buiobendaSiamo poco più di trenta, uomini e donne. Ci accoglie Ulla, che nel foyer inizia a raccontarci di come l’Espace sia uno dei luoghi in cui è nato il cinema, a fine Ottocento; anche i Lumiere sono passati da qui. Poi ci guida in un veloce training: inspirare ed espirare, ridire, saltellare e fare boccacce.
Ulla Alasjärvi, fondatrice con il compagno Beppe Bergamasco della Compagnia Sperimentale Drammatica, matura ed energica donna finlandese trapiantata da trent’anni in Italia, ci dice che questo spettacolo ha a che fare con il sogno, quindi ci porge una benda nera e ci invita ad indossarla. A coppie gli attori ci accompagnano all’interno della sala e ci fanno sedere. Lo spettacolo inizia.

Se la parola teatro deriva dal greco theatron, che rimanda all’idea della percezione visiva, qui la precedenza è acquisita dall’udito, dal tatto, dal gusto. Lo spettacolo, ma potremmo chiamarla performance partecipata, dura circa un’ora, anche se dopo pochi minuti bendati semplicemente perdiamo il senso del tempo, insieme a quello della prossimità. Sentiamo gli altri abbastanza vicini, ma non sappiamo esattamente in quale punto ci troviamo del grande salone bianco che è l’Espace e allo stesso modo diventa praticamente impossibile stabilire dove sono gli attori.

Questa “perdita dell’orientamento” è la condizione necessaria alla performance.

Una volta seduti, gli attori passano a consegnarci dei sacchetti di riso come antistress, perché questa condizione innaturale può davvero generare una certa ansia. Quindi iniziano ad alternarsi una serie di “sequenze”: brevi letture, dialoghi intimi, brani musicali e rumori che gli attori eseguono a varie distanze e posizioni da noi “spettatori”. In questo stato è piuttosto difficile rimanere concentrati e ammetto che ad un certo punto mi è venuto sonno. Per ridestare l’attenzione e mantenerci “attivi”, gli attori, quattro in totale, ci girano intorno sussurrandoci alcune frasi nell’orecchio, porgendoci un cioccolatino o una mela, sfiorandoci una spalla.

Credo si possa dire che ciascuno ha “visto” uno spettacolo diverso. Certo non dormivamo, ma l’approssimazione al sogno era così forte che le immagini che si susseguivano nella mente di ciascuno erano il frutto della propria personale fantasia, se non proprio del subconscio.

Terminata la performance e lasciatoci il tempo di adeguare gli occhi alla luce, Ulla ha iniziato a chiederci cos’era accaduto: se ricordavamo i dialoghi e chi li aveva pronunciati (uomo o donna), se avevamo riconosciuta la tal melodia, se avevamo mangiato la mela. Le risposte erano vaghe, ci sentivamo tutti un po’ fuori fase. L’obiettivo, ha spiegato Ulla, era esattamente quello di sottrarre al senso della vista il monopolio della creazione di rappresentazioni, ovvero aiutarci a trovare altri appigli per le nostre immagini mentali.

L’idea di questo progetto è nata qualche anno fa, quando la compagnia ha tenuto un ciclo di laboratori a Palermo e si è trovata a lavorare con due persone ipovedenti. Questo limite ha suggerito la strada per una modalità di lavoro teatrale che, a partire da gesti e soluzioni estremamente pratiche, garantisse un’alta resa rappresentativa. Detto altrimenti: quali azioni possono garantire al pubblico una visione senza la necessità della vista?

Il teatro contemporanea, così come la musica colta e l’arte, tende alla continua rimessa in discussione del proprio linguaggio. Ci chiediamo quindi cosa, come, perché rappresentare. La domanda però è lì da sempre e Cartesio la diceva così: sogno o son desto?

 

L’epopea di Banksy a New York è finita. 31 giorni trascorsi nella Grande Mela sono bastati all’anonimo artista di strada per far parlare di sé la stampa internazionale e la gente comune che ne ha seguito l’eroiche gesta da supereroe graffitaro.

Alla fine della sua vicenda americana, quello che resta è la sensazione, spiacevole e rassicurante insieme, che l’arte di strada si conferma un outsider rispetto al senso comune e ai cliché precostituiti. Il rischio corso dallo street artist di Bristol era quello di piegarsi alle leggi di mercato con delle operazioni di marketing plateali, con delle “performance” che poco avessero a che fare con l’arte e con la strada.

E invece no. L’ultimo messaggio di Banksy è stato molto chiaro: un palloncino svolazzante sulla Long Island Expressway che raffigura le lettere bombate della sua firma, e un appello a salvare 5Pointz, un capannone nel Queens le cui pareti sono ricoperte dalle firme creative di straordinari graffitari che rischia di essere demolito per lasciare spazio a un residence di lusso.
Nell’ultima audio guida, posta a commento della sua esibizione del 31 ottobre, Banksy invita a non istituzionalizzare l’arte demandandola a chiese, istituzioni o cartelloni pubblicitari. L’arte vera è quella fatta in strada, libera e anticonformista, l’arte che non serve a decorare ma che semplicemente e con potenza “è”.

 

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New York è una città audace, ma rischia di essere inghiottita anch’essa dal perbenismo e dall’ipocrita buon senso. Banksy aveva già espresso questo parere sulla città che non dorme mai il 27 ottobre, scrivendo un articolo mai pubblicato per il New York Times: il One World Trade Center, il grattacielo in costruzione che sostituisce le Torri Gemelle dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, non è che una dichiarazione della “perdita di nervi” di una città che dovrebbe puntare su ben altro per attestare la propria capacità di ricrescita e la propria coraggiosa natura.

 

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E così, anche dopo il bagno di popolarità newyorchese, Banksy si conferma un personaggio scomodo. Le sue opere sono state cancellate e denigrate, la sua identità è stata ricercata con morbosa curiosità, il suo nome e la sua attività sono diventate per un mese le sorvegliate speciali della polizia di New York. Il sindaco Bloomberg ha definito l’arte di Banksy uno dei tanti modi con cui deturpare delle proprietà private. L’artista mascherato ha eluso, però, tutti gli ostacoli che si sono frapposti al suo traguardo e ne è uscito vincitore.

Oltre a dare una bella lezione di stile e humor a critici bigotti e ortodossi, è riuscito anche nell’intento di prendere in giro il mercato dell’arte. Lo ha fatto prima vendendo originali delle sue opere a Central Park, senza che nessuno ne fosse a conoscenza, poi dando in dono al negozio dell’usato per beneficenza, Housing Works, un suo lavoro che è stato messo all’asta online per più di 600 mila dollari. Si tratta di un quadretto pastorale che l’artista aveva acquistato dal negozio stesso a 50 euro, e che aveva rivisitato inserendovi un soldato nazista che siede pensieroso su una panchina. I soldi ricavati dalla vendita andranno a senzatetto e malati di Aids.

 

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A conclusione di questi 31 giorni di creatività, ironia, originalità, arte, mistero e anticonformismo non possiamo che sperare in una nuova serie di irriverenti performance artistiche ad opera di Banksy o di un suo coraggioso imitatore… chissà dove, chissà quando.

