni di euro l’anno, assegnati sulla base di meccanismi “automatici” (in primis, la sensibilità verso il Lazio, in termini di riprese o utilizzazione di risorse professionali in Regione), senza che vi fossero commissioni di esperti che giudicassero la sceneggiatura o il progetto filmico.
Questa legge è controversa: per alcuni, ha consentito una preziosa boccata di ossigeno, a fronte della riduzione della “quota cinema” del nazionale Fondo Unico per lo Spettacolo (che non arriva ormai a nemmeno 100 milioni di euro l’anno); per altri, ha finito per finanziare anche qualche produzione indipendente e qualche giovane autore (e produttore), ma per lo più ha sostenuto i “soliti noti”, ovvero i più ricchi produttori italiani (esemplificativamente, la Cattleya di Riccardo Tozzi e la Palomar di Carlo Degli Esposti). Va rimarcato che non è stata realizzata alcuna analisi valutativa degli effettivi impatti di questa legge, nella “migliore” tradizione dell’assenza di verifiche sull’intervento della mano pubblica nel settore culturale, che riteniamo essere la più grave patologia del sistema italiano. In verità, né l’assessorato affidato a Rodano né l’assessorato affidato a Santini hanno prodotto un rendiconto analitico accurato: il concetto stesso di “bilancio sociale” è ancora fantapolitica, per il nostro Paese.
Come vengono allocate le risorse… perché a favore di “x” piuttosto che di “y” (e questo problema riguarda enormi macchine “mangiasoldi” come gli enti lirici a livello nazionale, ma anche l’ultima delle piccole associazioni culturali del comune più sperduto)… sono domande che restano senza risposte, come il quesito sull’efficacia, in termini di stimolazione del tessuto culturale (estensione del pluralismo, pluralità dei linguaggi, eccetera), degli interventi pubblici. Il concetto di valutazione di impatto così come quello di verifica dell’efficacia sono sconosciuti alla quasi totalità della italica politica culturale.
Sono intervenuti alla riunione (ad inviti), i rappresentati di Slc Cgil, Anica, Agis Lazio, Anem, Anac, Apt, Agpc, 100autori, Cinema e Territorio, Cinecittà Luce, Doc/it, Fidac, Consequenze Network, Sact… Tutti hanno manifestato le proprie lamentazioni, per una crisi grave e diffusa: è emerso uno scenario critico veramente sconfortante. Che la crisi del cinema italiano sia profonda è confermata dalla notizia (diffusa nella stessa giornata dell’iniziativa della Regione Lazio) della sostanziale sospensione delle attività di distribuzione ed acquisizione della mitica Sacher di Nanni Moretti, che ha diramato questo comunicato stampa: “Ormai la situazione del Paese è tale che una distribuzione come la nostra, da sempre orientata alla diffusione di film art house che la gente va sempre meno a vedere e che le tv non acquistano più, si ritrova a lavorare più per filantropia che altro”.
Dopo oltre due ore di interventi, ha tirato le conclusioni l’Assessore, visibilmente affaticata (ha diligentemente preso appunti, come annunciato), ma ben vivace e stimolante, tracciando alcune linee-guida: ha premesso che non ha mai creduto nella dicotomia tra “cultura” ed “industria”, ed ha definito le industrie dell’immaginario come “industrie particolari che producono oggetti delicati” (aggiungendo: “dobbiamo sempre ricordarci il motto: handle with care”); ha lamentato come il nostro Paese, da molti anni, sia sottoposto ad un bombardamento mediatico (televisivo) che ha impoverito le coscienze (“abbiamo consumato roba balorda per decenni”) ed ha determinato una diffusa “desertificazione culturale”; ha sostenuto la necessità di far affluire “aria fresca” in un sistema polveroso e stantio, attraverso la promozione della sperimentazione, della ricerca, dell’innovazione, dei giovani talenti, stimolando le diversità espressive e linguistiche; ha sostenuto a chiare lettere che gli “automatismi” possono anche essere funzionali, ma che debbono essere integrati (corretti) con l’intervento “umano” (per quanto esso possa essere a rischio di soggettività); ha dichiarato che le procedure di finanziamento dovranno prevedere anticipazioni, perché la produzione audiovisiva è processo complesso e costoso, ed è la fase iniziale a dover essere sostenuta con maggiore attenzione; ha enfatizzato la necessità di guardare al territorio regionale, ben oltre Roma, perché è soprattutto “in provincia” che si soffre dell’assenza di strutture di offerta (cinema, teatri, centri culturali…), ovvero si assiste alla morte degli “avanposti dell’alfabetizzazione”; ha annunciato la costituzione di un comitato di qualificati esperti indipendenti (liberi da conflitti di interessi), che procederà ad apportare correzioni “light” alla legge cinema ed audiovisivo, ed a effettuare valutazioni (soggettive!) su cosa debba essere sostenuto, e cosa no, dalla Regione Lazio (“no ai finanziamenti a pioggia… anche perché si corre il rischio di… far piovere sul bagnato”, ha ironizzato); per quanto riguarda la film commission, ha dichiarato a chiare lettere che considera l’esperienza pugliese (e la stima per Vendola si conferma) un caso di eccellenza, anche per quanto riguarda la Apulia Film Commission, diretta dal giovane Silvio Maselli.
Per noi, che pure siamo studiosi critici di politiche culturali da un quarto di secolo, assidui e pazienti frequentatori di ogni iniziativa convegnistica e di dibattito sulla cultura, si è trattato di un’iniziativa assolutamente lodevole: densa, succosa, stimolante.
Le intenzioni dell’Assessora, intellettuale umanista, sono evidenti, commendevoli, condivisibili: innovare, scardinare il modello pre-esistente, rischiare. Abbiamo anche registrato qualche interessante assonanza tra quanto sostenuto dall’Assessore Ravera e quanto annunciato il 23 maggio dal Ministro Bray nella sua relazione di fronte alle Commissioni Cultura di Camera e Senato per la prima volta riunite assieme. L’intervento del neo-Ministro, per lo specifico audiovisivo, è rivoluzionario (almeno sulla carta), sebbene nessun quotidiano abbia colto la novità: ha fatto riferimento al modello francese come “benchmark”, e ciò basti.
