Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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“La cultura è una scelta che resta da fare” afferma Giorgio Napolitano durante il discorso di chiusura della 1° edizione degli Stati Generali della Cultura ed è così che il direttore del gruppo Il Sole 24 Ore, Roberto Napoletano – artefice del “Manifesto della Cultura” – esordisce alla 2° edizione degli Stati Generali. Obiettivo dell’evento è creare un proficuo momento di dibattito sulle attività, strategie e azioni in materia culturale e sottolineare l’urgenza dell’adozione di misure legislativo-economiche capaci di porre la cultura al centro dell’agenda politica del nostro Paese. Il tutto nell’ottica dell’applicazione concreta del precetto dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”
Molti sono gli interventi illustri per presentare lo status quo del sistema culturale e le possibili soluzioni partendo proprio dai cinque pilastri costitutivi del “Manifesto della Cultura”: costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione tra Ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito, complementarietà pubblico-privata, sgravi fiscali.
Le proposte non si fanno attendere a lungo e ad aprire le fila è Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma. Il suo intervento, dai tratti volutamente provocatori, riscuote ampio favore e prospetta soluzioni che richiedono l’intervento fattivo del Governo: modifica della Carta Costituzionale, ritenuta obsoleta rispetto alle reali esigenze del Paese soprattutto per ciò che concerne il ruolo dei privati a supporto della cultura; gestione privata di tutti quei luoghi culturali attualmente inaccessibili per creare occupazione, economia e sviluppo; intervento della normativa fiscale a favore del mecenatismo e delle sponsorizzazioni culturali capace di garantire la totale detraibilità degli importi a sostegno delle attività culturali; centralità della cultura nella manovra economica.
Il carattere economico della cultura è il fulcro del ragionamento di Marco Magnani – Senior Research Fellow Kennedy School of Economics-Harvard University, Presidente Intercultura / A.F.S. – che cerca di rispondere alla domanda “Esiste una relazione fra cultura ed economia?”. Ovviamente sì. La cultura crea un impatto sulla crescita economica grazie all’indotto che ne deriva (si pensi ad esempio al binomio turismo-cultura e cultura-tecnologia, alla nascita di nuove professioni nel settore culturale, etc.), ma deve essere considerata nella sua accezione materiale, contenutistica e patrimoniale, se si vuole attivare il “moltiplicatore”. Secondo Magnani la cultura ingloba in sé diversi ambiti e deve essere considerata nel suo insieme per funzionare correttamente giacché è fondata sulle qualità del capitale umano, costituito dalla conoscenza implicita ed esplicita alla base della formazione del vantaggio economico. Da sola, però, la cultura non può sostenersi visto che i ricavi non riescono a coprire i costi e, pertanto, sono necessari degli investimenti, siano essi pubblici o privati, e una sua corretta gestione. Solo così si possono avere dei ritorni elevati e può scattare il “moltiplicatore”.
A rafforzare la tesi della cattiva gestione delle risorse di Magnani, è l’intervento di Giuseppe De Rita – Presidente Censis – che evidenzia il problema nella volontà della classe dirigente di mantenere i propri privilegi provocando l’impoverimento della cultura e la sua banalizzazione. Ma allora come si potrebbe risolvere la questione? Attraverso la creazione di un Masterplan per l’industria culturale a medio-lungo termine? La soluzione è di far adattare la politica culturale al territorio attraverso una crescita orizzontale delle risorse. “Solo il territorio ridà alla cultura il rapporto con la dimensione orizzontale della comunità che le sta intorno”, afferma De Rita, e sostiene che è necessario essere consapevoli dello stato reale delle cose inglobando nel masterplan il “buco nero del Mezzogiorno” e l’attuale assenza della dimensione privata.
Anche l’intervento di Patrizio Bertelli – AM Gruppo Prada – evidenzia una deficienza nel sistema culturale italiano incapace allo stato attuale di creare risorse e sostiene che “la cultura non si potrà sviluppare se il nostro Paese non prende atto che si deve investire in questi settori.”
L’intervento della Senatrice a vita Elena Cattaneo – Docente e Direttore del centro di Ricerca sulle cellule staminali Unistem Università di Milano – sposta l’attenzione sulla “ricerca scientifica e tecnica” e sulle problematiche che gli scienziati devono quotidianamente affrontare sia per i continui tagli al settore sia per l’inadeguatezza della normativa in materia. Il suo discorso sottolinea come la realtà scientifica attuale sia solcata da paradossi e come, nonostante le avversità, l’Italia sia all’avanguardia nella sperimentazione scientifica a livello mondiale. La scienza viene paragonata a un grande e desolato deserto dove gli studiosi si trovano da soli di fronte all’ignoto. Ma in questo deserto si può e si deve entrare purché si abbia un’idea e il coraggio d’intraprendere per primi strade mai solcate, visto che quando i risultati arrivano si toccano le vette più alte. Le sue parole sono permeate dall’amore profondo per la sua professione, dall’orgoglio di essere una studiosa italiana e da un’inguaribile ottimismo quando afferma “la scienza può portare lontano e bisogna esserne consapevoli ogni volta che non si investe nello studio.”
Un ottimismo che condivide insieme con Giorgio Squinzi – Presidente Confindustria – proprio in occasione della XI Giornata della Ricerca e dell’Innovazione. L’accento posto all’esigenza di investimenti per la ricerca assume un carattere ancora più significativo per il Presidente, il quale dichiara “dobbiamo ritrovare le nostre potenzialità di crescita e dobbiamo credere nella ricerca e nell’eventualità di giocare un ruolo fondamentale nel mondo. Dobbiamo crederci e fare delle scelte.”
Una ventata di ottimismo e di cambiamento arriva direttamente dalle parole del premier Enrico Letta: “Con il Decreto Valore Cultura si è creata un’inversione di tendenza: rimettere la cultura al centro dell’attenzione perché, capovolgendo le parole di un mio collega, con la cultura si mangia.” Ascoltando il Presidente del Consiglio Enrico Letta si ha la sensazione che il Governo abbia compreso realmente il valore insito e le potenzialità della cultura nella crescita e competitività del nostro Paese, soprattutto quando espone i quattro punti chiave dell’agenda politica. In primis, sull’onda del successo riscosso dalla partecipazione di ben venti città italiane alla nomina di Capitale Europea della Cultura, il Governo intende istituire annualmente la Capitale Italiana della Cultura con l’obiettivo di valorizzare le realtà territoriali del nostro Paese, di creare un fermento creativo e progettuale stimolando sia l’intervento pubblico sia gli investimenti privati e di dare un nuovo impulso al turismo di qualità. Obiettivo di Letta è di avere la prima Capitale già nel 2014, inaugurando l’iniziativa il 27 maggio, data simbolo per ricordare l’attentato agli Uffizi del 1993 da un lato e, dall’altro, aprire una nuova era della politica culturale.
Secondo punto chiave è il credito d’imposta sulla ricerca che il premier dice di “voler estendere non solo al cinema e alla ricerca ma a tutta la cultura” e prosegue affermando che i tagli derivanti dalla spending review non “finiranno nel calderone”, giacché saranno ripartiti su tre obiettivi principali: riduzione delle tasse sul lavoro, finanziamenti specifici in ambito produttivo – come la cultura, la ricerca e l’educazione – e riduzione del deficit e del debito.
Sul tema degli investimenti pubblici in materia culturale il primo ministro pone grande accento dichiarando che è necessario “migliorare i finanziamenti culturali” perché la cultura, l’educazione e la ricerca sono stati oggetto “di tagli lineari”.
Ultimo punto chiave dell’intervento di Letta è l’Expo del 2015 dove “la cultura avrà un ruolo fondamentale” visto e considerato che “l’Italia per cinque mesi avrà la possibilità di mostrare tutte le sue eccellenze”.