ALFREDO JAAR - RENDERINGDal 1° novembre al 14 gennaio Torino torna a risplendere grazie al consolidato appuntamento “Luci d’Artista”: quella del 2013 è infatti la sedicesima edizione di una rassegna che ha regalato alla città della Mole emozioni straordinarie.
Vie, piazze, spazi comuni si trasformano ogni autunno in un magnifico museo a cielo aperto, dove non si potrà fare a meno di passeggiare con il naso all’insù. Le installazioni luminose che costelleranno Torino continuano così a stupire cittadini e visitatori, dimostrando come l’arte può diventare molto più che un semplice elemento di arredo urbano, ma un vero e proprio richiamo.

Stai passeggiando per le strade di New York, la città in cui tutto – ma davvero tutto – accade e può accadere. Ti trovi a Times Square, detta anche l’ombelico del mondo, quando d’un tratto il flash di una macchina fotografica ti cattura. Ti giri di scatto, giusto in tempo per vedere una figura angelica librarsi in volo, in una posa plastica. No, non si tratta di una visione mistica di fantozziana memoria, ma di un set fotografico vero e proprio, quello di Dancers Among Us” di Jordan Matter.

 

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Per tre anni questo fotografo statunitense ha immortalato ballerini, “congelati” in pose meravigliose, non dentro una sala da ballo o una palestra, ma nelle strade, nelle piazze, nei luoghi pubblici, sotto gli occhi ammirati della gente comune. Sono immagini fresche, gioiose, che esprimono la magia della dinamica e del movimento, l’eleganza e la bellezza delle forme del corpo umano. Tutto è cominciato con degli scatti per Jeffrey Smith, un ballerino della Paul Taylor Dance Company al quale Jordan ha confessato il suo progetto di fotografare danzatori in luoghi comuni, di raccontare storie attraverso i loro passi di danza e le loro movenze. Jeffrey è riuscito a coinvolgere altri dieci membri del suo corpo di ballo, i primi protagonisti di quello che è diventato un progetto durato quasi tre anni.

 

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Elemento fondamentale di questo lavoro è lo scenario, all’inizio costituito principalmente dalle strade di New York. Le foto di “Dancers Among Us” sono tutte naturali, e la posa che il fotografo coglie è reale, non è il frutto di modifiche apportate con programmi grafici. Jordan gira per la città alla ricerca della location adatta a far emergere in maniera più potente la natura dell’artista che posa per lui. Al ballerino è richiesta solo molta pazienza. Si tratta di un processo creativo che ha i suoi tempi e che artista e fotografo devono compiere assieme. L’ultimo anno Jordan ha cominciato a girare anche per altre città americane, come Philadelphia, Washington o Santa Monica. Prima di recarvisi, twittava e postava su Facebook la sua prossima destinazione, chiamando a raccolta i ballerini interessati. E le risposte alla sua chiamata sono state numerose, tanto che i soggetti immortalati arrivano a più di 200.

 

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Da questa incredibile esperienza, portata avanti con pazienza e tenacia, è nato un libro, dal titolo omonimo al progetto, “Dancers Among Us”, che ha raccolto gli scatti migliori dei tre anni vissuti dal fotografo accanto ai suoi ballerini. L’ostacolo più difficile per Jordan è stato fare una cernita delle foto create, e dover così escludere alcuni danzatori dal suo progetto.
Il volume pubblicato è divenuto in pochissimo tempo New York Times Bestseller e ha ottenuto l’Oprah Magazine Best Book 2012 e il Barnes & Nobles Best Book 2012. Il segreto del suo successo, a detta di critici e lettori, sta nel suscitare in chiunque guardi quelle immagini un sorriso, un lampo di meraviglia, un pensiero positivo, un sospiro felice. Jordan Matter ha raggiunto il suo scopo, insomma: quello di far rivivere a tutti lo stupore divertito che prova un bambino davanti alle cose semplici e belle, lo stesso stupore che dimostra di avere suo figlio quando, giocando con una macchinina, immagina storie e avventure grandiose

 

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La vicenda di Jordan Matter non finisce qui, però. Dalla prima esperienza con i ballerini è nato il sequel Athletes Among Us, che si concentra stavolta sulla potente fisicità degli sportivi, degli atleti, anche loro immersi in contesti ordinari. D’altra parte neanche “Dancers Among Us” è giunto al suo ultimo capitolo. Anzi, quei tre anni girando per l’America sono stati solo un inizio, e adesso il progetto vuole piroettare verso altri lidi, verso altri continenti, verso nuovi scenari.

 

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Dancers Among Us goes around the USA in Ninety Seconds from Jordan Matter on Vimeo.

“Tutte le opere realizzate all’interno, in studio, non saranno mai tanto belle quanto quelle realizzate all’esterno”. Con questa frase di Paul Cézanne si presenta il progetto Better Out Than In dell’ormai celeberrimo Banksy. Questo misterioso street artist di cui non si conosce l’identità sta invadendo per un mese la città di New York, trasformandola ogni giorno in una sorta di parco giochi artistico, di scatola delle sorprese, di scenario per una caccia al tesoro gigantesca alla scoperta della sua ultima trovata geniale.

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Inutile speculare sulla sua identità. Banksy potrebbe essere un uomo, una donna, un gruppo di artisti, un clochard, un ricco sfondato, un comune borghese, un’entità mistica e ineffabile. Di sicuro è l’eroe mascherato dell’arte contemporanea che prende in giro i potenti e il sistema comune, punisce i prepotenti, difende i deboli e gli emarginati, ruba ai ricchi per dare ai poveri. Il segno che lascia a firma inconfondibile del suo passaggio non è un taglio a forma di Z, né un paio di ali da pipistrello. Ma un’immagine, in genere uno stencil bicromo dal soggetto caustico, sovversivo, ironico, assolutamente accattivante. C’è il ragazzo che lancia fiori come fossero fumogeni, Topolino che cammina a braccetto con l’omino della Mac Donald e un bambino smagrito del Terzo Mondo, un ratto impegnato nelle attività più svariate. Sono queste alcune delle sue creazioni più famose e apprezzate.

 

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A New York, però, Banksy si sta davvero sbizzarrendo. Non solo stencil, ma anche performance, strane installazioni, apparizioni originali, corredate da altrettanto strambe audio guide, reperibili sul sito ufficiale il giorno dopo, o attraverso codici per gli smartphone incisi sui muri accanto. E così è comparso un camion pieno di animali di pezza urlanti, che si aggira per le strade dove hanno sede i mattatoi della città, come forma di protesta contro l’industria della carne.

 

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C’è un palloncino a forma di cuore, ricoperto da cerotti che, come spiega una voce deformata dall’elio, è la rappresentazione dell’animo umano che lotta tra ferite e raffiche di vento. Non mancano, poi, le scritte dal profondo substrato filosofico, ad esempio: “Ho una teoria secondo cui puoi far sembrare profonda qualsiasi frase semplicemente scrivendo il nome di un filosofo morto alla fine. Platone”. È stato avvistato anche un camion che dall’esterno sembra stia per esalare l’ultimo rombo soffocato di motore, ma che all’interno nasconde un giardino mobile da sogno.