Non resta da augurarci che si passi presto dal libro delle belle intenzioni (comunque apprezzabile, anche soltanto dal punto di vista intellettuale e della elaborazione di “policy” auspicata) alla concreta progettualità ed alle conseguenti azioni: normazioni, regolazioni, allocazioni di budget adeguati, deliberazioni amministrative. La Giunta Zingaretti ha certamente una previsione di vita maggiore del Governo Letta, e ciò conforta.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale
Le web radio sono ormai una realtà esistente e consolidata nel panorama della rete mondiale ed il loro sviluppo, il loro utilizzo tende a crescere proporzionalmente con il passare degli anni. Del resto, il mondo del Web 2.0 sta sempre più assorbendo le forme di comunicazione e di intrattenimento così come le conoscevamo. Dal giornalismo all’editoria, dalla tv al cinema, ogni realtà tradizionale ha un suo corrispetivo in rete. La radio non fa eccezione.
Cerchiamo allora di delinare quale sia l’attuale situazione delle web radio in Italia, tentando di capire perché, nonostante gli evidenti punti a favore posseduti da internet, il mondo radiofonico via web stenti ancora a decollare. Precisiamo che il riferimento qui è alle radio nate proprio sul web, che non hanno un corrispetivo in FM e che dunque hanno vita possibile soltanto online.
I vantaggi di una web radio sono molteplici. Anzitutto, le radio che trasmettono in modulazione di frequenza (FM) devono fare i conti con problemi di “spazio”, come fossero frequenze televisive. L’etere non è infinito, mentre lo è la rete. Un’altra componente a favore è il corposo ridimensionamento dei costi di avvio e di mantenimento di una emittente radiofonica. Il web permette dei risparmi consistenti a partire dall’ubicazione della radio, che, ragionando per assurdo, potrebbe sorgere anche in una abitazione privata. Da escludere anche il costo di affitto della frequenza o l’acquisto della stessa. In sostanza, l’unico conto da saldare sarebbe quello di mantenimento del sito web e il diritto d’autore per i contenuti musicali.
Un ulteriore vantaggio riguarda la praticità d’uso della piattaforma: la web radio porta con se la mole di succose novità che il mondo di internet offre ogni giorno. Difficilmente avremo infatti una radio web che non segua un assiduo lavoro pubblicitario sui social network o che non favorisca l’interazione in tempo reale con l’uso degli stessi. Una linea di tendenza che stanno adoperando anche le radio in FM, ma il web conserva il vantaggio di avere “tutto in uno”: basta un computer per ascoltare e interagire a 360°.
Quello che secondo noi rappresenta invece il problema pìù grande da dover affrontare è la tendenza dell’ascoltatore comune all’utilizzo della radio soprattutto nelle automobli, in assenza quindi di un computer dotato di accesso web. Se è vero che smartphone e tablet hanno affievolito il problema, il gesto dell’accensione dell’autoradio è ancora una pratica quasi inconscia, accensione che privilegia dunque l’emittente in FM. Sono in progettazione autoradio in grado di accedere a contenuti online, ma per la loro commercializzazione è lecito attendersi ancora un tempo consistente, almeno in Italia.
Disabituare il pubblico ad un ascolto così radicato nella cultura nostrana favorendo quello casalingo, o comunque davanti ad un computer, è un processo destinato a compiersi molto lentamente.
Ne consegue un’attenzione quasi nulla da parte degli inserzionisti pubblicitari, che continuano a guardare il mondo delle radio FM come unica fonte redditizia. La pubblicità è la strada di guadagno, quasi unica, per una radio: fin quando non si arriverà a tal punto, le web radio non compiranno il salto di qualità.
C’è bisogno allora di alcuni espedienti per accalappiare il pubblico, come trasmissioni originali non disponibili sulle emittenti via etere, programmazioni musicali fuori dagli schemi commerciali o soluzioni che coinvolgano realtà esterne a quelle della radio stessa.
In questo senso si sta muovendo Radio Kaos Italy, una web radio che ha fatto dell’interazione con la LIS (lingua dei segni italiana) il suo punto di forza, creando la prima (web) radio per persone non udenti. Questo impegno verso il “sociale” sta garantendo degli enormi passi avanti, anche a livello di visibilità nazionale.
Espedienti dunque, in attesa di un cambiamento che è destinato a compiersi prima o poi, ma che sta subendo vistosi rallentamenti: l’ascoltatore italiano non è facile da disabituare.
Nell’ultima puntata di Report, la nota trasmissione televisiva in onda la domenica su Rai3 e condotta da Milena Gabanelli, è stato trasmesso un servizio dal titolo “Belli da Morire” di Stefania Rimini; si parlava di economia della cultura e dell’immenso patrimonio nazionale che, nonostante la sua unicità e grandi potenzialità, non rende al PIL italiano quello che dovrebbe.
Come è giusto che si faccia, la giornalista pone le solite ma fondamentali domande: come mai non si riesce a mettere a frutto tale ricchezza? Di chi è la responsabilità? E nel porre a confronto realtà estere e nostrane, riporta la testimonianza di una giovane esperta in gestione dei beni culturali. Si chiama Rosangela Arcidiacono e denuncia come le abbiano impedito di realizzare nell’ex carcere borbonico di Catania il primo museo internazionale contro la mafia, per il quale aveva già predisposto uno studio di fattibilità e trovato anche finanziatori disposti a sovvenzionarlo, promettendo che il progetto avrebbe dato lavoro sicuro a ben 50 persone. A chiuderle la porta in faccia la Soprintendenza, che in quei locali ha sede.
L’idea di questa catanese è senza dubbio ammirevole e dettata sicuramente dall’amore per la propria terra, ma deve fare i conti con l’effettiva realizzabilità e, soprattutto, con la sostenibilità a lungo termine: perché non è stata fatta menzione di costi e ricavi? Quali gli sponsor coinvolti? Che tipo di sinergie sul territorio sarebbero state attivate?