Da qui parte la proposta per il futuro di Benito Benedini, Presidente del Gruppo 24 Ore: “l’Expo è Italia e ci si augura che la si visiti seguendo le piste della cultura. Allora perché non si individuano venti opere capaci di rappresentare l’Italia e magari inviarle nei Paesi che parteciperanno all’Expo?” Un’idea lungimirante in grado di rifondare e riformulare l’identità nazionale su principi culturali condivisi capaci, però, di inglobare le molteplici vie tracciate sulla strada della conoscenza che fanno parte del nostro DNA culturale. Un DNA che è ben rappresentato nella sua dicotomia dall’art. 9 della Costituzione dove per cultura non si intende solo l’aspetto materiale ma anche quello immateriale, ossia un sottofondo di conoscenza tecnico-scientifica, di ricerca, di creatività e di innovazione impalpabili che vanno di pari passo con le rivoluzioni artistiche e del sapere. Un “patrimonio” a volte ingombrante da dover gestire che urge risposte e una riorganizzazione fattiva affinché la cultura non resti “una scelta da fare”, ma “la scelta da fare” per apportare una ventata di cambiamento a un sistema antiquato e zoppicante.
Come afferma Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma – “la cultura per me è l’energia pulita di questo Paese e dal PIL dovremmo passare al PIC, Prodotto Interno Culturale. Noi possiamo farcela. L’Italia ha i mezzi per farlo.”
Ce lo auguriamo.
Alcuni giorni fa, il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ( MiBACT) Massimo Bray ha presentato ufficialmente la relazione elaborata per il suo rilancio da una commissione di esperti, presieduta da Marco D’Alberti, docente e studioso di Diritto Amministrativo comparato, nonché autore di uno studio dedicato a “Poteri pubblici, mercati, globalizzazione”(2008).
La crisi che ha investito “il modello italiano” dei beni culturali è ammessa e descritta in un capitolo dal titolo eloquente “Gli annosi ritardi funzionali e strutturali del Ministero”, inserito nell’impegnativo e corposo lavoro. Dopo ben quattro riforme, “i problemi che da decenni affliggono l’amministrazione dei beni culturali non hanno ancora trovato adeguata risposta, nonostante i molti i studi e rapporti, pubblicati anche da diversi organi di controllo (quali la Corte dei conti e la Ragioneria Generale dello Stato), che hanno evidenziato le numerose disfunzioni di cui soffre il Ministero. E queste sono le sovrapposizioni di competenze, le troppe linee di comando, la cattiva distribuzione del personale, in una cornice di cronica scarsità di risorse che preclude anche le possibilità d’innovazione”.
Sembra che Massimo Bray voglia invertire la rotta, affidando ancora una volta il rilancio dei beni culturali e del turismo al binomio “cultura e organizzazione giuridica”, anche se non è più l’insieme delle leggi Bottai a sostenerlo. Quest’impostazione in passato, ha avuto il suo elemento vincente nella ricerca e nel restauro, malgrado la cronica scarsità di risorse che ha afflitto il Ministero, sin dalla sua istituzione. La globalizzazione dei rapporti mondiali unitamente alla crisi finanziaria, che costringe a ridurre sempre più le risorse che lo Stato mette a disposizione, potevano essere un’occasione per riconsiderare questa visione, se, con maggiore coraggio, si fosse voluto compiere quel salto di qualità che alcuni settori del mondo della cultura auspicavano.
L’avere posto l’accento sugli aspetti organizzativi ha avuto come conseguenza il lasciar emergere una certa ansia di posizionamento nel dibattito in corso su federalismo, centralismo e conseguenze negative in termini di burocrazia, che ha investito il nostro paese, e che ha indotto gli esperti di Bray ad un’enfasi nel sottolineare la funzione del “centro”, sede dei tradizionali compiti di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo, individuati quali onore/onere della struttura romana del MiBACT, composta da otto di Direzioni Generali, mentre la periferia del sistema è relegata a un ruolo residuale di gestione economico-amministrativa (le Direzioni Regionali), e soprattutto scientifico (le Soprintendenze), senza controllo su istituti e musei (almeno i maggiori) per i quali è prevista un’autonomia gestionale (orari di apertura e prezzo dei biglietti).
Si comprende che la riforma si gioca ancora una volta sul restyling delle Direzioni Generali compiuto tenendo conto della spending review che ha imposto la loro riduzione, nell’insieme, da 29 a 24, costringendo ad una operazione contabile di sottrazione di posti dirigenziali da una parte e di collocamento altrove, in modo che “il saldo finale” rimanga invariato. Così nonostante si sottolinei la necessità di ridurre le Direzioni Generali (spesso con sovrapposizioni di competenze), è possibile ipotizzare la creazione di una Direzione del Patrimonio e del Paesaggio che assorbirebbe le funzioni svolte dall’attuale direzione per la Valorizzazione, voluta dal governo Berlusconi nel 2009; si suggerisce la creazione di due o forse tre “direzioni centrali” con funzioni “orizzontali”: una Direzione per l’innovazione ed i sistemi informativi, una per il personale, una per il bilancio (con particolare cura- si noti- “a processi contrattuali centralizzati”). Le novità potrebbero essere la Direzione per il Patrimonio Culturale (una DG soltanto, “seppur non unanimemente condivisa” sul modello dell’Ufficio centrale degli anni’90, al posto delle due attuali per recuperare un posto dirigenziale), quella per gli Istituti Culturali (biblioteche, archivi, musei), una sola per lo Spettacolo (accorpando quindi cinema e spettacolo dal vivo), una ovviamente per il Turismo ed infine una di staff del Ministro (che curerebbe anche la pianificazione, proposta che ci fa comprendere il ridimensionamento della figura del Segretario Generale). Ugualmente rivoluzionario, seppur tardivo il connubio –riconosciuto come necessario- con settore del Turismo, anche se in attesa dell’annunciato Decreto Turismo, è presentato al momento, come una sommatoria di criticità.
Quanto sopra è un insieme d’innovazioni che hanno una rilevanza soprattutto all’interno del MiBACT, perché riguardano aspetti organizzativi relativi al proprio personale dirigenziale e non, anche se fondamentali per capire quale sia il reale interlocutore preposto a ogni singolo problema. Ma se si vuole approfondire il rapporto fra il MiBACT e il mondo che gli ruota intorno e che attende di conoscere nuovi progetti e programmi, scorrendo le pagine del documento, si nota l’ assenza di una definizione di cultura, che non sia una mera sommatoria di beni. Lacuna non da poco! Se ci fosse stata, si sarebbe potuto prendere atto che la cultura nell’Occidente globalizzato è un “bene di consumo” e che l’uso delle tecnologie digitali fanno sì che l’Europa (ma non più l’Italia) sia una delle mete preferite del turismo globale e che i settori del Made in Italy che si stanno salvando dalla crisi epocale che ha investito il nostro paese sono quelli, che accettando questa visione, si sono profondamente svecchiati e rinnovati, facendo leva sulla creatività. Il consumo culturale nei paesi più avanzati, sta operando una trasmissione di valori attraverso “attività innovative”, facendo percepire che anche la tutela “sacrosanta” passa attraverso valorizzazione e comunicazione e che la cultura può essere gradevole e garantire degli introiti, senza rimanere impantanati nel pregiudizio che tutte le attività imprenditoriali siano losche o con poca valenza sociale e che solo lo Stato possa garantire la mission di tutela.
Fra le proposte più interessanti, c’è sicuramente quella che suggerisce di assegnare a cooperative di giovani (battezzate un po’ infelicemente “cooperative della conoscenza”!) la gestione di biblioteche , archivi e musei, che, purché non si riduca “more italico” in un carrozzone per assunzioni clientelari nascoste, costituisce un riconoscimento di un mondo che va oltre la gestione esclusivamente pubblica, e che opera per la fruizione e la conoscenza del patrimonio storico artistico.
Da leggere con attenzione anche la parte dedicata alle procedure di assegnazione dei lavori, giacché volta a tutelare una serie d’imprese artigianali che rischiano l’esclusione dal mercato, nel caso di gare con importo “sopra soglia”. Senza dubbio l’esempio della vicina Francia con il “Code des marchés publics” sulla falsariga delle direttive comunitarie, offre un’idea di lodevole chiarezza e forse un modello da perseguire. Quanto all’organizzazione di mostre, la problematica va individuata non tanto nella controversia annosa che contrappone il settore pubblico a quello privato, in merito alla loro ideazione, ma in una corretta programmazione pluriennale, che eviti il proliferare di iniziative inutili, volte a soddisfare ambizioni di amministratori locali, di funzionari o di privati e che inserisca invece l’attività di mostre (che siano comprensibili e apprezzate dal pubblico), nell’offerta turistica di Comuni e Regioni.