 

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Una delle sue ultime invenzioni, però, quella che risale a sabato 12 ottobre, è stata davvero madornale. Un giorno come un altro, in quel di Central Park, un signore attempato, dall’aria comune e banale, si è messo a vendere stampe delle opere di Banksy a 60 dollari, contrattabili. Il suo incasso della giornata è stato di circa 420 dollari. Solo tre persone hanno acquistato: un giovane uomo che ha comprato 4 pezzi per arredare casa a 240 dollari, una donna neozelandese che ne ha voluti due, e una signora che ha optato per due quadretti di piccole dimensioni per i figli, alla metà del prezzo di vendita. Fin qui nulla da stupirsi, niente di strano o scioccante. Se non che, ieri, sul sito ufficiale del progetto newyorchese, Banksy ha dichiarato che le opere vendute erano originali, con tanto di firma e autentica. Tre milionari, quindi, contro le centinaia di persone che sono passate ieri davanti alla innocua bancarella allestita per 4 ore. State fermi sulle sedie, però, niente precipitosi acquisti di voli per New York nella speranza di diventare milionari al prezzo di 60 dollari (più spese). Banksy ha precisato, anche, che la fortunata svendita è stata solo per un giorno e non si ripeterà più… Forse.

 

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emanuelgatEmanuel Gat ha inaugurato con The Goldlandbergs, ispirato al mondo sonoro di Glenn Gould, la sezione ‘danza’ del Roma Europa Festival.

Il coreografo israeliano ha disegnato il delicato intreccio delle relazioni umane inserendole nel mondo sonoro del grande perfezionista del pianoforte, Glenn Gould, e del suo documentario sonoro, The quiet in the land, del 1977, in cui viene ritratto un gruppo religioso mennonita che vive isolato sulle sponde del Fiume Rosso, a Manitoba nel nord del Canada, e che tenta di confrontarsi con le inevitabili pressioni a cui il mondo contemporaneo lo sottopone.
Alcuni estratti di questo lavoro, brani musicali, voci, Janis Joplin, una cerimonia religiosa, si intersecano agli estratti delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, eseguite dallo stesso Gould, costituendo il tal modo un tappeto sonoro, polifonico e contrappuntistico, dei movimenti e degli intrecci dei ballerini. Non una danza univoca, ma diversi punti di fuga, un moltiplicarsi di suoni e di direzioni come la molteplicità delle vita e dei rapporti umani. Ciò che vuole raffigurare Gat è l’intimità che lega persone diverse e le relazioni diverse tra di loro.

Gat lavora da 4-5 anni con gli stessi danzatori, fatto che si riflette nel loro affiatamento e che costituisce una scelta ben precisa “basata su incontri personali. Loro trovano interessante il mio lavoro e io trovo interessante il modo in cui lavorano. Un periodo lungo di lavoro insieme ci consente di fare un lungo percorso e quindi di osare ancora di più”.

La danza di Gat è spirituale e minimalista, nella sua capacità di sintesi, fluidità, armonia dei gesti, frutto del ripetersi quasi all’infinito di movimenti collaudati, azzeramento di ogni scenografia, assenza dei costumi, se non l’indispensabile, sensibile agli stati d’animo, al mutare dell’ambiente, delle sue luci e ombre, a volte i movimenti si librano nel silenzio, senza musica.

Imperdibile, all’interno del ciclo Appena Fatto!, in collaborazione con Rai Radio3, l’incontro dell’artista, in questo caso Emanuel Gat, con il pubblico del Romaeuropa Festival, al termine dello spettacolo. Un’occasione per comprendere la genesi di un lavoro e le pulsioni artistiche che lo hanno mosso.

Durante l’intervista Gat ha raccontato come: “Dopo aver creato una coreografia su sole voci e senza pianoforte su The quiet in the land mi sono accorto che quel documentario e le Variazioni Goldberg avevano la stessa durata: 52 minuti. Allora, per provocare un po’ i miei danzatori, ho chiesto loro di creare una nuova coreografia sulle Variazioni Goldberg. Abbiamo quindi sovrapposto le due pieces e il risultato è The Goldlandbergs, titolo che comprende la musica e le parole”. Non sempre, infatti, nello spettacolo la continuità è garantita, ma probabilmente anche questo rientra nelle intenzioni di Gat. Il coreografo tende a: “una sonorità che diventa visiva e una coreografia che diventa sonora. Cerco di sviluppare un working in progress, la coreografia di stasera sicuramente sarà diversa dalle prossime volte”.

A proposito dei suoi studi musicali Gat precisa: “Il mio lavoro ricorda quello musicale ma la coreografia ricorda la natura musicale. Musica e movimento in uno spazio e tempo preciso. La coreografia è fatta come una partitura musicale, secondo un meccanismo che mette i danzatori in relazione come in una partitura”.
Attraverso le sue dichiarazioni si comprende il perché in alcuni momenti dello spettacolo i ballerini danzano nelle zone d’ombra del palcoscenico: “Ho creato strutture indipendenti: luci, sonoro e danza. Nessuna traduce o illustra l’altra. Nessuna asserve ad un’altra forma artistica. Le tre strutture fluttuano liberamente. Abbiamo lavorato in uno studio con grandi finestre e luci pessime, con effetti di luce particolari, in evoluzione e continuo cambiamento (come le nuvole etc.). Quindi ho deciso di presentare questo lavoro in questo modo”.
Riguardo le sue modalità di lavoro Gat racconta: “Di solito non dico cosa fare, propongo ambienti, pensieri e guardo come i danzatori reagiscono all’ambiente e ai pensieri che ho proposto, da questo nasce la coreografia. Mi piace la possibilità di riproporre il processo creativo ma non il risultato finale. Quindi ballerini diversi daranno risultati diversi.”

Al coreografo israeliano piace tornare negli stessi luoghi per presentare i suoi spettacoli: “Mi sento a disagio a proporre al pubblico un solo spettacolo, voglio proporre il processo del mio lavoro. E’ la quarta volta che torno al Roma Europa Festival, così il pubblico avrà un’idea più variegata e più completa del mio lavoro”.
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Basta dare un rapido sguardo alla storia dell’arte degli ultimi cento anni per rendersi conto che una delle principali peculiarità di quella che viene comunemente definita come “arte contemporanea” è la sua forte apertura nei confronti di altre discipline artistiche, come la danza, il cinema e il teatro. Si tratta di una trasformazione di linguaggio notevole, perché per la prima volta l’arte non viene più rappresentata con figure dipinte su una tela o sculture, ma anche attraverso altri strumenti e forme di comunicazione: le performances, gli happenings, i video sono solo alcuni dei nuovi mezzi utilizzati dagli artisti per veicolare messaggi, spiegare il mondo in cui viviamo e dare una chiave di lettura per il futuro.