Sarebbe stato importante in tale contesto approfondire questi aspetti non certo di poco conto, al fine di far valere le proprie ragioni.
Sempre più spesso mi accorgo di come tenda a sfuggire la profonda differenza che vi è fra la cultura, le politiche a questa inerenti, e la produzione culturale. L’assunto che fino ad oggi ha prevalso indiscriminatamente in questo settore è quello che vede il pubblico come principale mecenate, al tempo stesso erogatore di finanziamenti e concessionario di spazi.
Mai come oggi è importante sottolineare come queste formule non siano le uniche risposte possibili. Il pubblico e la politica non possono essere gli unici ad investire nella riqualificazione a matrice culturale di spazi e territori, la macchina che dev’essere avviata è, in sé, più grande e complessa, e richiede una consapevolezza di fondo che ad oggi ancora manca.
Avviare e gestire progetti ed eventi culturali ha un costo che non si può pensare resti in capo alla Pubblica Amministrazione. Il Pubblico e l’Europa possono dare il contributo per la nascita delle iniziative ma la cultura deve poi trovare la sua strada per sostenersi economicamente. Per farlo ha bisogno di operare con la forma gestionale più appropriata, contare su di un team di esperti preparati e competenti, elaborare una compiuta politica di costi e ricavi e assumersi dei rischi d’impresa.
L’approccio alla cultura e alla progettazione culturale deve evolversi in senso imprenditoriale, le forme giuridiche delle organizzazioni devono essere ripensate e tarate sulle esigenze reali, bisogna ragionare sul principio di reddito e su un modello di business reale, che renda le azioni sostenibili nel lungo periodo. Le attività culturali devono essere declinate e gestite da un management competente e pronto a rischiare, un management che sappia mettere le azioni a sistema e svilupparne prodotti e servizi commercializzabili.
I progettisti culturali di domani saranno gli esperti che riusciranno a guardare alla cultura con un occhio imprenditoriale, le figure che sapranno inserire le singole attività all’interno di una cornice gestionale e processuale più complessa, nella quale competenze distinte ed eterogenee si fondono. Rendere le attività culturali sostenibili vuol dire rischiare, scommettere, investire risorse e competenze accettando una sfida che può esser vinta, se solo s’imbocca la strada giusta.
“Story Selling. Strategie del racconto per vendere se stessi, i prodotti, la propria azienda”.
Il saggio, scritto da Andrea Fontana, esperto di corporate storytelling, è un piccolo manuale che spiega come raccontare sé stessi, la propria attività o specifici prodotti. L’autore parte dall’assunto che attraverso una storia ben narrata è possibile destare interesse: il perché e il come viene spiegato nel libro.
Il libro si apre con una premessa e un’introduzione, per poi suddividersi in due parti: la prima, composta di tre capitoli dedicati al business storyselling e la seconda, spiegata in sette capitoli incentrati sullo storyselling in azione, dalla retorica, al mindfuckining, fino alla captologia. Il volume segue dunque un percorso logico che, partendo dalla presa coscienza dell’importanza del racconto nelle nostre vite, insegna a narrare nel modo migliore e più interessante, per poi spiegare come promuovere le nostre storie.
Il testo è chiaro e ricorre spesso ad esempi utili per la comprensione. Qualora ci fosse bisogno di ulteriori spiegazioni, il libro non lesina in grafici ed illustrazioni schematiche, che sintetizzano il contenuto concentrando l’attenzione sui concetti principali.
Essendo un saggio, “Story selling” non risulta una lettura particolarmente vivace, ma appare molto tecnica e specialistica.
Ogni capitolo si apre con una citazione, che introduce al tema trattato, e si chiude con l’indicazione dei cosiddetti “punti fondamentali”, domande che fanno riflettere il lettore riguardo i principali contenuti illustrati.
“Story Selling” è vivamente consigliato a chi lavora nell’ambito della comunicazione, del marketing e della pubblicità, ma può essere utile anche a chi vuole semplicemente promuovere il proprio curriculum e scoprire i segreti del mestiere di “storyseller”.
“Story Selling” è un libro di Andrea Fontana, edito da Rizzoli Etas, in vendita a 17,00 euro, prezzo di copertina.
ISBN 9788817056830
È uscito lo scorso dicembre TUTTI A SPASSO l’album d’esordio dei Magellano, i tre ragazzi genovesi che si stanno facendo conoscere nel panorama musicale italiano per la loro musica mista rap, hip hop, reggae, elettro club sarcastica ed ironica. I tre sono il Pernazza (Ex-Otago, The Hashtag e Chiambretti Night), Drolle (batterista e creative director)e Filo Q (cantautore elettronico e producer),
Li abbiamo incontrati per conoscerli meglio e scoprire il loro progetti futuri.
Da quanto tempo è nata la band e perché avete scelto il nome Magellano?
Il progetto è nato più meno un anno e mezzo fa, per tutti e tre voleva essere un nuovo punto di partenza rispetto alle nostre esperienze musicali quindi cercavamo qualcosa che ben rappresentasse la voglia di rimettersi in cammino, in discussione, in viaggio… una fuga positiva dalle nostre certezze; un elemento che anche dalle nostre liriche viene fuori molto fuori.
Il vostro ultimo video è stato girato nei vicoli e nelle strade più degradate della città. Qual è il rapporto che lega la vostra musica al territorio dove vivete?
Genova è un filo rosso che lega la nostra musica e le nostre parole, è il posto dove viviamo, a cui ci sentiamo legati e da cui ci piace allontanarci per poi poterci tornare, è la nostra amante. Genova è un luogo di incontri, di meltin pot culturale, un porto, dove stili, idee, etnie differenti convivono e fanno mash up tra loro, come tutte le convivenze non sempre le cose sono semplici e armoniche, ci sono scontri e tensioni. Il nostro sound risente di tutto questo e diventa somma di stili differenti, si mischia con i nostri caratteri… ed esce “Tutti a spasso”!!