La conclusione è che urge una visione che inserisca i temi più scottanti quali il finanziamento, gli organici, la semplificazione delle procedure in un quadro ben più ampio di necessaria riforma della Pubblica Amministrazione – dato che quella italiana è una delle più antiquate d’Europa- da compiere organicamente, anche per rimediare alle opacità, che sono sistematicamente messe in risalto dai media, espressione dell’opinione pubblica. Molti dei problemi lamentati possono essere risolti operando una modernizzazione profonda che utilizzi appieno tutti gli strumenti a disposizione per velocizzare e rendere trasparenti e imparziali le procedure, per approdare a un sistema in cui, i “servizi resi ai cittadini” siano realmente il punto di riferimento, allo scopo di offrire al pubblico un’offerta qualitativamente differenziata, prescindendo dalla difesa di posizioni di lavoro privilegiate.
La commissione riconosce anche che i servizi per il pubblico “ hanno bisogno di una nuova sostenibilità, rispetto ad una domanda profondamente mutata” e necessitano di essere inseriti all’interno di un “progetto di rilancio del sistema dei beni culturali, dei musei , dei complessi archeologici”, con cambiamenti radicali organizzativi delle Soprintendenze, che nel loro insieme –per difficoltà interne- spesso manifestano lentezze nella loro attività”. Forse il rimedio non può essere visto solo in una loro auspicabile maggiore autonomia. Se non viene compiuto un radicale cambiamento di mentalità, che investa tutti i settori del Paese, semplificando una burocrazia che è una sommatoria di funzioni regionali, provinciali, comunali e prerogative dello Stato, non sarà possibile convertirsi all’idea che la cultura è una risorsa importante che non prevede monopoli.
Anna Maria Reggiani è Direttore Generale Emerito presso Ministero Beni e Attività Culturali
Discontinuità: è la parola chiave per comprendere l’andamento e l’esito finale delle elezioni per il comune di Roma, nel giugno del 2013. Il risultato ha parlato chiaro. Discontinuità, nei confronti degli anni disastrosi della giunta Alemanno, non votato neanche dagli elettori di centrodestra. Discontinuità, anche verso le ultime esperienze delle giunte di centrosinistra che, pur avendo non avendo fatto male in molti ambiti, sono indissolubilmente legate a una fase storica ormai definitivamente trascorsa.
La candidatura di Ignazio Marino ha rappresentato proprio questo: discontinuità. Un outsider lontano dalle diatribe interne al PD, interno a una cultura di sinistra e disponibile a occuparsi di questioni cruciali della vita cittadina anche schierandosi contro poteri fortemente consolidati.
Sulle politiche culturali, in particolare, il tema della discontinuità ha assunto una rilevanza significativa. Nei fatti, non solo la giunta Alemanno è stata messa duramente sotto accusa, ma lo sono state anche le politiche nazionali dei governi di centrodestra e delle larghe intese che proprio sulla cultura si sono abbattute con una veemenza degna di altre cause.
Roma è stata la città che ha pagato il prezzo più alto di queste scelte. Ma è stata una città che ha reagito, ha tentato di resistere e si è organizzata combattendo questa deriva che tutti sanno poter comportare dei costi altissimi per la partecipazione critica dei cittadini e per la vita democratica.
Oggi vediamo che la stessa forte spinta dal basso che ha portato all’elezione di questa maggioranza al Comune di Roma, si stia tramutando comprensibilmente in una forte pressione in termini di aspettative di cambiamento. A questa pressione se ne aggiungono altre: le difficoltà economiche e finanziarie della crisi attuale; gli attacchi e le polemiche di chi pensava di “contare di più” in una logica vecchia che la giunta attuale non vuole condividere e, naturalmente, le bordate mediatiche di chi è stato abituato a fare sempre il bello e il cattivo tempo nella città. Insomma: c’è di che preoccuparsi e non dormire sonni tranquilli.
La nomina di Flavia Barca alla guida dell’assessorato alla cultura, per molti aspetti ha rappresentato uno degli esiti della spinta alla discontinuità. Sarebbe sbagliato definirla “un tecnico”, nonostante la sua serietà e le sue competenze. Piuttosto si tratta di una “indipendente” saldamente ancorata all’interno di una cultura politica di sinistra con una rete qualificata di contatti nel mondo degli studi e della ricerca, in Italia e all’estero.
Dopo un periodo di assestamento, l’assessore Barca si è impegnata in un’agenda fittissima di incontri con gli operatori del settore. Ora arriva il momento dei segnali concreti anticipati da dichiarazioni di intenti chiari e forti.
Barca vuole cambiare metodi di governo nella cultura a Roma: bandi e concorsi per le nomine e trasparenza nella gestione. Tra non molto sarà la volta della sovrintendenza e la vedremo alla prova.
Vuole valorizzare il patrimonio archeologico e museale. Per questo sembra voglia allargare il campo agli investitori stranieri e privati. Cosa buona solo se la governance pubblica mantiene chiara la definizione di quei beni che sono e devono rimanere comuni e non essere privatizzati. Men che mai svenduti per usi privati, spesso impropri. Servono ai cittadini romani, italiani e di tutto il mondo. Appartengono a loro.
Ha dichiarato di voler implementare le politiche di decentramento coinvolgendo i Municipi e utilizzando il sistema delle biblioteche pubbliche come presidi culturali sui territori. E per questo ha voluto ridisporre dei fondi che Alemanno aveva fatto tagliare.
Si dichiara interessata a valorizzare i talenti sul territorio romano.
Infine, e non in ultima istanza, come ha recente dichiarato a un quotidiano, vuole occuparsi della domanda di cultura devastata in qualità e quantità negli ultimi vent’anni.
Grandi ambizioni. Non certo realizzabili nel ciclo di pochi mesi. Ma non è questo che le si chiede. Le si chiede piuttosto di assumere da subito il ruolo di indirizzo che le compete.
Di non perdersi nel balletto e nelle polemiche in cui sicuramente la costringeranno i media romani che vorranno parlare solo di nomine e di fondi. Insomma le si chiede di decidere.
Nulla potrà essere perfetto. Anche i bandi, in alcuni casi, potrebbero contenere in sé il morbo del disimpegno da parte dell’amministratore pubblico. E i fondi saranno comunque insufficienti. Ma ci sono gli spazi inutilizzati da mettere a disposizione. C’è da dare nuovo ossigeno alla cultura del contemporaneo. C’è da ripensare l’estate romana. C’è da ragionare sulla miriade di piccoli editori e sul circuito delle librerie indipendenti. C’è tanto altro ancora.
A Roma ci sono le risorse umane e intellettuali per costruire un sistema di collaborazioni che valorizzi la città nella direzione del recupero dello spazio pubblico, del bene condiviso secondo una chiara gerarchia di valori. Che sia consapevole che la cultura rappresenti un formidabile volano dell’economia e della vita sociale.
Certamente occorrono idee e progetti e occorre l’Europa. Ma occorre soprattutto costruire un’alleanza con chi in questi anni ha lottato per affermare la centralità delle politiche culturali nella vita della città; con chi opera e ha operato per dare alla gestione dei beni culturali quelle caratteristiche di razionalità, efficienza e trasparenza nella gestione, e quella reputazione necessari per vivere e crescere anche sul piano economico. Insieme sarà possibile farcela.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
Pawel Kuczynski è un illustratore polacco che ha affidato alla sua creatività messaggi di libertà e giustizia. I suoi disegni sono denunce vere e proprie contro sistemi totalitari, strapoteri travestiti da democrazie, ingiustizie sociali e mancato rispetto dell’ambiente. Per le sue opere ha già vinto 92 premi e riconoscimenti internazionali. Questo creativo è la dimostrazione di quanto l’arte possa essere più incisiva di tante altre manifestazioni di dissenso e ci ricorda quanto è importante preservare la libertà di espressione in ogni sua forma: Pawel Kuczynski affida infatti alle illustrazioni la rivelazione di verità scomode inerenti l’attualità sociale e politica che riguarda tutti.