Tra i tanti campi culturali che hanno arricchito il linguaggio dell’arte contemporanea vi è, senza dubbio, la musica. Era il 29 agosto del 1952 quando a Woodstock, nello stato di New York, venne eseguita per la prima volta in pubblico la controversa opera 4’33” di John Cage, geniale compositore e innovatore del secolo scorso. Si trattava di un brano musicale… Senza musica! La composizione, divisa in tre movimenti, era stata concepita dal suo creatore per essere suonata con qualsiasi strumento musicale e da qualunque gruppo musicale, ma sullo spartito veniva data l’indicazione di non suonare per l’intera durata del brano, ovvero i 4 minuti e 33 secondi evidenziati dal titolo.
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È una delle prime volte in cui la musica viene assunta a protagonista di una performance che ha tutti i connotati dell’opera artistica. Il pensiero di John Cage a riguardo era molto poetico: è impossibile raggiungere una situazione di silenzio assoluto, perché saremo sempre catturati da qualche pallido suono, sia esso anche il nostro respiro, il battito del nostro cuore o il rumore dei nostri passi. Ecco, dunque, che quei semplici rumori diventano le ignare note di un brano impossibile da replicare nella sua straordinaria unicità.

Dalla metà del secolo scorso in poi, la musica è entrata in maniera prepotente nel mondo dell’arte contemporanea, ma negli ultimi anni questa forma di “collaborazione” sta assumendo un volto completamente nuovo, grazie soprattutto al ruolo inedito che le viene dato da alcuni dei più importanti musei del mondo. Gli esempi che si possono fare in questo senso sono tanti: il 7 marzo 2008 il leggendario musicista inglese Mike Oldfield (famoso per classici come Tubular Bells e Moonlight Shadow) si è esibito all’interno del Guggenheim di Bilbao, presentando in anteprima, insieme a coro e orchestra, quello che finora è l’ultimo album della sua carriera, “Music of the Spheres”.
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Nel 2012, invece, il Museum of Modern Art di New York ha organizzato una retrospettiva dedicata interamente alla band tedesca dei Kraftwerk, geniali e storici pionieri della musica elettronica moderna, nonché lucidi anticipatori delle principali tendenze socio – economiche e culturali che hanno interessato il mondo dagli anni ’70 a oggi. La retrospettiva è stata spalmata nell’arco di otto giorni, ognuno dedicato a uno degli otto studio albums pubblicati finora. Il risultato? Una straordinaria commistione di musica di alta qualità e scenografie video tridimensionali. Un successo eccezionale, considerando che le otto serate sono andate “sold out” in poco tempo.
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E forse non tutti sanno che il 2 agosto di quest’anno lo stesso MOMA ha ospitato una performance molto coinvolgente del noto rapper americano Jay Z, che ha cantato per sei ore di fila il suo brano Picasso Baby davanti a un pubblico selezionato, con alcuni fortunati che hanno avuto la possibilità di interagire con lui, ballando o seguendo la performance seduti su una panchina a poca distanza dal cantante. Tra gli ospiti d’eccezione, anche la regina indiscussa della performance art, Marina Abramovic, ideatrice di questa opera corale e musa ispiratrice di un’altra famosissima artista quale Lady Gaga, che già nel 2010 aveva partecipato alla performance “The Artist is Present” (sempre al MOMA di New York), sedendosi per qualche minuto davanti alla performer e innescando una silenziosa comunicazione basata esclusivamente sul linguaggio espressivo degli sguardi e sulle emozioni.
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Gli esempi di fusione tra le due galassie della musica e dell’arte contemporanea sono tanti e di certo non ne mancheranno altri in futuro. La strada per la nascita di una vera e propria “Music Performance Art” ormai è segnata e pare che sia anche molto apprezzata dal pubblico, a giudicare dal successo ottenuto dalle performances indicate in precedenza. C’è chi potrebbe obiettare che queste siano delle mere operazioni di marketing per richiamare pubblico all’interno dei musei, ma se anche fosse così, cosa ci sarebbe di male? Oltretutto, stiamo parlando di strutture (MOMA e Guggenheim) che non sembrano affatto essere in crisi di pubblico, anzi… Più che altro, utilizzare la musica e i suoi principali protagonisti può aiutare a coinvolgere e attirare una fetta di visitatori giovani, con l’indubbio vantaggio di avvicinarli anche alla stessa arte contemporanea. E scusate se è poco…

 

Le sommosse in Turchia non sembrano placarsi: Piazza Taksim continua ad essere palcoscenico degli scontri tra manifestanti e polizia, in un clima rovente che attanaglia il Paese ormai da settimane, senza accennare ad una soluzione.

Come spesso accade in queste situazioni, gli artisti e i creativi colgono l’occasione per contribuire alla causa dei diritti attraverso il loro talento. Ecco allora che anche ad Istanbul e Ankara i messaggi di protesta vengono affidati a graffiti e murales, così come accadde durante la primavera araba, e nascono così simboli di una ribellione che lascerà il segno, speriamo positivamente.

Tra questi i “pinguini”, apparsi su molti muri turchi, a rappresentare la vigliaccheria dei media nazionali, che invece di dar visibilità alla principale manifestazione organizzata in piazza, hanno trasmesso un documentario su questi esemplari.
Vicino ai pinguini campeggia il volto di Erdogan mascherato da joker e frasi slogan che ricordano l’utilizzo di gas contro la popolazione manifestante.

 

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C’è chi invece ha voluto esprimere il proprio dissenso nei confronti del governo turco attraverso la musica di un pianoforte. Per di più si tratta di un artista italiano: lui è Davide Martello e al centro di Piazza Taksim ha intonato con il suo piano brani dei Beatles, sciogliendo per qualche minuto le tensioni tra cittadini e forze armate.
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Anche l’artista turca Sukran Moral, da sempre attiva a favore dei diritti umani, ha voluto prestare la propria arte alla cause della rivolta, inscenando una performance nel Gezi Park. La donna, avvolta in candidi drappi di lino, si è inflitta dei tagli sul ventre con una lametta, lasciando scorrere sul suo corpo rivoli di sangue, a rappresentazione delle vittime della protesta.

 

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La scorsa notte è stata invece la volta della performance del coreografo Erdem Gunduz, il quale per cinque ore e mezza è rimasto immobile in piedi nella piazza gremita, proprio dinnanzi al ritratto dell’eroe nazionale Ataturk. La sua forma pacifica di protesta è stata pian piano abbracciata da molti dei manifestanti presenti, che hanno compreso la forza del gesto: l’immobilismo per un coreografo è infatti un ossimoro. In vari luoghi della città altre persone hanno seguito l’esempio di Gunduz, che ha avuto grande risalto anche sul Web, tanto che l’hashtag #duranadam (uomo in piedi) è divenuto in pochi minuti un trend mondiale. Il ballerino turco è stato trattenuto dalla polizia ma, una volta rilasciato, ha rilanciato l’appuntamento dell’Uomo in Piedi alle ore 20,00  di ogni giorno.
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Stime non ufficiali parlano infatti di circa 600 feriti, più o meno gravi, e tra loro spicca l’immagine di un’altra donna, la studentessa Ceyda Sungur che, con il suo vestito rosso, è stata colpita dal gas urticante lanciato dalla polizia, opponendo una pacifica resistenza.

 

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Anche Gezi Park, dove tutto ha avuto inizio, è stato occupato dai manifestanti che lo hanno trasformato in un luogo di incontro e scambio di idee. Qui ha preso vita un albero, creato con il fil di ferro e intitolato “Gezi Speaks”, dove chiunque può lasciare dei messaggi e affidare pensieri, proprio a testimonianza di un forte bisogno di democrazia e libertà di espressione.