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=sFgN7wm94q0&w=560&h=315]
Qual è, invece, il vostro rapporto con la televisione ed internet? Vi servite di questi strumenti per la diffusione e promozione dei vostri pezzi e album?
In un momento come questo, in cui le informazioni sono così frastagliate e confuse, la rete diventa uno strumento essenziale di promozione, noi la usiamo parecchio, offre un mare di possibilità se capisci come farne un uso creativo, è uno strumento davvero potente che ti permette di arrivare a tantissima gente. Con le tv abbiamo un ottimo rapporto, abbiamo già collaborato con Sky per un progetto su Twin Peaks ed il video di Il Pasto di Varsavia è stato tutta l’estate in heavy rotation su Deejay Tv, in questi giorni esce il video di Tutti a spasso e vadiamo che succederà.
Avete realizzato delle magliette e borse con il vostro logo acquistabili online. Questo rientra nella vostra strategia di marketing?
Nel progetto Magellano è molto importante la musica ma anche tutto l’immaginario visivo della band occupa una posizione centrale nel processo creativo, quindi grafiche, video, foto, magliette etc, diventano per noi strumento di comunicazione quanto suoni e parole. Non volevamo fare una band in senso stretto del termine, vogliamo divertirci e sperimentare. Magellano è un progetto che abbraccia più linguaggi espressivi, non ci precludiamo nulla, purchè sia funzionale a ciò che vogliamo esprimere.
Ci anticipate qualcosa sui vostri progetti futuri: avete in programma tour in giro per l’Europa , un concerto nella vostra città a Genova ?
Al momento stiamo partendo con il tour di Tutti a spasso in Italia, sicuramente presenteremo il disco a Genova nei prossimi mesi con una bella festa che coinvolgerà anche Foundation Elementz, la crew di ballerini con cui collaboriamo, La Escobar e molte altre persone che hanno collaborato al disco ed in generale ruotano attorno al progetto. Abbiamo fatto ultimamente una piccola capatina fuori dai nostri confini per un concerto a Lugano e stiamo pianificando in questo periodo qualche uscita fuori dall’Italia… vi aggiorneremo presto con tutte le news.
Approfondimenti:
Sito internet ufficiale
Pagina Facebook ufficiale dei Magellano
Scarica il singolo “Tutti a spasso“
Era il 19 aprile 2005 quando Joseph Aloisius Ratzinger saliva sulla soglia pontificia con il nome di Papa Benedetto XVI. Dopo quasi otto anni da quella giornata, il papa tedesco ha annunciato le proprie dimissioni in latino, durante il concistoro per la canonizzazione dei martiri di Otranto, a decorrere dal 28 febbraio.
La notizia è stata battuta dall’Ansa ed è rimbalzata immediatamente sui media di tutto il mondo. I social network si sono dimostrati, ancora una volta, casse di risonanza di un evento storico come questo, dove umori, ironia e riflessioni degli utenti hanno dominato la scena.
Anche il Santo Padre dimissionario, del resto, aveva fatto solo qualche mese fa la sua entrata nel mondo dei social aprendo un profilo Twitter. Risale al 10 febbraio l’ultimo suo tweet dove scrive: “Dobbiamo avere fiducia nella potenza della misericordia di Dio. Noi siamo tutti peccatori, ma la Sua grazia ci trasforma e ci rende nuovi”. Parole sibilline forse di una decisione probabilmente già presa e di lì da essere resa pubblica.
Proprio il social dell’uccellino blu ha visto immediatamente l’hashtag #papa divenire top trend insieme ad altre parole chiave come “dimissioni”, “28 febbraio”, “Ratzinger” e molte altre: tra tweet istituzionali e ironici, riflessivi e di commozione, Twitter è stata l’agorà prediletta dove l’opinione pubblica mondiale si è espressa.
Facebook tuttavia non è stato da meno e qui le dimissioni del Papa hanno scatenato soprattutto divertenti parodie. Dal saluto alla romana, alle indagini della Signora in giallo in vaticano, fino alla messa in vendita della “papamobile”.
Anche le prime pagine dei maggiori quotidiani fanno a gara per mettere in risalto la notizia, chi con foto artistiche, chi con titoli più o meno provocatori.
Ma la foto che più in voga è quella che ritrae la cupola di San Pietro colpita da una saetta, un suggestivo scatto, attribuito ad Alessandro Di Meo, che rappresenta perfettamente la situazione in cui versa il Vaticano, colto dalle dimissioni di Benedetto XVI come “un fulmine a ciel sereno”.
Pubblicittà: forme pubblicitarie del moderno
un breve ma intenso saggio che, in soli cinque esaustivi capitoli, ripercorre la storia della pubblicità e della sua teorizzazione, dalla sua assimilazione con la propaganda, alle teorie dell’AIDA o al cosiddetto modello DAGMAR, sino ad arrivare alla pubblicità odierna il cui modello prevalente non è più quello della persuasione occulta, bensì del coinvolgimento del pubblico finale. Un libro interessante che illustra le nozioni basilari per la professione pubblicitaria, oggi più che mai esigente nella formazione dei propri adepti, pubblicitari che, per avere successo, non devono più essere specialisti di un campo specifico, ma possedere una preparazione ampia ed approfondita.
diviso in cinque capitoli, il libro ripercorre la storia della pubblicità, attraverso le sue tappe fondamentali e riportando le diverse correnti di pensiero ordite dagli studiosi che in questo campo hanno lavorato per anni o che hanno reso la pubblicità, il suo messaggio e il mezzo di trasmissione, oggetti di studio per carpirne i segreti e il suo rapporto con il pubblico. Una digressione storica che arriva sino ai nostri giorni, per analizzare la paventata crisi del settore e il suo rapporto con il contesto urbano di cui la pubblicità sta divenendo sempre più parte integrante e caratterizzante.
un saggio necessario per la formazione dei professionisti del settore, ma anche per gli operatori della comunicazione, perché, pur non essendo troppo specialistico, riesce a chiarificare concetti complessi come l’approccio semiotico, la funzione fatica, il concetto di pubblicità obliqua, brand reputation e brand awareness e il subvertising.