Scoprite tutte i disegni di Pawel Kuczynski sul suo profilo Tumblr
Mentre qui lanciano un film di Zalone in 1200 sale, in Scandinavia, UK, Repubbliche Baltiche lanciano azioni di largo impatto in cui centinaia di artisti entrano in migliaia di scuole (Creative partnership, Cultural Rucksack), in altri Paesi tutti i ragazzi imparano a suonare uno strumento (sull’esempio de El Sistema di Abreu che sta cambiando il volto del Venezuela, ma anche in Olanda o Germania).
Marco Magnifico il vice presente del FAI in un seminario ci raccontava: “Volevamo misurare la distanza tra il FAI e il National Trust inglese. Migliorarci, capire. Ero in visita in un magnifico parco pubblico gestito dal NT e mi sono fermato a guardare delle peonie particolari. Lì accanto c’era un giardiniere che faceva il suo lavoro con la zappetta. Ha notato la mia sosta su quel fiore e si è avvicinato. Abbiamo dialogato per cinque minuti e mi ha spiegato quello che sapeva della pianta, ha risposto alle mie domande si è stupito per le varietà che nascono da noi. L’ho salutato e, uscendo, ho detto alla direttrice del posto ‘Un giardiniere è stato gentile a dedicarmi il suo tempo per spiegarmi tutto di un fiore che non conoscevo’. Lei ha risposto: ‘Non è stato gentile, è pagato per farlo. I giardinieri, come i custodi dei musei, sono pagati per dedicare l’80% del loro tempo alle mansioni specialistiche e il 20% per far sentire il visitatore accolto, fidelizzarlo, appassionarlo’. Lì ho capito che in Italia non ce l’avremmo mai fatta”.
In effetti l’abituale immagine fantozziana del custode di un museo scolpito sulla sua seggiolina fa già apparire ipercinetico il casellante autostradale. Di certo la colpa non è sua, ma non è neanche innocente. Come non lo sono i manager e la politica. Oggi poi, con la crisi e le spending review, la domanda “Ha senso investire nella crescita, nella valorizzazione e nella partecipazione culturale?” assume un’urgenza vitale.
Per alcuni è facile dire “No”, e lo fanno osservando i costi e i miseri incassi di Teatri, Musei, Biblioteche, Centri Culturali.
Io la penso al contrario ma sono convinto che occorra lavorare duro per far percepire il valore che hanno l’arte e il patrimonio culturale per la vita e la democrazia altrimenti i fiori di Van Gogh valgono le erbacce di uno spartitraffico e i Caravaggio le pennellate di un imbianchino.
Non bastano qui le spiegazioni romantiche, le pretese ovvietà, né le evidenze intellettuali sempre confutabili da chi ha altri interessi e sensibilità. Servono Indicatori di impatto Culturale che come quelli di Impatto Ambientale o Economico possano quantificare cosa significhi aprire o chiudere un museo, ma anche costruire una ferrovia su un parco o preservare le botteghe storiche di una zona.
Forse non si può misurare la bellezza ma, ad esempio, la solitudine sì, e con essa il suo ‘costo’ per i singoli e la collettività.
Indicatori ragionevoli di Impatto Culturale possono zittire chi ha interessi anticulturali e vuole vendere le spiagge e quello che esse rappresentano per far cassa.
Si può fare: si possono misurare i suicidi, gli alcolisti, le violenze. Posso misurare la partecipazione alla vita della comunità, la penetrazione e l’uso della banda larga, le propensioni xenofobe e omofobe, la diffusione delle droghe e degli strumenti musicali tra gli adolescenti.
E gli antidoti all’isolamento e alla solitudine sono la cultura e il lavoro, entrambe coniugate col rispetto e la passione.
Si può cominciare allora a ragionare su qual è l’impatto concreto dell’aprire un teatro in un quartiere periferico, quanto valga far partecipare gli abitanti della zona alle attività di un Centro Culturale, quale sia l’impatto culturale di un Bingo o di un centro commerciale; e anche il valore di laboratori artistici in una scuola o in un centro anziani. E quanti sollevi l’opera a Caracalla, un concerto dei Negramaro, o l’estasi davanti a un Kiefer, un Rothko, un Bernini.
Si potrebbe meglio programmare il futuro, zittire quelli che “con la cultura non si mangia” e dimostrare come quella generata dalla Cultura sia la vera energia pulita.
Andrea Pugliese è esperto di programmazione europea e autore del blog Pensieri sProfondi
C’è voluta tutta l’estate per metabolizzare il Datagate e tutte le sue conseguenze. Nonostante le rivelazioni di Snowden sembrassero preoccupanti sin dall’inizio, l’effetto iniziale è stato di qualche timida interrogazione da parte di alcuni stati Europei, e il problema si è scaldato solo quando sono fuoriusciti i nomi dei Vip presi di mira dal sistema realizzato dall’Nsa.
Già, perché inizialmente il sempreverde leit motiv del terrorismo sembrava giustificare un programma così vasto e “invadente”, d’altronde perché preoccuparsi di un controllo a tappeto su migliaia di cittadini quando in gioco c’è la sicurezza nazionale? Ma se poi il controllo fuoriesce dalla mischia di quelle entità grigie e poco interessanti che popolano le nostre città, ecco che scatta lo scandalo internazionale.
Lo ha capito subito Obama che prima dell’estate ha ordinato l’interruzione immediata delle attività di monitoraggio sulla Merkel e su altri 34 leader mondiali, perché è facile spiegare il perché su Mario Rossi. Un po’ più complicato se si parla di politici o personaggi di spicco che, in teoria, non dovrebbero avere niente a che fare con terroristi o cospirazioni anti-Stati Uniti.
Quindi, mentre i giornali e il pubblico si confortano sul solito stereotipo del Grande Fratello (ricordate Echelon?), nessuno ci spiega cosa potevano trovare di interessante gli Stati Uniti su quei 35 leader mondiali e su svariate altre personalità chiave, soprattutto se ci continuano a propinare la favola del terrorismo.
Ma la domanda non può rimanere a lungo non risposta, soprattutto perché non è di Mario Rossi che stiamo parlando. Da una parte l’Nsa grida all’emergenza internazionale perché la rivelazione integrale del (costoso) sistema di protezione che è stato realizzato per proteggere l’intero pianeta, è un duro colpo al bene e un vantaggio notevole per i nemici. “Conosci il tuo nemico” diceva Sun Tzu e ora sono i nemici a conoscere meglio gli Stati Uniti.
Dall’altra parte c’è la vecchia Europa, da lungo tempo solidale con l’alleato oltreoceano, che si sente tradita da questa mancanza di fiducia. Certo potremmo discutere a lungo sul come mai un sistema di protezione così complesso abbia potuto essere installato senza che nessuno se ne accorgesse e, forse, arrivare alla conclusione di molti esperti che oggi sghignazzano perché tutto sa di scoperta dell’acqua calda.
E per ultimo arriva in soccorso il vecchio nemico di sempre, che proprio ad ottobre sale alla ribalta per aver regalato chiavette spia durante il G20 tenuto a San Pietroburgo. Un evento piuttosto insolito e rozzo che dovrebbe riportare parità sul male comune, garantendo per tutti un mezzo gaudio.
Cosa accadrà? L’ipotesi più probabile è che tra rassicurazioni e accordi di cui non avremo mai evidenza, alla fine concluderemo lo scandalo tra abbracci e ritrovata fiducia. Ma tutto dipende dalle parole che verranno usate, pesate e, soprattutto, concordate.
Andrea Pompili è un informatico ex coordinatore del “Tiger Team” di Telecom
New York ha scelto il suo nuovo sindaco: si tratta di Bill de Blasio, democratico italoamericano, classe ’61, che ha sbaragliato l’avversario repubblicano Joseph J. Lotha con il 73% delle preferenze. I sondaggi già lo davano vincente, nonostante un democratico non avesse ricoperto il ruolo di primo cittadino da ben 20 anni.