 

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Probabilmente Ulisse avrebbe avuto meno probabilità di noi, oggi, di incontrare una sirena. L’antica figura mitologica, che attraverso il peregrinare delle immagini nella cultura letteraria e iconografica occidentale si è trasformata dalla sirena-arpia alla più nota e rassicurante creatura marina metà donna e metà pesce, la ritroviamo non solo nei libri di fiabe e nei sogni dei più piccoli, ma negli acquari, ai festival cinematografici, nelle aree marine protette e nei villaggi turistici.

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E nel web, naturalmente, dove prolifera una autentica subcultura dedicata alle sirene che produce fotografie, video e performance e si incontra su un social network dedicato al “mermaiding”, sia maschile che femminile, il MerNetwork.
Le “sirene professionali” oggi sono donne che hanno inventato un lavoro dal nulla e girano il mondo per incantare, divertire e anche sensibilizzare altri esseri umani ancora “terrestri” alla tutela degli Oceani.
Una delle più famose e attive è Hannah Fraser, modella e fotografa australiana che vive a Los Angeles. Ha creato la sua prima coda in plastica arancione all’età di nove anni e da allora non ha mai smesso di esercitarsi e perfezionarsi nel mermaiding: oggi può nuotare ad una profondità di 15 metri e trattenere il respiro in apnea fino a due minuti, senza alcuna attrezzatura per immersioni, muovendosi in totale naturalezza nell’ambiente acquatico. Le sue performance mostrano uno stile unico che unisce la sinuosità dei movimenti, la ricchezza dei costumi – sfavillanti code da pesce da lei stessa studiate e realizzate per ottenere effetti estetici incantevoli e massima libertà esecutiva– alla ricerca espressiva per trasmettere emozioni.

Ha nuotato con balene, delfini, squali, razze , leoni marini, tartarughe e molte altre creature del mare e si definisce fieramente una “attivista oceanica”. Una parte dei profitti del suo lavoro vengono devoluti per la conservazione degli oceani, ma soprattutto si è impegnata in prima persona partecipando a conferenze, progetti fotografici, documentari e vere e proprie attività di denuncia per la tutela dei grandi mammiferi marini.

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Nel 2007 insieme a musicisti, attivisti e surfisti, tra cui il marito Dave Rastovich, Hannah ha nuotato nel mare del Giappone per la realizzazione del documentario di Louie Psihoyos “The Cove – La baia dove muoiono i delfini”, che denuncia il massacro durante la caccia annuale che si svolge nel parco di Taiji, film censurato in Giappone e vincitore del Premio Oscar 2010 per il miglior documentario. “Uno dei messaggi più importanti che dovremmo lanciare in questo momento per la  conservazione dei mari è la denuncia della pesca eccessiva” – afferma Hannah. “Dovremmo chiedere ai paesi di regolamentare meglio le industrie della pesca”.
Con il fotografo Ted Grambeau ha realizzato le immagini per il libro per bambini “The Surfer and the Mermaid”, nuotando con le balene megattere al largo delle Isole Vava’u, a Tonga, nell’Oceano Pacifico. Oltre alla dolcezza e il fascino della compagnia dei grandi mammiferi marini, Hannah ha voluto provare anche un’esperienza con gli squali bianchi, con i quali ha nuotato al largo dell’isola di Guadalupe, in Messico, senza alcuna protezione o gabbia di sicurezza.

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Più che il sogno disneyano della sirena che diventa principessa, sembra che alla base della sua passione ci sia un sentimento di profonda connessione con la natura e la straordinaria varietà dell’ambiente marino.  “L’oceano è il luogo di nascita della vita sulla Terra – afferma Hannah – e se posso essere un legame visivo per ispirare gli altri esseri umani, ormai scollegati da questo fantastico mondo, sento di aver fatto qualcosa di utile”.

Cosa ci fa una celebrity sotto vetro?

Se lo saranno chiesto i tanti che, durante il vernissage della 55. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, hanno scorto la bellissima modella e attrice Milla Jovovich all’interno di una teca al centro del giardino di Palazzo Malipiero Barnabò. 

La top model, inizialmente in sottoveste e bigodini, ha trascorso il suo tempo ordinando on line, dagli irrinunciabili pc e smartphone, capi di abbigliamento, opere d’arte e oggetti di svariato genere, sotto gli occhi di giornalisti e pubblico. Gli acquisti le sono stati recapitati presso il salottino racchiuso nel plexiglass, fino a riempirne completamente lo spazio a disposizione.

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La performance, intitolata “Future Perfect”, porta la firma dell’artista e a sua volta attrice Tara Subkoff, sponsorizzata da Marella. 

L’idea che ne è alla base è quella di mostrare l’“ultimate consumer”, così come l’autrice lo ha definito, che ormai si affida al canale virtuale, senza uscire dalle mura domestiche e intessere relazioni umane dirette, per fare le proprie compere.
L’esibizione, della durata di sei ore, è stata inoltre un’occasione per mostrare le opere di altri artisti contemporanei come Yoko Ono, Jeff Koons, Richard Phillips, tra gli oggetti recapitati a Milla, insieme ad una intelligente campagna del noto marchio di abbigliamento italiano, che della modella ucraina ha fatto la sua testimonial.
“Future Perfect” è partito alle 14,00 di oggi, 28 maggio, e proseguirà fino alle 20,00 di stasera; il tutto sarà visibile anche in live streaming attraverso il canale dedicato.
Non è la prima volta che personaggi dello star system si pongono al servizio dell’arte: recentemente Tilda Swinton, volto prestato dal cinema, ha posato dormiente al Moma di New York destando, come prevedibile, grande interesse del pubblico.

Tara Subkoff ha scelto per la sua opera una vetrina e una performer certamente d’eccezione: al vernissage di una delle Biennali d’arte più seguite al mondo, una top model che si mette a nudo, nel vero senso della parola, non può di certo passare inosservata.

Immaginate di svegliarvi la mattina, fare colazione, vestirvi per andare al lavoro e recarvi alla solita fermata del tram, del bus o della metro. Una routine che si ripete quotidianamente con le stesse azioni cui spesso non facciamo neanche caso, sin quando un giorno l’arte irrompe nella nostra grigia mattinata. È accaduto in Germania dove l’artista Milo Moiré ha organizzato la performance “The Script System” per le strade cittadine: una modella completamente nuda, con scritti sulla pelle i nomi degli indumenti da indossare, si è confusa tra i viaggiatori dei mezzi pubblici a Düsseldorf. Una perfomance artistica molto particolare e provocatoria che tuttavia non sembra aver lasciato sbigottiti o interdetti i passanti.
Lo stesso percorso e gli stessi gesti compiuti ogni mattina per andare al lavoro, sono stati riproposti da Moiré senza portare vestiti addosso, nella condizione che ci rende più vulnerabili e fragili per affermare invece la piena autonomia dell’arte e la forza della nostra nudità all’interno della società.

