apolloedafnemibactAlcuni giorni fa, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ( MiBACT) Massimo Bray ha presentato ufficialmente la relazione elaborata per il suo rilancio da una commissione di esperti, presieduta da Marco D’Alberti, docente e studioso di Diritto Amministrativo comparato, nonché autore di uno studio dedicato a “Poteri pubblici, mercati, globalizzazione”(2008).

La crisi che ha investito “il modello italiano” dei beni culturali è ammessa e descritta in un capitolo dal titolo eloquente “Gli annosi ritardi funzionali e strutturali del Ministero”, inserito nell’impegnativo e corposo lavoro. Dopo ben quattro riforme, “i problemi che da decenni affliggono l’amministrazione dei beni culturali non hanno ancora trovato adeguata risposta, nonostante i molti i studi e rapporti, pubblicati anche da diversi organi di controllo (quali la Corte dei conti e la Ragioneria Generale dello Stato), che hanno evidenziato le numerose disfunzioni di cui soffre il Ministero. E queste sono le sovrapposizioni di competenze, le troppe linee di comando, la cattiva distribuzione del personale, in una cornice di cronica scarsità di risorse che preclude anche le possibilità d’innovazione”.

Sembra che Massimo Bray voglia invertire la rotta, affidando ancora una volta il rilancio dei beni culturali e del turismo al binomio “cultura e organizzazione giuridica”, anche se non è più l’insieme delle leggi Bottai a sostenerlo. Quest’impostazione in passato, ha avuto il suo elemento vincente nella ricerca e nel restauro, malgrado la cronica scarsità di risorse che ha afflitto il Ministero, sin dalla sua istituzione. La globalizzazione dei rapporti mondiali unitamente alla crisi finanziaria, che costringe a ridurre sempre più le risorse che lo Stato mette a disposizione, potevano essere un’occasione per riconsiderare questa visione, se, con maggiore coraggio, si fosse voluto compiere quel salto di qualità che alcuni settori del mondo della cultura auspicavano.

L’avere posto l’accento sugli aspetti organizzativi ha avuto come conseguenza il lasciar emergere una certa ansia di posizionamento nel dibattito in corso su federalismo, centralismo e conseguenze negative in termini di burocrazia, che ha investito il nostro paese, e che ha indotto gli esperti di Bray ad un’enfasi nel sottolineare la funzione del “centro”, sede dei tradizionali compiti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, individuati quali onore/onere della struttura romana del MiBACT, composta da otto di Direzioni Generali, mentre la periferia del sistema è relegata a un ruolo residuale di gestione economico-amministrativa (le Direzioni Regionali), e soprattutto scientifico (le Soprintendenze), senza controllo su istituti e musei (almeno i maggiori) per i quali è prevista un’autonomia gestionale (orari di apertura e prezzo dei biglietti).

Si comprende che la riforma si gioca ancora una volta sul restyling delle Direzioni Generali compiuto tenendo conto della spending review che ha imposto la loro riduzione, nell’insieme, da 29 a 24, costringendo ad una operazione contabile di sottrazione di posti dirigenziali da una parte e di collocamento altrove, in modo che “il saldo finale” rimanga invariato. Così nonostante si sottolinei la necessità di ridurre le Direzioni Generali (spesso con sovrapposizioni di competenze), è possibile ipotizzare la creazione di una Direzione del Patrimonio e del Paesaggio che assorbirebbe le funzioni svolte dall’attuale direzione per la Valorizzazione, voluta dal governo Berlusconi nel 2009; si suggerisce la creazione di due o forse tre “direzioni centrali” con funzioni “orizzontali”: una Direzione per l’innovazione ed i sistemi informativi, una per il personale, una per il bilancio (con particolare cura- si noti- “a processi contrattuali centralizzati”). Le novità potrebbero essere la Direzione per il Patrimonio Culturale (una DG soltanto, “seppur non unanimemente condivisa” sul modello dell’Ufficio centrale degli anni’90, al posto delle due attuali per recuperare un posto dirigenziale), quella per gli Istituti Culturali (biblioteche, archivi, musei), una sola per lo Spettacolo (accorpando quindi cinema e spettacolo dal vivo), una ovviamente per il Turismo ed infine una di staff del Ministro (che curerebbe anche la pianificazione, proposta che ci fa comprendere il ridimensionamento della figura del Segretario Generale). Ugualmente rivoluzionario, seppur tardivo il connubio –riconosciuto come necessario- con settore del Turismo, anche se in attesa dell’annunciato Decreto Turismo, è presentato al momento, come una sommatoria di criticità.