De Blasio succede a Michael Bloomberg, da 12 anni a capo della Grande Mela e già braccio destro di Rudolph Giuliani, il sindaco dell’attentato alle Torri Gemelle.
Il successo di questo 52enne si deve in gran parte alla sua campagna politica, incentrata su una forte comunicazione della propria identità familiare. Tutti i newyorkesi sanno infatti che de Blasio è sposato con Chirlane McCray, scrittrice attivista contro il razzismo e sostenitrice dei diritti delle donne omosessuali. Dalla loro unione, avvenuta nel 1994, sono nati due figli: Chiara e Dante. Tutti i membri della famiglia de Blasio hanno partecipato e sostenuto pubblicamente la corsa di Bill a sindaco della città, comparendo in video, talk show e in comizi per promuovere le proposte del candidato.
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Bill de Blasio ha dunque giocato la carta dell’emozionalità, mostrando al pubblico votante quanto fosse progressista anche nella sua quotidianità, con una famiglia moderna e mista, come molte ormai a New York: l’impegno nell’affermazione dei diritti civili della moglie e la sua italianità, esaltata dalla scelta di mantenere il cognome materno e di chiamare Dante e Chiara i figli, hanno poi giocato un ruolo preponderante per aggiudicarsi le preferenze della comunità LGBT e delle minoranze ormai decisive nelle elezioni.
La sua sensibilità nei confronti dei cosiddetti “latini” è ad esempio dimostrata dal fatto che il suo sito ufficiale è tradotto in inglese e spagnolo, senza contare poi l’utilizzo vasto dei social network per diffondere le sue proposte e per chiedere ai sostenitori di votarlo, senza mancare mai di pubblicare foto dall’album di famiglia. Una sorta di Obama ancor più diretto e genuino.
Altro elemento da non sottovalutare nella comunicazione messa in atto dal suo staff è anche la forte appartenenza al quartiere di Brooklyn, dove è nato. Qui, a pochi passi dalla sua abitazione, c’è infatti il cuore strategico del suo entourage e proprio al Park Slope Armory, l’ex caserma della Guardia Nazionale, convertita ora ad ostello giovanile, sta festeggiando insieme ai suoi sostenitori e vecchi amici, molti dei quali hanno contribuito finanziariamente alla sua corsa a sindaco: Bill ha potuto infatti contare su corpose donazioni.
Molti poi i giovani volontari che hanno collaborato per la campagna elettorale, con entusiasmo e fiducia, guardando a de Blasio come alla svolta politica e sociale che da tempo i newyorkesi attendevano. Del resto, anche nel video di lancio della candidatura, Bill de Blasio è presentato come il “cambiamento” necessario per ritrovare l’unità tra i cittadini e, soprattutto, l’uguaglianza.
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A volte il passato può essere imbarazzante e creare ripercussioni nel presente. Nell’era dei social network, anche più del solito. Dal 2015, però, i minorenni californiani potranno cancellare foto, dati e informazioni ‘scomode’ facilmente. Come riportato da numerosi media in questi giorni è stata infatti approvata la cosiddetta ‘Eraser law’, la ‘Legge-gomma’, che permette di cancellare il passato digitale dei californiani under 18. La nuova normativa, più in dettaglio, riconosce ai minori di 18 anni il diritto di “ritirare o richiedere la rimozione di contenuti o informazioni scaricate da un sito web o applicazione”: una facoltà rilevante per eliminare dal web eventuali errori di gioventù, quelli che poi magari possono rovinare curricula da sogno e colloqui di lavoro solo per aver postato anni prima la foto della notte brava con gli amici.
La legge è stata emanata dal governatore della California Jerry Brown e entrerà in vigore il primo gennaio 2015, cioè il tempo necessario per consentire ai siti internet interessati di adeguarsi alla nuova normativa. Anche se Twitter e Facebook offrono già questa funzione sui loro siti web. “Gli errori di gioventù ti seguono per tutta la vita e le loro impronte digitali arrivano ovunque si va”, ha spiegato James Steyer , fondatore dell’associazione ‘Common Sense’. Ma i detrattori della legge protestano: “Oltre alla necessità di conoscere l’età degli utenti, i siti avranno bisogno di sapere se vivono o no in California”, sottolinea Stephen Balkam, presidente della ‘Online Family Safety Institute’.
La legge ha riacceso il dibattito circa una delle tematiche più delicate dei nostri tempi segnati dalla comunicazione globale: quella del rapporto tra il cosiddetto diritto all’oblio sulle reti di comunicazione elettronica e la libertà di informazione (sub specie informare ed essere informati). Il diritto all’oblio – soprattutto on line – è un fondamentale baluardo per la protezione della nostra identità persona-le (soprattutto digitale): è il diritto ad essere dimenticati non tanto per una quasi capricciosa volontà di impedire che si parli di noi, ma per evitare che informazioni risalenti, dati personali non aggiornati, fatti che appartengono al passato remoto (tutti facilmente reperibili sul web) determinino complessivamente un profilo della persona – attuale – non corrispondente alla reale identità e modo di essere dell’interessato. Se si pone difatti mente alle efficaci tecnologie e software di incrocio in tempo reale di una mole anche enorme di informazioni tratte dal web, si può intuire come sia reale il rischio di creare identità digitali delle persone con procedure di incrocio selettivo (ad esempio è in voga negli USA l’analisi delle pagine Facebook prima di svolgere colloqui di lavoro con gli interessati) che rivelano gli aspetti anche più intimi della persona, con il rischio di creare un profilo errato e inattuale. E’ una nuova tipologia di danno alla persona ed alla sua identità digitale (che ormai precede l’identità fisica reale nel mondo in cui viviamo).
E allora il diritto all’oblio è uno dei fondamentali diritti della Società dell’Informazione Globale del XXI secolo: è giuridicamente il diritto degli utenti – riconosciuto nel nostro Codice della privacy e rafforzato dal nuovo Regolamento UE sulla protezione dei dati personali che si applicherà dal 2016 – di richiedere ed ottenere (anche dai providers) che i propri dati personali siano cancellati e non siano più oggetto di trattamento laddove non più necessari in relazione alle finalità per cui erano stati raccolti. Il Regolamento UE sulla protezione dei dati personali in corso di approvazione stabilisce inoltre sul tema che spetterà ai social network l’onere di provare (e non all’utente dimostrare il contrario) che la conservazione di una certa informazione è necessaria (sono previste sanzioni economiche da 500 mila Euro all’1% del fatturato globale in caso di inottemperanza).
Come ha evidenziato Stefano Rodotà, che da tempo sottolinea l’importanza del diritto ad essere dimenticati, l’affermazione dell’oblio come diritto della persona è un elemento importante per quella che la nostra Costituzione definisce libera costruzione della personalità: essere prigionieri di informazioni del passato, magari secondarie può essere un ostacolo alla libertà. Ma lo stesso Rodotà ha anche segnalato i problemi applicativi di non facile soluzione pratica: in primo luogo bisogna garantire che questo diritto non diventi uno strumento di censura (si pensi all’oblio in rapporto ai blog o all’informazione giornalistica on line, vero nervo scoperto del rapporto tra due libertà ugualmente fondamentali, la libertà di informazione e la libertà di controllo sulle proprie informazioni); in secondo luogo c’è la difficoltà dell’applicazione pratica: una volta una volta che un’informazione entra in rete diventa difficile seguire il suo percorso. Vi è infine, solo per citare un ulteriore dei molti aspetti del dibattito, l’interesse dei grandi player dei mercati elettronici alle informazioni (ed ai profili) degli utenti: e se è vero – come ha affermato il Commissario UE Viviane Reding – che “i dati personali sono la valuta del mercato digitale”, ci si dovrà attendere una neanche tanto nascosta opposizione quando l’utente chiederà la cancellazione dei propri dati come forma di esercizio diretto dell’oblio (ora è possibile solo una diversa forma di opposizione al trattamento).