 

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Protagonista è l’arte concettuale della contrapposizione e dell’eccentricità, che richiama l’attenzione sul paradosso per combatte gli stereotipi, a tratti in maniera divertente, soprattutto per quanto attiene le reazioni suscitate tra il pubblico inconsapevole che sembra rimanere del tutto indifferente a questa forte provocazione.
Nel video diretto da Peter Palm è riportato tutto l’evento dalla fermata del tram sino all’uscita della metropolitana. Non è la prima volta che la nudità del corpo umano diviene protagonista dell’arte: lo scorso febbraio, in occasione dell’inaugurazione della mostra “Naked Man”, gli stessi visitatori sono entrati senza vestiti nelle sale del museo Leopold di Vienna.
Forse ormai l’immagine del corpo umano senza veli è stata ormai talmente tanto usata ed abusata, non solo nel campo artistico, ma anche in quello pubblicitario, da non suscitare più alcuna reazione o disapprovazione?

 

 

 

L’8 maggio munitevi di tante buone idee, creatività, senso artistico e …di un lenzuolo. Sì, avete capito bene: un lenzuolo. Sarà la tela bianca attraverso cui comunicare al mondo i vostri pensieri, sotto forma d’arte.

L’appuntamento è alle 17,30 sul Ponte della Musica a Roma, sopra la struttura pedonale e ciclabile in acciaio e cemento armato, che sormonta il quartiere Flaminio della Capitale dal 31 maggio 2011, data della sua inaugurazione.

Foto di Mario Proto

A dare appuntamento è Y.E.A – Young Explorer Agency, agenzia romana di coworking, che punta non solo alla condivisione di spazi tra giovani impegnati nella cultura, ma anche nello scambio delle loro professionalità. Tale soggetto è l’ideatore di questa iniziativa che si presenta come performance artistica collettiva, avente una valenza sociale.

Il progetto si chiama infatti L.A.N.D – L’Arte Non Dorme e, come si evince dal nome, intende rappresentare un’occasione per cittadini e artisti di far sentire la propria voce, sebbene in maniera insolita.
I partecipanti dovranno infatti esprimere le loro riflessioni colorando i già citati lenzuoli bianchi. Il progetto si basa infatti sul concetto del ready made, consistente nel ripensamento e ricontestualizzazione di oggetti d’uso quotidiano che, se avulsi dal loro normale impiego, possono tramutarsi in strumenti importanti di arte e comunicazione.

I temi su cui si è invitati a pronunciarsi sono tre:

la trasformazione dello spazio urbano;

idee, speranze e strumenti per il rinnovamento della società;

Italia 250. Dove ti vedi?

In questo modo l’evento vuole attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica, restituendo la voce a coloro che vivono per primi la città e che intendono lavorare insieme per migliorare la qualità della loro vita e degli spazi urbani abitati.
Tutti i partecipanti a L.A.N.D esporranno infatti i loro lenzuoli sorreggendoli in prima persona, dal Ponte della Musica e per tutta la lunghezza di Via Guido Reni, la strada che conduce al Museo MAXXI, accompagnati da esibizioni, flash mob e spettacoli musicali e teatrali, offerti da associazioni e gruppi coinvolti.

 

Trattandosi di una manifestazione collettiva, tutti sono infatti invitati. Per partecipare basta scrivere a info@yea-contest.it specificando il nome del gruppo, il numero dei componenti e il tema scelto. Per curiosare nel “dietro le quinte” dell’evento è possibile invece visitare la pagina facebook di YEA-contest, dove non mancheranno foto e testimonianze dei preparativi per LAND.

 

È originario di Mexico City, Gabriel Dawe, ma grazie alla sua arte che comprende scultura ed istallazioni ha girato il mondo intero, partendo dagli Stati Uniti per toccare Belgio, Canada e Gran Bretagna. Le sue opere colorate, sono composte da fasci di luce che si intersecano tra loro, creando forme geometriche variegate e dalle mille sfaccettature. Ecco qualche istallazione tratta dalle sue mostre in giro per il mondo.

Con l’arrivo delle feste, che sia il Natale, la Pasqua o il Thanks Giving day, si moltiplicano le iniziative degli animalisti che manifestano da anni contro l’uccisione degli animali che finiscono ad imbandire le tavole di pranzi e cene, non solo durante le note festività. Proteste, manifestazioni e interventi, spesso forti e scioccanti, vengono inscenati nelle piazze di tutto il mondo: sono in aumento infatti i membri di associazioni per i dirritti animali che professano il vegetarianismo e il rispetto delle bestie, definendoli esseri senzienti, esattamente come noi. L’ultima performance d’impatto è stata organizzata a Barcellona.

 

Per promuovere e diffondere l’iniziativa del “Day without meat”, la giornata senza la carne che si è tenuta il 20 marzo scorso attivisti del gruppo “Animal Equality” si sono fatti letteralmente imballare in confezioni di polistirolo adibite alla vendita dei prodotti alimentari. Immobili ed inermi, simulando così la morte di bovini, equini, ovini destinati alla grande distribuzione e al commercio.

 

 

Non solo: gli attivisti si sono ricoperti completamente di sangue finto, per far trasparire così anche il modo cruento con cui spesso vengono macellati. L’obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica, incoraggiando sempre più la cultura dell’alimentazione vegetariana, nel rispetto del mondo animale. Forse le immagini sono un po’ forti, ma sicuramente trasmettono il messaggio in modo diretto ed efficace. Per adesso in Italia iniziative così provocatorie non sono ancora state messe in opera od organizzate, ma sino a quanto l’intero mondo non sarà divenuto vegetariano, difficilmente i gruppi animalisti desisteranno dal loro intento

 

 

Foto: Getty Images

 

 

 

 

Lo aveva già fatto nel 1995, ed ora Tilda Swinton torna protagonista di un’opera d’arte al Moma di New York. L’attrice inglese ha posato, mentre dorme supina ed immobile all’interno di un cubo trasparente, sotto l’occhio incuriosito del pubblico.

 

 

 

 

 

 

 

 

La performance riprende il celebre film di Andy Warhol “Sleep” del 1963, in cui l’artista veniva ripreso dormiente per cinque ore e venti minuti, pellicola definita dallo stesso regista John Giorno come antifilm.

 

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Ecco le immagini scattate dal fotografo John Morrow che ritraggono Tilda in “The Maybe” organizzato dal direttore del Moma Klaus Biesenbach.

La Grande Mela è un reticolo di strade dove spicca il giallo dei taxi più famosi del mondo: migliaia di persone ogni giorno salgono e scendono dai cab con i loro impegni, le loro storie e le tante vite. Gli autisti ne avranno perciò di cose da raccontare e, uno di loro, Daniel J. Wilson, ha deciso di raccogliere le voci dei suoi passeggeri in un collage di registrazioni audio-video: conversazioni telefoniche di ogni genere, gente che fa conoscenza nei sedili posteriori del taxi, chi parla tra sé durante il viaggio, tutti però senza curarsi della presenza di Daniel al volante.

La performance, intitolata “9Y40”, è stata poi riproposta a bordo del taxi alle orecchie dei nuovi passeggeri, durante le corse gratuite offerte in occasione della Armory Arts Week. Le reazioni sono state divertite e si è preso coscienza di un modo di fare ormai consueto.