poco spazio è riservato al ruolo innovativo che rivestono i social media per la diffusione virale del messaggio e per il mutamento nella percezione dei mezzi utilizzati per la sua propagazione. Nonostante l’autrice rimandi ad un ulteriore saggio per approfondire l’argomento, forse sarebbe stato indicato, per completezza del testo, riportare qualche informazione, anche solo generica.
ogni capitolo si apre con un motto famoso rimasto impresso nelle menti del pubblico, perché caratteristico di pubblicità celebri che hanno decretato la fama del prodotto reclamizzato: ogni claim è stato affiancato a ciascun capitolo in modo mirato.
gli studenti e i professionisti del settore in particola modo, ma non bisogna escludere anche il fruitore abituale di tv ed internet, soprattutto se incuriosito di scoprire quanto le trovate pubblicitarie influenzino i suoi comportamenti o quanto partecipi in modo attivo alla fama di un prodotto. Infine, ma non meno importante, il libro potrebbe risultare utile per i comunicatori politici.
Pubblicittà: forme pubblicitarie del moderno di Stefania Antonioni Franco Angeli
costo 18 euro
La madre dei Caravaggio è sempre incinta
un pamphlet originale e, nella sua paradossale verità, divertente che raccoglie alcuni degli articoli redatti dal critico d’arte Tomaso Montanari su diversi quotidiani e periodici italiani. Pubblicato da Skira Editore nella collana “sms”, il libricino, di sole 73 pagine si presta ad una lettura scorrevole e spassosa che nel contempo porta però a riflettere su quanta importanza diamo spesso a notizie senza alcun fondamento.
uno spaccato di giornalismo e di sensazionalismo che investe soprattutto l’arte. L’autore ci conduce infatti a ripercorrere tutti quei casi in cui si plateavano ritrovamenti di Caravaggio o Michelangelo, di disegni di Raffaello o di croste di Leonardo. Tutti, inesorabilmente rivelatisi dei falsi. Una serie di “bufale” cui la stampa italiana (e molto spesso anche internazionale) ha creduto senza precedentemente verificare e accertare le fonti. E allora, ci si chiede…di chi è la colpa? Del tam tam mediatico o dei storici dell’arte, anch’essi complici di queste ingrate scoperte?
la regola sembrerebbe: niente peli sulla lingua! E, a prescindere dal fatto che possiamo o meno trovarci d’accordo con l’autore, Tomaso Montanari propone la sua personale visione del comparto artistico a tutti i livelli: dai critici agli accademici, dai professori ai giornalisti, dai politici ai cittadini. In alcuni casi facendoci aprire gli occhi sulle metodologie di alcune attribuzioni e sul valore che scambi artistici hanno non a livello culturale bensì politico.
difficile trovare dei difetti ad un manualetto dallo stile approfondito ma non petulante che ci racconta con vivida ironia o con indignazione galoppante uno dei principali problemi a livello culturale del nostro paese: l’educazione al patrimonio diffuso. Ed allora eccolo il difetto: l’autore avrebbe dovuto fornire al lettore, a fine di questo breve percorso, un vademecum indispensabile per proteggere e proteggersi dagli sciacalli dell’arte, una “to do list” o “testi che l’autore ti obbliga a leggere se non vuoi cascare più in queste bufale”. Dislocate qua e là, all’interno del libro, ci sono alcune tips (blog, saggi, quotidiani da leggere o da evitare), ma non abbastanza!
chi ama l’arte ma non capisce i suoi retroscena e vuole imparare a distinguere una recensione vera da un guidizio comprato.
Tomaso Montanari, La madre dei Caravaggio è sempre incinta, Skira Editore, euro 9. ISBN: 978-88-572-1711-6
Lunedì sera a Che tempo che fa è andata in scena una straordinaria pagina culturale. Di quella cultura viva, quella che fa bene all’anima, al cuore e alla bellezza del mondo. Una pagina ricca, una bella “prova”di via d’uscita da questa crisi che ha provocato, tra le altre cose, anche una profonda lacerazione del tessuto sociale. Barenboim e Metha, ospiti di riguardo ma con la semplicità dei veri grandi, hanno planato con ricche parole sopra i nostri pensieri e li hanno depurati dall’inquinamento acustico delle frasi fatte. Scrivete al Governo! Ha esclamato Zubin Metha, una frase molto significativa per riappropriarci dei nostri diritti attraverso l’uso della penna scrivendo pagine nuove attraverso quel diritto alla cultura davvero bene comune.
Contro le storture e le mortificazioni occorre fare leva su una nuova ricompensa sociale per combattere in prima persona la svalutazione delle passioni, delle idee e dei comportamenti. Non più mere diagnosi dei mali ma proposte di cure efficaci. Questo dovrebbe essere il nuovo corso della conoscenza. Più “operai” della cultura e meno “ingegneri” della cultura. Fare cultura comporta lo sporcarsi le mani, agire in luoghi difficili, portare un libro dove non attecchisce. Troppo facili i convegni o le aperture delle mostre. Far capire un quadro, fare entrare nei “luoghi della cultura” chi non è mai entrato, questo sì che è civile! La parte finale dell’intervista – caminetto di Fazio ai due immensi direttori d’orchestra è davvero da incorniciare. La musica in terra di guerra. Musica che fa ricordare ad un popolo sofferente e dimenticato la loro condizione di esseri umani! Sono parole forti quelli di Baremboim. Ma sono parole illuminanti per capire che oggi deve finalmente comprendersi che la cultura rappresenta il grado di evoluzione di un paese, piccolo o grande che sia. Recentemente Giuliano Amato ha affermato che: “qualcuno troverà troppo enfatico che si parli di un nuovo Rinascimento italiano, ovvero di una ricostruzione come quella del dopoguerra, fondata oggi sulla cultura. Può darsi. Ma se troviamo parole e visioni che ci spingono verso un futuro migliore, non c’è proprio nulla di male. Sono meglio, e hanno più fondamento, della rassegnazione, o peggio ancora dell’auto-denigrazione, che non ci aiutano neppure a correggere le nostre mancanze.