In conclusione, per tornare alla legge-gomma californiana, verrebbe da chiedere al Governatore della California se i delicatissimi profili sopra appena evidenziati possano essere gestiti consapevolmente da minori e se forse – sapendo che gli “errori di gioventù” si potranno ora cancellare facilmente – la Eraser-law non rischi di diventare una legge-incentivo alle sciocchezze on line.
Alessandro del Ninno è avvocato presso la Tonucci &Partners e professore universitario
Come ogni anno l’atmosfera del 13. Festival Internazionale della Letteratura di Berlino alla Haus der Berlinerfestspiele è stata viva e accogliente. Il complimento più bello è giunto proprio alla chiusura quando Salman Rushdie nel definire la kermesse letteraria berlinese l’ha chiamata un “meraviglioso assembramento di scrittori. Mi considero onorato di poter partecipare”.
Ruschdie non ha mancato nemmeno di ringraziare calorosamente l’amico e direttore del festival Ulrich Schreiber, per il supporto al “PEN World Voices Festival of International Literature” di recente fondazione a New York.
164 autori da 47 diversi paesi hanno partecipato all’edizione di quest’anno, un raduno non solo di autori e di autrici, ma soprattutto l’incontro di diverse generazioni di scrittura e di diverse forme dell’arte di raccontare. L’edizione di quest’anno infatti ha previsto una particolare apertura al mondo della comunicazione, con particolare attenzione a quella delle diverse generazioni o forme d’arte a confronto, facendone un festival “politicamente attivo”, quasi una forma di museo itinerante, educativo, temporaneo: il programma ha presentato la letteratura per bambini e per la gioventù con una sezione a parte pensata sia per giovani lettori che per giovani scrittori, quindi con un occhio al futuro, alla formazione; ha inoltre inserito i progetti “Weltweisheit – Kulturen des Alterns”, con riflessioni e confronto sulla diversa percezione del “tempo che passa” di rinomati artisti e diversa estrazione culturale, e per ultimo la presentazione di collaborazioni con le arti che in tempi moderni hanno cambiato il volto della letteratura e che ancora lo stravolgeranno nell’immediato futuro, cioè la novella a fumetti e la letteratura applicata alla creazione di videogiochi, tra conferme e mutazioni di codici e linguaggi espressivi.
Durante il 13. Internationales Literaturfestival Berlin per la sezione “Internationale Kinder und Jugendliteratur” (Lettartura internazionale per l’infanzia e la gioventù) si è tenuta la manifestazione “Eine Geschichte für Europa. Welche Kinder und Jugendliteratur braucht Europa?” (Una storia per l’Europa. Di quale giovane letteratura necessita l’Europa?). 26 giovani autori e illustratori sono stati invitati a riflettere e discutere su questo tema per poi far confluire la loro creatività in uno scritto, in un saggio o in un racconto. Ogni ospite ha poi proposto un libro per i giovani lettori europei. Il risultato è stato una raccolta di storie dal panorama culturale e letterario ricco di sfaccettature e nuovi punti di vista sul tema e sul futuro del continente, che grazie al supporto finanziario della Commissione Europea, verrà pubblicato in una versione tedesca e inglese dalla Vorwerk Verlag (ISBN-978-3-940384-61-4): “Schlüssel für di Zukunft. Welche Kinder- und Jugendliteratur braucht Europa? – Keys to the future. What kind of Children’s and Young Adult Literature does Europe need?”. La pubblicazione sarà distribuita gratuitamente nei ministeri culturali, nelle scuole, nelle biblioteche, e varie altre istituzioni dentro e fuori Europa.
I giovani autori e illustratori che hanno partecipato all’edizione sono nel testo disponibile on-line.
Weltweisheit – Kulturen des Alterns (Saggezze del mondo – Culture dell’Età) 3-13 Settembre 2013. Un Progetto del Festival Internazionale di Letteratura (13. Ilb) nell’ambito dell’Anno della Scienza 2013 – Prospettive della Demografia.
In che modo un aborigeno pensa al concetto d’età umana? Perché gli uomini d’Israele e in Giappone hanno le più alte aspettative di vita? Quali sono i valori di un uomo anziano di Cuba? Come si è sviluppata la nostra attuale percezione del tempo -passata attraverso tutta la letteratura europea a partire dall’antichità- e in che modo evolverà? L’Ilb si è interrogato su questo tema con un programma d’interventi di autori e ricercatori, invitati al proposito di incontrarsi e discuterne con il pubblico attraverso letture, manifestazioni e testimonianze dalla prospettiva della più ampia diversità culturale possibile.
Ogni anno crescono in Germania le aspettative di vita di circa tre mesi. Lo sviluppo demografico si pone quindi insieme ai problemi ambientali come una delle sfide del futuro ai cui il progetto Wissenschafstjahr 2013 – Die demografische Chance del Ministero Federale della Cultura finanzia per promuovere informazione e dibattito sul tema. Viviamo sempre di più, ci saranno sempre meno giovani, sarà una società sempre più multiculturale.
Il dibattito è stato pensato dal Ilb Berlin invitando un gruppo di autori, giornalisti e pensatori di varia origine culturale ed estrazione sociale a parlare della loro opinione sul tema e di come si sia eventualmente sviluppato nella loro scrittura o ricerca, un dialogo tra scienza e letteratura: Ingrid Bachér (Ger), Priya Basil (Gb), Gisela Dachs (Ger/Isr), Péter Farkas (Ung), Franz Hohler (Ch), Dacia Maraini (Ita), Nancy Morejón (Cuba), Georg Stefan Troller (Aus/Fra), Herb Wharton (Austr), Martin Winckler (Kan) che in un dialogo con gli scienziati Prof. Dr. Christian Behl (Universität Mainz), Dr. Sonja Ehret (Universität Heidelberg), Prof. Dr. Andreas Kruse (Universität Heidelberg), Prof. Dr. Clemens Tesch-Römer (Deutsches Zentrum für Altersfragen) und Dr. Nina Verheyen (Universität Köln), hanno discusso sui temi “La Creatività con l’Etá che avanza”, “L’Età e le Emozioni” e “Etá e Qualitá di Vita”. Il progetto finanziato dal Ministero si è svolto in diverse sedi della città ad ingresso gratuito.
Scandalo dell’NSA: Juli Zeh e una ventina di altri autori raccolgono oltre 65.00 firme da presentare agli uffici del governo.
Il 18 settembre scorso due dozzine di autori hanno consegnato ad un rappresentante del governo tedesco 65.000 firme a supporto delle lettera aperta alla Cancelliera Angela Merkel (la petizione può essere trovata anche in internet www.change.org/nsa ). Con questo gesto gli autori intendono indurre il governo ad una immediata ed adeguata risposta alle recenti scoperte dei metodi di spionaggio in rete dell’agenzia americana appartenente ai servizi segreti CIA.
Questa è la prima azione politica congiunta di autori e intellettuali tedeschi dalla riunificazione. Gli scrittori partecipanti a questa iniziativa sono, solo per citare alcuni nomi della letteratura, della poesia o della saggistica, Juli Zeh, Moritz Rinke, Julia Franck, Ulrike Draesner, Michael Kumpfmüller, Inka Parei, Nora Bossong e Kristof Magnusson.
Prologo all’azione è stata la lettera aperta che la scrittrice e giurista Juli Zeh insieme ad altri 60 autori ha pubblicato alla fine di luglio su Change.org e sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il testo indirizzato alla cancelleria Angela Merkel (CDU) prega il governo di prendere posizione per la difesa dei diritti e della privacy e contro l’iniziativa della agenzia investiva americana.
“La protezione dei dati personali e della privacy stanno all’era della comunicazione, come stava e sta la protezione dell’ambiente alla progressiva industrializzazione.” scrive Juli Zeh. “E non c’è momento migliore in cui il governo dimostri di averlo compreso”.