Quanto sopra è un insieme d’innovazioni che hanno una rilevanza soprattutto all’interno del MiBACT, perché riguardano aspetti organizzativi relativi al proprio personale dirigenziale e non, anche se fondamentali per capire quale sia il reale interlocutore preposto a ogni singolo problema. Ma se si vuole approfondire il rapporto fra il MiBACT e il mondo che gli ruota intorno e che attende di conoscere nuovi progetti e programmi, scorrendo le pagine del documento, si nota l’ assenza di una definizione di cultura, che non sia una mera sommatoria di beni. Lacuna non da poco! Se ci fosse stata, si sarebbe potuto prendere atto che la cultura nell’Occidente globalizzato è un “bene di consumo” e che l’uso delle tecnologie digitali fanno sì che l’Europa (ma non più l’Italia) sia una delle mete preferite del turismo globale e che i settori del Made in Italy che si stanno salvando dalla crisi epocale che ha investito il nostro paese sono quelli, che accettando questa visione, si sono profondamente svecchiati e rinnovati, facendo leva sulla creatività. Il consumo culturale nei paesi più avanzati, sta operando una trasmissione di valori attraverso “attività innovative”, facendo percepire che anche la tutela “sacrosanta” passa attraverso valorizzazione e comunicazione e che la cultura può essere gradevole e garantire degli introiti, senza rimanere impantanati nel pregiudizio che tutte le attività imprenditoriali siano losche o con poca valenza sociale e che solo lo Stato possa garantire la mission di tutela.

Fra le proposte più interessanti, c’è sicuramente quella che suggerisce di assegnare a cooperative di giovani (battezzate un po’ infelicemente “cooperative della conoscenza”!) la gestione di biblioteche , archivi e musei, che, purché non si riduca “more italico” in un carrozzone per assunzioni clientelari nascoste, costituisce un riconoscimento di un mondo che va oltre la gestione esclusivamente pubblica, e che opera per la fruizione e la conoscenza del patrimonio storico artistico.

Da leggere con attenzione anche la parte dedicata alle procedure di assegnazione dei lavori, giacché volta a tutelare una serie d’imprese artigianali che rischiano l’esclusione dal mercato, nel caso di gare con importo “sopra soglia”. Senza dubbio l’esempio della vicina Francia con il “Code des marchés publics” sulla falsariga delle direttive comunitarie, offre un’idea di lodevole chiarezza e forse un modello da perseguire. Quanto all’organizzazione di mostre, la problematica va individuata non tanto nella controversia annosa che contrappone il settore pubblico a quello privato, in merito alla loro ideazione, ma in una corretta programmazione pluriennale, che eviti il proliferare di iniziative inutili, volte a soddisfare ambizioni di amministratori locali, di funzionari o di privati e che inserisca invece l’attività di mostre (che siano comprensibili e apprezzate dal pubblico), nell’offerta turistica di Comuni e Regioni.

La conclusione è che urge una visione che inserisca i temi più scottanti quali il finanziamento, gli organici, la semplificazione delle procedure in un quadro ben più ampio di necessaria riforma della Pubblica Amministrazione – dato che quella italiana è una delle più antiquate d’Europa- da compiere organicamente, anche per rimediare alle opacità, che sono sistematicamente messe in risalto dai media, espressione dell’opinione pubblica. Molti dei problemi lamentati possono essere risolti operando una modernizzazione profonda che utilizzi appieno tutti gli strumenti a disposizione per velocizzare e rendere trasparenti e imparziali le procedure, per approdare a un sistema in cui, i “servizi resi ai cittadini” siano realmente il punto di riferimento, allo scopo di offrire al pubblico un’offerta qualitativamente differenziata, prescindendo dalla difesa di posizioni di lavoro privilegiate.

La commissione riconosce anche che i servizi per il pubblico “ hanno bisogno di una nuova sostenibilità, rispetto ad una domanda profondamente mutata” e necessitano di essere inseriti all’interno di un “progetto di rilancio del sistema dei beni culturali, dei musei , dei complessi archeologici”, con cambiamenti radicali organizzativi delle Soprintendenze, che nel loro insieme –per difficoltà interne- spesso manifestano lentezze nella loro attività”. Forse il rimedio non può essere visto solo in una loro auspicabile maggiore autonomia. Se non viene compiuto un radicale cambiamento di mentalità, che investa tutti i settori del Paese, semplificando una burocrazia che è una sommatoria di funzioni regionali, provinciali, comunali e prerogative dello Stato, non sarà possibile convertirsi all’idea che la cultura è una risorsa importante che non prevede monopoli.

 

 

Anna Maria Reggiani è Direttore Generale Emerito presso Ministero Beni e Attività Culturali