Ma soprattutto Giorgio Napolitano con incisiva saggezza ha rammentato: “difendo l’articolo 9 come uno dei principî fondamentali della Repubblica e della Costituzione, come scelta meditata, lungimirante e di sorprendente attualità; anche per come ha saputo abbracciare in due righe tutti gli aspetti essenziali del tema che ancor oggi dibattiamo (e voglio rendere omaggio a quei signori che sapevano scrivere in due righe una norma: sapevano scrivere in italiano le leggi, e innanzitutto la Legge fondamentale). Vogliamo rileggerle, quelle due righe? Cito anche il primo comma, non solo il secondo: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” – e già questo è un accoppiamento che non dovremmo mai trascurare nei nostri discorsi: cultura e ricerca scientifica e tecnica. L’articolo quindi continua: “[La Repubblica] tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Ebbene, quanto oggi le istituzioni della Repubblica “promuovono” e “tutelano”? Promuovono e tutelano ancora pochissimo, in modo radicalmente insufficiente. Quale peso – ci dobbiamo chiedere, al di là delle proclamazioni – si sta di fatto riconoscendo a quel dettato costituzionale, e dunque ad una corretta visione del rapporto tra cultura e scienza, da una parte, e sviluppo dell’economia e dell’occupazione dall’altra?
Quelle DUE righe già lette alla Scala di Milano dallo stesso Baremboim. Due righe di saggezza costituente. Di una ricostruzione post bellica. Visioni di lungo periodo, senza sofismi o quintali di commi. La chiave è già nella Costituzione. E’ quella la via Maestra da seguire per un paese in crisi di valori, di ripresa e voglia di cambiamento.
In questo quadro anche il Presidente della Repubblica sta dalla parte della cultura: non esito a esprimermi con spirito critico anche nei confronti dei comportamenti dell’attuale governo nel suo complesso, pur conoscendo la sensibilità e l’impegno dei singoli ministri, e non perdendo di vista quel che l’Italia deve al governo del Presidente Mario Monti per un recupero incontestabile di credibilità e di ruolo in Europa e nel mondo. Sappiamo – anche se qui non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente: fare i ragionieri e ragionare sono due cose diverse”.
Scriviamo al Governo. Non importa se a questo o al prossimo. Non più ragionieri, ma ragionare politicamente per ripartire dall’art. 9 a pieno titolo tra i principi fondamentali, oggi più che mai. Ecco perché il ragionamento di Baremboim e Metha è tutta un’altra musica!
Annunciata da anni, temuta da molti, la scomparsa del giornale cartaceo tarda ad arrivare. La verità è che la tanto millantata crisi della carta stampata soppiantata dall’inarrestabile ascesa dell’informazione online, è stata forse sopravvalutata. Di sicuro l’esperienza dell’informazione digitale negli ultimi anni ha acquisito un’autorevolezza sempre più forte, tanto da arrivare in alcuni casi a sostituire, grazie alla prontezza e velocità della sua diffusione, il paradigma tradizionale del veicolo dell’informazione.
Che il giornale cartaceo la mattina in cui esce sia già vecchio ormai è un assioma appurato: la vera rassegna stampa, aggiornata e impeccabile la si fa, integrando gli ultimi lanci di agenzia o le breaking news appena arrivate. Oltre a questo aspetto puramente formale di trasmissione delle notizie, sta mutando radicalmente anche il compito di colui che si definisce il portatore della notizia stessa.
La flessione del quotidiano cartaceo ha portato ad un ridimensionamento del ruolo del giornalista: con la nascita della figura del blogger, personalità policentriche e sfaccettate che spesso riescono a divenire, senza una formazione specifica, delle vere web star, il mestiere stesso del giornalista ha cambiato forma. Nato come detentore dell’essenza della notizia e come unico portatore dello scoop che orgogliosamente firmava, oggi il giornalista si trova a combattere con l’immediatezza di utenti del web, audaci e spavaldi nel pubblicare i propri personali lanci di agenzia, senza curarsi troppo di verificarne la veridicità e la validità delle proprie fonti. Un esperimento che sembra piacere agli utenti del web: il successo di un blog infatti è determinato dal numero di utenti e si riescono ad accaparrare, un dato che rappresenta la diretta conseguenza della attendibilità attribuita al blogger stesso più che all’interesse delle notizie pubblicate. Una tendenza che ha portato gli stessi giornalisti ad aggiornare le proprie attività di lavoro, aprendo un blog personale spesso associato alla versione online della testata per cui collaborano. È nata perfino una classifica annuale, decisamente ambita, di quali sono i giornalisti più seguiti e citati nella rete, in particolar modo su Twitter ( per la cronaca quest’anno il primo posto se lo è aggiudicato Alfonso Signorini).
Sfruttare la rete per arrivare prima su tutti è ormai l’obiettivo da raggiungere per ogni reporter: lo scoop su Twitter è ormai il risultato del proprio lavoro sul campo. Tuttavia, non tutti i giornalisti si sono adattati a questa nuova sfida: alcuni perché rimasti ancorati al modus operandi della vecchia scuola, altri forse perché timorosi del confronto con se stessi e con la realtà che il social network più popoloso può portare. Il numero dei follower su Twitter equivale all’indice del gradimento che il lavoro del giornalista riscuote tra l’opinione pubblica e al contempo quindi è anche un indicatore della professionalità e del talento. Un faccia a faccia a cui non tutti all’interno dell’ambiente erano avvezzi, soprattutto nel nostro paese, dove spesso la professione del giornalista si tramanda per via ereditaria. L’avvento di blogger agguerriti, non ha fatto altro che costringere il giornalista a scendere in campo per difendere il proprio mestiere, con le armi dell’autorevolezza e del controllo della veridicità dell’informazione, laddove spesso i blogger sono accusati di superficialità. In molti hanno proprio deciso di trasformare la propria esperienza lavorativa in redazione come arma di distinzione rispetto alla mole di informazioni incontrollate che viaggiano nella rete. L’articolo della grande firma che esce nel giornale cartaceo spesso non è altro che l’approfondimento, studiato e curato nei minimi particolati, corredato anche ad interviste mirate, della notizia che il giorno prima veniva retwittata di continuo. Il giornalista si occupa di sondare il sentimento del web, ricercare le notizie che imperversano e le fa proprie, costruendoci attorno un articolo dettagliato oltre l’immediatezza dei centoquaranta caratteri. Una tipologia di articolo che sta trasformando lo stesso quotidiano ad assumere progressivamente la carica di supervisore e coordinatore attraverso il proprio articolo di approfondimento. Se l’approfondimento sarà di qualità, il giornale non avrà difficoltà ad essere acquistato in edicola. La verità è che il web sta apportando un cambiamento radicale nel modo di fare giornalismo, perché sta effettuando una scrematura a tutti i livelli, sia per il personale che lavora all’interno della redazione che per la sopravvivenza dei quotidiani cartacei. Come confermano i dati di Word Association of Newspapers, non è vero che l’informazione cartacea sta morendo: i giornali ritenuti attendibili e necessari per avere una panoramica dettagliata e di livello hanno aumentato le proprie vendite nelle edicole. Non a caso l’Economist ha incrementato le proprie vendite di mezzo milione di copie in 7 anni.