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Le registrazioni sono avvenute all’insaputa dei protagonisti, tanto che l’artista-tassista ha chiesto il supporto di un legale per realizzare la sua performance; la critica ha comunque accolto con entusiasmo la trovata che, del resto, vede un giovane di 35 anni, evidentemente amante del suo lavoro, condividere attraverso l’arte le sue esperienze quotidiane alla guida del taxi. Nel sito dedicato al progetto, Daniel J. Wilson ha infatti raccolto anche degli scatti fotografici che ripercorrono le fasi attraverso cui ha acquisito la licenza necessaria per la sua attività: una sorta di diario che cala lo spettatore il questo spaccato urbano.

I taxi sono al centro di un’altra iniziativa, stavolta nostrana, chiamata appunto “Taxi Gallery”. Nato a Roma, questo progetto di arte condivisa punta su tali mezzi di trasporto pubblico per condividere l’arte: il taxi diventa sede espositiva itinerante, mezzo attraverso cui proporre le opere al di fuori dei circuiti istituzionali, andando incontro alla gente. Accade così che artisti desiderosi di farsi conoscere e tassisti che intendono offrire ai propri clienti qualcosa di più di un semplice passaggio, si trovino in questa iniziativa, che risulta sinergica e positiva per tutti. 

Nel circuito di Taxi Gallery espongono artisti di vario genere come Alessandro Ciccarelli, Flavia Dodi, Andrea Angeletti, Barbara Palomba e altri, e spesso il progetto funge da lancio per i creativi che poi espongono all’interno di altre rassegne. Taxi Gallery ha poi utilizzato la sua “visibilità” per dar risalto anche a campagne di sensibilizzazione su temi come la violenza sulle donne, cui ha dedicato speciali esposizioni.

Se dunque prendendo un taxi notate la presenza di opere d’arte, fotografie o creazioni di altro genere, sorprendetevi pure…siete a bordo della Taxi Gallery.

 

Avete mai desiderato di prendere parte ad un’opera d’arte? Se avete intenzione di recarvi nei pressi di Torino, il prossimo 21.12 alle ore 12.21, potrete cogliere questa opportunità. Grazie ad un’idea dell’artista Michelangelo Pistoletto, 50.000 mila persone creeranno un cordone umano che congiungerà Piazza Castello a Torino sino alla Val di Susa, percorrendo l’antico sentiero della via Francigena. Tutti i partecipanti prenderanno parte al progetto dopo essersi registrati nel sito e al fine di raggiungere il luogo scelto per l’appuntamento dovranno servirsi di mezzi poco inquinanti. Il Sentiero Umano di Solidarietà Artistica e Ambientale (S.U.S.A.) che si verrà a creare, prenderà vita proprio nel giorno in cui i Maya hanno stabilito la fine del mondo: per esorcizzare questa credenza l’evento è stato ribattezzato Rebirth day, una giornata in cui ognuno dei partecipanti si prefigge di riconoscere l’importanza della natura spesso messa al margine e bistratta, insieme al suo legame con la città stessa. Riconoscendo, dunque, il valore di luoghi e sentieri millenari, i partecipanti nell’arco dei tre minuti in cui si terranno per mano, avranno modo di riaffermare la propria identità riscoprendo il nesso con la propria terra. Un modo quindi per interpretare la tanto declamata fine del mondo, come una possibilità di rinascita e di ritorno alle origini in cui uomo e natura convivevano nel rispetto reciproco.

Il progetto collettivo verrà inoltre preceduto, durante la giornata del 21 dicembre, da diverse iniziative culturali e di formazione ambientale:

– alle 10 i lavori si apriranno presso Palazzo Madama con la conferenza “Arte, cervello e relazioni sociali”

– alle ore 12, 45 si terrà un concerto del maestro Ezio Bosso presso il Palazzo Reale

– nel pomeriggio seguiranno una maratona di lettura presso il Circolo dei Lettori ed una di tetro sociale presso il Castello di Rivoli

– in serata infine ci sarà un concerto nella chiesa di Sant’Ambrogio

 

Tutte le iniziative, il programma completo e le modalità di partecipazione sono presenti nel sito.

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Imitationofdeath: è questo il titolo della mia prima esperienza con Ricci/Forte, all’interno del festival di RomaEuropa che unisce teatro, danza e musica per due mesi, appuntamento d’obbligo per gli amanti del palcoscenico.
I nomi di Ricci/Forte risuonano oramai da quasi dieci anni negli ambienti teatrali, il loro è definito teatro-performance e spesso descritto come “una vera avanguardia” o associato a parole come crudo, aspro, trasgressivo.
All’arrivo al Teatro Vascello la prima cosa che colpisce è il pubblico, diviso in due macro-categorie: gli amanti di Ricci/Forte che vociferano sul fatto che visti loro si faccia fatica a vedere altro e che attribuisce loro il titolo assoluto di veri innovatori, di potenziali “salvatori” del teatro in Italia, e i curiosi, che sono al primo incontro con loro e non sanno che aspettarsi, con venature di scetticismo qua e là. Il pubblico ha un’età media di una trentina d’anni, diversi hipster, tanti stranieri.
Quello che si coglie è un ambiente vivo, un po’ totalizzante perché il pubblico è numerosissimo e fin dall’inizio ogni angolo del teatro è occupato, dalla cassa, al bistrot del teatro dove tutti ordinano bicchieri di vino e raffinati stuzzichini.
E’ anche diffuso un certo orgoglio di status tra il pubblico, una certa fierezza dello stare per assistere per la prima o la centesima volta a qualcosa che si deve universalmente riconoscere come innovativo, sensazione a tratti indisponente per chi crede nella potenza del teatro come collante sociale, come strumento di diffusione della cultura, di conoscenza della storia, come collettore di individualità eterogenee.
Si entra con gli attori già in scena, il palco privo di quinte, a nudo anche lui, con i vestiti e le bottigliette d’acqua e gli oggetti personali dei performer ai lati, dietro scalei, vestiti accartocciati, macchine teatrali a riposo.
Le prime parole tratte dal Vangelo e poi invece corpi che cominciano ad agitarsi, battute che fanno eco, ritmo serratissimo, pezzi di vita dei performer che emergono e che si alternano tra parti recitate e parti improvvisate.
E’ lo stomaco dello spettatore l’interlocutore, non sono gli occhi; lo spettacolo è un porgere il vissuto dei performer, dei loro corpi, del loro passato e della relazione viscerale che si può creare tra di essi nella costruzione di un lavoro come questo.
Emerge una loro esperienza totalizzante; a volte si mescolano tra il pubblico, fanno domande a cui però rispondono loro stessi.
Tutte le battute sono una confessione intima del singolo attore; la scena in cui gli attori indossano la maschera dichiarando ognuno prima di indossarla chi è il suo supereroe, e poi il levarsi i vestiti e il muoversi perfettamente sincronizzati a coppie con i corpi nudi in relazione costante crea un evidente effetto irrigidimento del corpo degli spettatori.
Si assiste ad un susseguirsi di ascolto delle emozioni dei performer, la “provocazione”, se così vogliamo chiamarla, consiste nella resa pubblica di un’intimità che determinate esperienze di laboratorio finalizzato ad una performance fanno sorgere; alla perfezione della tecnica fisica che il corpo deve raggiungere nell’”atto spettacolo” quando gli è richiesto di uscire dall’ordinario, si aggiunge la messa in comune con gli altri del proprio vissuto, della propria fragilità, come se “il prodotto finale” avesse valore catartico per chi lo realizza.
La musica, i microfoni a stelo dove i performer a turno si recano a parlare fanno da grande amplificatore allo spettacolo, così come il titolo dell’oramai imprescindibile inglese, l’alternarsi dell’italiano e del francese a seconda della nazionalità dei performer, perchè il disagio, la debolezza, l’ansia e la paura hanno carattere decisamente universale e in almeno un momento ognuno di noi non può esimersi dal ritrovare se stesso in qualche immagine che gli è trasmessa davanti, in qualche domanda esistenziale posta; è uno scontro frontale con i tabù non solo sociali, ma anche di ognuno con se stesso.
Il senso che rimane addosso uscendo è quello di curiosità dell’evoluzione, quando questo spettacolo avrà alle spalle numerose repliche, per capire come si trasformerà la relazione del gruppo, a che livello di profondità arriveranno le domande esistenziali a cui la nostra mente non trova una risposta definitiva, ma solo legata alla contingenza dell’esperienza individuale, e per capire se gli elementi che bloccano, spiazzano gli spettatori e che fanno affiancare la parola trasgressione alle performance firmate Ricci/Forte potranno cambiare.