Dal momento delle lettera aperta a luglio 2013, la Cancelliera non ha ancora adeguatamente chiarito cosa sia accaduto in Germania a proposito delle accuse del “whistle-blower” Edward Snowden, né fornito assistenza o adeguata informazione ai propri concittadini sulla questione. “La strategica tattica dell’attesa sull’intero affare da parte del governo, non è più accettabile”, afferma Eva Menasse una dei propugnatori dell’iniziativa. “La marcia verso la Cancelleria” si è tenuta il pomeriggio del 18 settembre 2013. Ora, dopo il voto e la conferma della Merkel, si attende una risposta chiarificatrice su cosa sia realmente accaduto e fino a che punto la politica europea fosse a conoscenza dello spionaggio preventivo dei servizi segreti USA.
Era stato facile l’esordio del Cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo: “ … si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici; per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti”. Erano tempi in cui l’italiano era una lingua ricca ed elegante, la House of Lords a Londra era solo dinastica, le schifezze (che non sono mai mancate nella storia) non erano fonte di vanteria tamarra e di invidia dei mentecatti.
Fabrizio Salina declinerà elegantemente, ricordando il monito di Padre Pirrone: “Senatores boni viri, senatus autem mala bestia”. Era un consesso di anziani (chi ricorda più che “senex” vuol dire “vecchio”?) che controbilanciava lo strapotere dell’imperatore: anche nella Roma potenza mondiale c’era un sistema di checks-and-balances. Quando Catone il censore martellava i colleghi ripetendo “Ceterum censeo Carthaginem esse delenda” alla fine lo ascoltarono.
Le cose sono cambiate, certo. Qualcuno azzarda sulla stampa o in televisione (il Senato, così come la Camera, hanno molteplici succursali di fatto): “Porcellum delendum”, magari si guadagna un titoletto sui giornali ma i colleghi se ne fottono. Quando le scrissero sulla Costituzione le Camere erano state concepite come asimmetriche per poter fertilizzare la visione dei Deputati con l’esperienza dei Senatori. Oggi ci si candida all’una o all’altra sulla base di ubbìe atmosferiche o di calcoli machiavellici. Che peccato.
Rimangono i Senatori a vita, che i tanti villan rifatti della politica temono e perciò disprezzano. Persone che invece di strillare luoghi comuni nei salotti televisivi lavorano davvero, costruiscono mondi significativi e utili, “hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Abbiamo qualcosa da ridire su Montale, Bo, De Filippo, Bobbio, Levi-Montalcini? O su Abbado, Cattaneo, Piano, Rubbia? Il fatto che siano intensamente alfabetizzati non implica che non sappiano ragionare, anzi: la finta logica che vuole contrapporre poesia e azione nasce solo dal terrore degli ignoranti
Ovvio che nel clima da ultimi giorni di Pompei che stiamo attraversando in questi mesi (anni? decenni?) qualcuno si diletti a far il dietrologo. L’ombra del complotto aleggia sempre sulla nostra disastrata Repubblica, così finisce per fare più notizia un legittimo parere soggettivo che non l’interpretazione analitica degli spartiti, la ricerca sui materia-li da costruzione del corpo umano, la visione dinamica e ironica delle armonie proget-tuali, l’investigazione sui moti dell’universo.
E’ arrivato il tempo di imparare la lezione, deponendo finalmente la fede da ultras nello stellone che laverebbe le nostre indefinite onte. In un Paese sorretto dalla logica elemen-tare i prossimi candidati al Senato dovrebbero venire dalle numerose e multiformi schiere di chi sa immaginare il futuro costruendo il presente, investendo fiducia e risorse per migliorare le cose, facendo prevalere la passione sull’interesse e il sogno sulla volgarità. Buon lavoro ai Senatori a vita.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Il presidente russo Vladimir Putin in scollata vestaglia rosa pastello da donna e il primo ministro russo Dmitry Medvedev in mutandine e reggiseno sui toni dell’indaco e del viola. Il primo che sembra accarezzare la nuca dell’altro e entrambi che fissano con sguardo vacuo l’osservatore. No, non si tratta di un brutto sogno, ma di un’opera d’arte che forse costerà cara all’artista che l’ha creata, Konstantin Altunin.
Questa e altre quattro opere del 45enne artista russo erano esposte al Museo del Potere di San Pietroburgo, ma il 27 agosto è intervenuta la polizia a confiscarle. La reazione di Altunin è stata la fuga verso la Francia. Contro di lui non è stato emanato alcun mandato di cattura, ma le autorità hanno sequestrato le opere per capire se infrangono la legge e sono passibili di condanna.
Altunin, dalla Francia, si dice scioccato dalla reazione delle autorità, che non pensava reagissero in maniera così estrema ad un’opera che lui definisce ironicamente innocente. Certo, la tela ha un taglio polemico, e non lo nasconde. Konstantin l’ha creata tenendo in mente l’annuncio del 2011 in cui Putin e Medvedev proclamavano che si sarebbero scambiati le cariche, con il ritorno del primo al Cremlino e l’elezione del secondo a Primo Ministro. L’opera si intitola, poi, “Travesty”, e molti vi hanno letto il sostegno di Altunin alla causa dei diritti gay, tanto dibattuta in questi giorni con riferimento proprio alla Russia.
La duma, all’unanimità, ha infatti approvato una legge che vieta la propaganda omosessuale nel paese, legittimando ulteriormente le aggressioni ai manifestanti pro gay da parte di ortodossi religiosi e di formazioni di estrema destra. Un’altra delle opere confiscate, non a caso, ritrae il legislatore Vitaly Milonov, ideatore della legge, che sventola una bandiera della pace, simbolo gay, mentre in primo piano un poliziotto sta per picchiare un giovane manifestante con un manganello.
E’ comprensibile, dunque, la decisione di Altunin di chiedere asilo politico alla Francia e di stabilirsi a Parigi, viste le misure che il Cremlino è solito attuare contro chi si oppone, in un modo o in un altro, alle autorità. E’ ormai tristemente noto il caso delle Pussy Riot, il collettivo anonimo punk rock che ha scatenato le ire del governo russo, portando all’arresto di tre suoi membri nel marzo 2012. Circa un anno fa, un’altra mostra è stata oggetto di tensioni e polemiche, stavolta a Mosca, proprio perché dedicata alle Pussy Riot.
C’è poi il caso dell’artista russa Aleksandra Kachko, nota anche come Zoa o Rosovi Bint, più volte arrestata per i suoi murales di denuncia nei quali compaiono spesso donne maltrattate, crocifisse o in manette.
Spaventa ancora l’arte, da quella in gallerie e musei a quella esposta per le strade, e il Cremlino non si rende conto che in questo modo non fa che dare adito a chi lo accusa di censura, conferendo importanza proprio ai suoi stessi oppositori.
Nell’arco di pochi mesi di lavoro il Ministro Massimo Bray ha dato prova di impegno e buona volontà. La cosa risulta con tutta evidenza non solo se paragonata al disinteresse o alla inadeguatezza dei ministri della cultura che lo hanno preceduto, ma anche perché l’approccio ai problemi è stato diretto e non elusivo. Bray ha subito sbloccato i fondi POIN del 2012 per la Reggia di Caserta, il Real Bosco di Capodimonte, il polo museale di Sibari e il Palazzo Reale di Napoli. Ha riproposto per Pompei la sovrintendenza autonoma. Ha avviato progetti di riorganizzazione delle fondazioni lirico-sinfoniche. Ha indicato nello strumento della cosiddetta “fiscalità di vantaggio” una delle soluzioni possibili per favorire un rapporto sano tra pubblico e privato in ambito di Beni Culturali. Ed è andato oltre, impegnandosi in direzione del tax-credit per cinema e musica, e perché il MiBAC recuperi le risorse che provengono dalla vendita dei biglietti dei vari siti museali. Il tutto organizzato all’interno di un provvedimento più ampio che ha preso la forma del decreto legge “Valore Cultura”, approvato di recente e salutato da più parti con interesse e reazioni positive.
Insomma, Bray sta cercando di mettere ordine in un sistema ormai da anni disarticolato e abbandonato a se stesso. E nel far questo ha sempre avuto chiara la necessità di dover “partire dalla cultura per ricostruire un paese in cui tutti si riconoscano”, come da lui stesso dichiarato.