Il festival della rivista Internazionale, giunto alla sua sesta edizione, ha chiuso quest’anno con il record di 66mila presenze, registrando circa 3mila visitatori in più dell’anno scorso. Il successo di pubblico eclissa temporaneamente la recessione economica e getta le basi per la prossima edizione del festival, che nelle intenzioni espresse dal direttore del settimanale, Giovanni De Mauro, durante la cerimonia di chiusura, dovrebbe continuare a svolgersi nella cittadina romagnola.
Il record di presenze è il risultato di un’offerta culturale diversificata e originale abbinata a un’accoglienza davvero calorosa da parte della città: i 115 eventi del festival, suddivisi in tre giorni di programmazione, hanno occupato i cinema, le piazze, le vie e i teatri del centro cittadino: il cinema Boldini, il settecentesco Teatro comunale, restaurato dopo il sisma, il Teatro Apollo, il cortile e le sale interne del Castello medievale, la piazza municipale e i meravigliosi chiostri di San Paolo, la casa dell’architetto Biagio Rossetti, Palazzo Tassoni e il Museo Archeologico Nazionale. L’ingresso era libero e gratuito a tutti gli spettacoli, escluse le proiezioni di documentari. Per gli eventi più attesi i visitatori erano invitati a munirsi di un tagliando un’ora e mezza prima dell’inizio dello spettacolo, per scongiurare il rischio di rimanere fuori.
Uno dei temi più sentiti della manifestazione è stato quello della crisi, presentata però come un’opportunità unica di sviluppo e di crescita alternativa. In questa direzione si è inserito l’invito all’attivista e antropologo statunitense David Groeber, ideatore di uno degli slogan identitari del movimento Occupy Wall Street, “Siamo il 99%”, chiamato a discutere del suo ultimo libro “Debito. I primi 5000 anni” (edito in Italia da Il Saggiatore). In quest’opera l’autore ha concentrato passione attivista e formazione antropologa, indagando sul potere morale della teoria del debito e sui suoi effetti nella sfera personale e sociale. Altro incontro a tema è stato “Non con i miei soldi: da Occupy Wall Street alla finanza etica, il futuro oltre la crisi”, in cui i partecipanti, tra cui Paolo Beni di ARCI, Ugo Biggeri di Banca Popolare Etica, Malcolm Hayday, fondatore di Charity Bank e Shawn Carrié, attivista di Occupy Wall Street, sono stati invitati a discutere sulla portata dei valori e delle azioni realizzate dal movimento Occupy e sul futuro del sistema finanziario.
Si è parlato anche di giornalismo, naturalmente, e del suo futuro ancora da definire nell’affollatissimo incontro “Fermate le rotative!” al Teatro municipale, con gli ospiti Alan Rusbridger, direttore del Guardian, e David Carr, esperto di media e redattore del New York Times. Il dibattito ha cercato di valutare gli effetti e la sostenibilità delle diverse strategie di distribuzione adottate dai due giornali: da un lato, la scelta del quotidiano Guardian di offrire contenuti gratuiti sul suo sito online, mantenendo gli standard di qualità della carta stampata; dall’altro, la strategia freemium del New York Times, che prevede l’accesso gratuito solo ad alcuni dei contenuti web del giornale, mentre per il resto è necessario abbonarsi. L’interesse verso il giornalismo si è espresso anche attraverso la formazione, con l’organizzazione di 9 diversi laboratori, della durata di tre giorni, ognuno dedicato a un modo diverso di raccontare e fare informazione.
Di altissima qualità è stata la rassegna di documentari su attualità, diritti umani e informazione Mondovisioni, organizzata da CineAgenzia e presentata in anteprima nazionale durante il festival. Il filo conduttore degli 8 documentari selezionati è il rischio, “il rischio che si corre continuando a prendere posizione, informare e sfidare norme e poteri”. La rassegna si sposterà poi in varie città italiane fino alla primavera del 2013, iniziando dal Palazzo delle esposizioni di Roma, dal 9 al 14 ottobre.
Durante il festival, sono state allestite inoltre al cinema Apollo tre sessioni di proiezioni mutuate dalla rete TED, acronimo di Technology Entertainment and Design. Si tratta di una selezione di conferenze, lunghe non più di venti minuti, tenute da alcune delle personalità accademiche più famose del mondo, dedicate alle nuove sfide del connubio scienza e tecnologia nella serie Sci-tech fronters, alla riflessione sulla coscienza di sé in Who we are e alle storie straordinarie dei protagonisti di Amazing Stories.
E’ stata ribattezzata “Pubblicità a tradimento” ma c’è da dire che la trovata, per quanto scorretta e probabilmente perseguibile, ha del sensazionale, soprattutto in termini di spettacolarità a suon di concorrenza (anche sleale).