Guarda il video

 

 

 

E’ stata ribattezzata la “Vomit Painter” e capirete facilmente il perché. Se infatti l’arte contemporanea si traduce spesso in trasgressione ed esibizionismo allo stato puro, Millie Brown è di certo una delle figure più rappresentative in questo panorama.
Forse la sua opera vi risulterà familiare se avete già visto il video di Lady Gaga “Exorcist Interlude” dove la perfomer rigurgita del latte colorato di azzurro sul candido vestito della cantautrice statunitense.

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Ad ogni modo, il “procedimento” adottato da Millie Brown per le sue opere consiste nel bere una enorme quantità di latte colorato per poi vomitarlo accuratamente ad intervalli regolari. “Non è una cosa indolore – ci tiene a precisare l’artista – ma dopo varie volte che questa procedura viene ripetuta, l’operazione diventa normale e la sofferenza scompare quasi del tutto”.

 

Dapprima abituata a rigurgitare su abiti bianchi che utilizzava come supporto (il video di Lady Gaga ne è la prova), la Brown ha però da poco convenuto che, per dare una maggiore longevità alle sue opere, le tele si rivelavano essere la scelta migliore.

A conti fatti, dunque, la sua arte risulta essere il prodotto di una duplice combinazione d’effetto: la performance del rigurgito su tela prima, a cui si aggiunge spesso un accompagnamento musicale, e il quadro concluso poi che, nel caso di “Nexus Vomitus”, (sua ultima creazione) viene stimato oltre 2.400 dollari.

 

 

 

 

 

Durante l’estate bolognese la protagonista assoluta sarà la creatività di alcuni degli street artist più famosi al mondo. È partito il 19 giugno e terminerà il prossimo 5 agosto il progetto Frontier- la linea dello stile, che prevede la realizzazione di diversi cantieri urbani in giro per le strade della città, all’interno dei quali artisti e writers disegneranno le mura di alcuni edifici popolari. Un modo per riqualificare i numerosi muti grigi e spogli delle strutture cittadine, trasformate in vere e proprie tele per le opere dei disegnatori. Nel mezzo dell’esecuzione dei lavori, la redazione di Tafter ha rintracciato ad intervistato Fabiola Naldi, curatrice e responsabile del progetto.

Frontier rappresenta un modo innovativo per migliorare alcuni aspetti del contesto urbano. Quando e in che modo è nata l’idea del progetto?

Il progetto è il risultato della lunga storia di Bologna nell’ambito delle discipline della street art e del writing, dal 1977 ad oggi. Questa infatti è stata la prima città italiana a comprendere l’impatto generazionale culturale e la forza del writing su tutta la scena artistica. Il titolo del progetto, che in realtà è un’autentica mostra di strada in quanto contesto naturale dove si sono sviluppate queste discipline, prende spunto da una mostra che si è tenuta ne 1984 presso la Galleria civica d’arte moderna  (l’attuale Mambo) dedicata alla curatrice Francesca Alinovi. È proprio su questa base storica che parte l’idea del progetto: tredici artisti internazionali, ognuno con le proprie caratteristiche e diversità stilistiche, realizzeranno le proprie opere su tredici facciate selezionate di edifici popolari, tutti risalenti agli anni’ 30 e tutti a ridosso delle cinta murarie della città, dove la periferia confluisce nel centro.

Contestualizzare la street art e servirsene per valorizzare la città ha trasformato il concetto di questa tecnica. Possiamo affermare che questa arte ormai rientra appieno nelle forme stilistiche legittime e non più sovversive?

Premesso che gli artisti non hanno bisogno di legittimazione, dal momento che questa l’hanno ottenuta attraverso le grandi opere che hanno realizzato, l’utilità dei curatori consiste nel rivestire il ruolo da intermediari per superare il fraintendimento di fondo nei confronti delle discipline. Quella che per molti è stata definita una sottocultura, in realtà è una cultura vera e propria, molto democratica e libera con un suo substrato illegale. La crescita naturale degli interventi artistici deve continuare pertanto ad essere determinato dalla strada e dal dialogo tra gli artisti: un percorso che va in parallelo rispetto a quello istituzionalizzato dai curatori. Nei cantieri cerchiamo di spiegare ai passanti cosa si sta realizzando perché il dovere del critico è aiutare il pubblico alla comprensione delle due discipline. La zona inoltre non è stata scelta a caso: pensare di intervenire su determinate facciate che non sono mai state ristrutturate non è una semplice operazione di arredo urbano, ma porta un plus valore alle facciate e ai supporti che ospitano le opere.

Quali sono state le azioni di supporto da parte degli enti locali?

L’Assessorato alla cultura ci ha finanziato con 20 mila euro. Si tratta di soldi del bilancio comunale destinati a progetti culturali. Il restante invece è stato stanziato da sponsor privati.

Il progetto si concluderà il 13 gennaio prossimo con un convegno presso il Mambo- Museo d’arte contemporanea di Bologna. Ci può anticipare qualcosa sulle modalità dell’evoluzione del progetto e se nel futuro questo esperimento sarà ripetuto anche in altre città italiane?

I cantieri chiuderanno il prossimo 5 agosto, mentre il progetto nel suo insieme si concluderà con il convegno ospitato dal Mambo: questa sarà la sede in cui ragioneremo e ci confronteremo con un pubblico variegato, dal momento che l’evento sarà aperto a tutti e culminerà con una pubblicazione di un libro in italiano e in inglese, che mira a fornire della letteratura in più riguardo questa disciplina. In genere infatti i cataloghi sono ricchi di apparati iconografici ma carenti di sezioni scritte esplicative.
In Italia progetti simili a Frontier sono già in essere in altre città, come Torino, Modena e Grottaglie, sebbene in questi casi manchi la presenza di un curatore. È auspicabile che queste città portino avanti queste iniziative, lavorando con delle basi scientifiche e creando connessioni tra di loro. Non si tratta di stabilire un unico coordinamento esterno, perché le discipline non possono essere controllate, bensì creare rete il più possibile e mantenere il confronto e il dialogo costante.