Accade quindi che la tratta più contesa del nostro paese, quella Roma-Milano che le compagnie aree e ferroviarie cercano di propinare ai propri clienti in tutte le salse, scontate e non, diventa teatro di un’astuta campagna di marketing che vede scendere in campo la compagnia aerea tricolore Alitalia: contro i colossi ferroviari FS e NTV.
Volantini in stile settimana enigmistica sono stati infatti recapitati su tutti i treni Roma-Milano (a/r) in partenza e distribuiti da ammalianti hostess in divisa all’interno delle stazioni: “sai qual è la traiettoria più veloce per unire due punti? Roma-Milano, 70 minuti, 99 euro”.
Ed ecco che scatta la concorrenza sleale, condita da un buono sconto del 20%.
“E’ stata una vicenda che ha seguito delle regole non corrette e come tale deve essere trattata” ha commentato la responsabile della comunicazione esterna FS, Daniela Carosio.
“La comunicazione sui nostri treni – prosegue – segue delle regole. Noi abbiamo affidato per gare ad una concessionaria la possibilità di comunicare sui nostri treni con un controllo economico e di messaggio comune a tutte le grandi aziende. E comuni anche ad Alitalia.”
Ntv e Fs stanno dunque mobilitando i loro uffici legali per eventuali provvedimenti da adottare.
Da comuni cittadini, non possiamo far altro che assistere divertiti a queste creative battaglie tra aziende, combattute a colpi di spot, pubblicità, flash mob e volantinaggio.
Una pratica che è perseguita in Italia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sulla base della direttiva 2006/114/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa, ma che all’estero propone campagne pubblicitarie spietate tra competitor.
È il caso della ironica lotta Audi-Bmw-Subaru di qualche anno fa che ha generato un botta e risposta di affissioni e pubblicità su riviste specializzate tale da essere ripresa e analizzato per la dirompente carica concorrenziale che, è risaputo, vige tra i marchi.
A cominciare fu la provocazione lanciata da BMW:
“Congratulazioni all’AUDI per aver vinto il premio per miglior auto del sud Africa dell’anno 2006.
Dal vincitore dell’auto dell’anno 2006”
A questo punto, la casa automobilistica tedesca non ci ha pensato due volte rispondendo a tono con un:
“Congratulazioni alla BMW per aver vinto i premio di miglior auto del 2006. Dal vincitore di 6 gare consecutive delle 24 ore di Le Mans (2000 – 2006).”
Per ultima, entra in scena Subaru che riprende il mood proponendo un:
“Bravi entrambi Audi e BMW per aver vinto dei premi. Dal vincitore del miglior motore internazionale del 2006.”
La concorrenza rende creativi, non c’è che dire e ora che anche in Italia le acque si stanno agitando, non ci rimane che aspettare curiosi le prossime mosse degli avversari.
Negli ultimi tempi succede molto spesso: sfogli il giornale, come ogni mattina, ed improvvisamente, ecco capitarti sotto gli occhi una pagina diversa dalle altre, che non ha la classica impaginazione ma non è una fotografia e o un’immagine che reclamizza un prodotto commerciale. E’ un annuncio pubblicitario, un accorato appello di questo o quell’imprenditore, di questa o quella personalità che, per portare alla ribalta le proprie idee decide di acquistare una pagina intera di un quotidiano allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica su un particolare tema.
E’ successo nel 2011 con Giuliano Melani, che proponeva agli italiani di acquistare il debito pubblico: il 3 novembre usciva infatti sul Corriere della Sera l’appello di questo responsabile di una società di leasing facente parte di una grande banca italiana: “Rechiamoci in banca e compriamo il nostro debito” esortava. “Compriamolo a tasso zero, anziché venderlo come ci vogliono convincere a fare”.
In realtà, l’azione di Melani, stava calcando le gesta di un altro imprenditore, ben più conosciuto, che però, qualche settimana prima aveva compiuto la medesima operazione: anche Diego Della Valle, infatti, patron di casa Tod’s, aveva acquistato il 30 settembre una pagina intera dei maggiori quotidiani nazionali. Anziché piazzarci gli ultimi modelli delle sue calzature, aveva usato però lo spazio per gridare a gran voce un cubitale “Vergognatevi” rivolto ai politici del nostro Paese.
“La classe politica si è allontanata dalla realtà. La crisi economica impone serietà, competenze e reputazione che gli attuali politici non hanno, salvo rare eccezioni”.
E così la moda ha preso piede contaminando anche altri settori: come quello del Made in Italy di cui portavoce si è fatto, già da giugno scorso, l’imprenditore Carlo Chionna, disposto a (s)vestire i panni di diversi personaggi, dal gladiatore a Gesù crocifisso pur di salvare il Made in Italy dai rischi di contraffazione a cui è sottoposto ogni giorno.
E se il 16 giugno Chionna ha vestito i panni del gladiatore pagando le principali testate nazionali con lo slogan “L’Italico. Disposto a tutto pur di salvare il Made in Italy”, l’imprenditore bolognese quest’anno si è visto rifiutare il nuovo claim in cui, vestendo i panni di Gesù si trova sulla croce vestito di stracci e sovrastato dal pay off “Perdona loro perché non sanno quello che indossano”.
Ma di provocazioni a mezzo stampa molte altre ne sono state lanciate: le ultime in ordine temporale sono quelle di Gabriele Centazzo, anch’egli imprenditore a capo di un’azienda di cucine che sperava in un nuovo Rinascimento italiano, patria intorpidita dalla crisi e dell’immobilismo dei governanti, fino alla promessa, apparsa proprio ieri, di Angelo Corigliano, presidente di una multinazionale il quale, venuto a sapere della sua malattia, promette all’Italia e agli italiani di creare almeno 50 posti di lavoro per poter coronare il sogno di veder la sua azienda ( e magari anche il suo paese) prosperare.
Appelli, provocazioni, pubblicità, annunci che un giorno vengono pubblicati a pagamento sulle testate dei quotidiani e il giorno dopo vengono ripresi dagli stessi giornali (e non solo) come fenomeni e notizie da analizzare e da comprendere.