Bray lavora alacremente e con una certa velocità. Fa bene, perché non c’è tempo da perdere. Ma è anche necessario ponderare bene le scelte perché altrimenti si rischia di peggiorare una situazione già al limite. Insomma bisogna uscire per quanto possibile dalla logica dell’emergenza e costruire prospettive condivise di una qualche durata. Sicuramente è anche per questo motivo che il ministro ha voluto istituire la “Commissione per il rilancio dei beni culturali ed il turismo e per la riforma del Ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa”.
Presieduta dal professor Marco D’Alberti, Ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Roma “la Sapienza”, la commissione ha il compito di “definire le metodologie più appropriate per armonizzare la tutela, la promozione della cultura e lo sviluppo del turismo, identificando le linee di modernizzazione del Ministero e di tutti gli enti vigilati, con riguardo alle competenze, all’articolazione delle strutture centrali e periferiche e alla innovazione delle procedure”.
Insomma: si tratta di riformare il MiBAC. Ridargli nuova linfa vitale e riuscire a orientarlo verso una direzione che valorizzi il patrimonio culturale nel nostro paese e – aggiunge chi scrive – eviti di pensare che i problemi si risolvano semplicemente svendendo ai privati quello che invece deve rimanere una risorsa di tutti e per tutti. A proposito di quest’ultima considerazione, bisogna dare atto al ministro che già in diverse occasioni ha mostrato una sensibilità molto vicina a questa impostazione.
La commissione deve concludere i suoi lavori entro il 31 ottobre (!) ed è composta da venti persone, la maggior parte delle quali scelte tra illustri accademici e dirigenti di istituzioni culturali, diversi per esperienza e sensibilità. Sono gli ingredienti di una ricetta che tutti ci auguriamo efficace e che, opportunamente, prevede un ragionamento sull’uso delle nuove tecnologie e si muove tenendo conto dei due poli spesso in contrasto tra loro della conservazione e della valorizzazione dei Beni Culturali.
Nessuno dei componenti la commissione percepirà compensi. E questo non rappresenta una novità nello stile recente dell’impegno istituzionale. Può essere il segno di una sensibilità civile che assomiglia allo slancio di migliaia di giovani che intervennero per salvare i beni culturali fiorentini dopo l’alluvione del novembre del 1966. Oppure può essere semplicemente la prosecuzione logica di un modo di lavorare che si è affermato negli ultimi anni in ambito culturale tra precariato sottopagato e volontariato.
Contiamo molto sul fatto che si tratti della prima ipotesi. Ve ne sono le premesse nella condizione di reddito e nella sensibilità dei membri della commissione nonché nel contesto in cui siamo precipitati.
Per il secondo aspetto, aspettiamo con ansia proposte e provvedimenti.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
Il suo nome è Dolk, che in norvegese vuol dire stiletto l’arma affilata utilizzata nelle guerre del Seicento e affilata è la sua arte di strada che si muove tra il criticismo politico e l’ironia.
I suoi lavori, che si ispirano alla stencil art dell’inglese Bansky, si possono ammirare tra le strade di Bergen, Berlino, Copenaghen, Barcellona, Oslo, Stoccolma, Londra, Praga e Melbourne.
Ancora nulla purtroppo in Italia anche se, vista la sua fama e la sua partecipazione a numerosi esposizioni negli ultimi anni, non tarderà ad arrivare!
Una donna velata siede al capezzale del marito ormai stremato, privo di conoscenza. Non piange, ma è solo arrabbiata e dopo tanti anni ha il coraggio di gridargli quello che per molto tempo gli ha celato per paura delle sue reazioni.
Questa è l’immagine che ormai si staglia sul nostro paese, allo stremo, senza più grandi prospettive, dove anche quest’ultimo decreto cultura – che come operazione di marketing ha funzionato molto bene – è il disperato tentativo di salvarlo, senza forzare e smontare alcuni strumenti di apparato che ormai non hanno più motivo di esistere.
Sono tre anni che Banca d’Italia rivede le stime di crescita e dobbiamo essere realistici: nel 2014 il Pil calerà dell’1,8% e sul tema dell’occupazione saliremo dall’11,8% del 2013 al 13% nel 2014.
I dati in negativo saranno dovuti soprattutto al calo della spesa delle famiglie dovuta alla contrazione dei redditi disponibili. Tra i motivi di fiducia di questo governo c’è il pagamento dei debiti delle amministrazioni pubbliche verso i creditori: al riguardo esprimo grandi dubbi, come sono molto critico sulla possibilità di sostenere consumi ed investimenti privati con la semplice immissione di liquidità nel sistema economico.
Per il 2014 le prospettive delle imprese e delle famiglie saranno stazionarie, se non in alcuni casi peggiori. Questa è la realtà ed è da qui che dobbiamo partire.
Proprio ad agosto, bisognerebbe avere il coraggio di essere realisti, evitando di esprimere desideri sotto le stelle cadenti della notte di San Lorenzo e cominciando a gridare a “quest’uomo ormai allo stremo” di smettere con le opere di salvataggio attraverso gli ormai famosi sistemi di commissariamento in cui in Italia siamo maestri, di interpretare con maggiore attenzione i dispositivi che la comunità Europea mette a disposizione, di alleggerire in modo intelligente quell’imponente apparato che si occupa del restauro e conservazione del nostro patrimonio, di costruire una struttura in grado di interagire tra le soprintendenze, le direzioni generali e il mondo delle imprese.
Perché in questa crisi profonda del nostro paese, si sta verificando un paradosso che troverà riscontro nei dati dei prossimi anni. La contrazione dei consumi non avverrà infatti nel comparto turismo e cultura, ma in questo momento non abbiamo le capacità, le strutture e le mentalità per capire profondamente come cogliere questo opportunità.
Ci sono ancora troppi pesi morti, troppe clientele, troppa politica e troppi favoritismi. Ma non basta “gridare”, servono azioni concrete e semplici: nuovi strumenti giuridici, trasparenza decisionale negli appalti, nelle assunzioni, nella distribuzione delle risorse.
La donna velata, alzando il capo al cielo, dentro di sè, pensa “lo diverremo mai?”.
Stefano Monti è il direttore editoriale di Tafter.it
Era il 15 agosto del 1969, data che nella storia della musica ha un solo significato: Woodstock
Ripercorrere cosa accadde circa 45 anni fa a Bethel, 80 km da NY, in quei pochi ettari di terra prestati quasi casualmente a quello che doveva essere un concerto estivo dedicato al rock e alla cultura hippie oggi potrebbe sembrare anacronistico e forse un po’ lo è: nulla di simile a ciò che avvenne in quei 4 giorni di concerto (che in realtà dovevano essere 3) dedicati alla Musica e alla Pace, così come recitava la locandina della manifestazione, potrebbe oggi accadere. In molti hanno provato a far rivivere il mito di quel festival, ma nessuno, nemmeno gli stessi organizzatori anni più tardi, è mai riuscito nell’impresa.
Nel bene e nel male, cerchiamo di capire perché Woodstock rimane un evento irripetibile e, nelle sue contraddizioni, rappresenta la fine di qualcosa (e l’inizio di qualcos’altro).
LA MUSICA
PRIMO GIORNO
Richie Havens
Sweetwater
Bert Sommer
Tim Hardin
Ravi Shankar
Melanie
Arlo Guthrie
Joan Baez
SECONDO GIORNO
Quill
Country Joe McDonald
John B. Sebastian
Keef Hartley
Santana
Incredible String Band
Canned Heat
Grateful Dead
Creedence Clearwater Revival
Janis Joplin
Sly & The Family Stone
The Who
Jefferson Airplane
TERZO GIORNO
Joe Cocker
Country Joe & The Fish
Leslie West/Mountain
Ten Years After
The Band
Johnny Winter
Blood Sweat And Tears
Crosby, Stills, Nash & Young
QUARTO GIORNO
Paul Butterfield Blues Band
Sha-Na-Na
Jimi Hendrix
Questa più o meno la scaletta del concerto anche se nessuno è stato poi in grado di affermare se sia stata seguita o meno. Le piogge torrenziali, i ritardi degli artisti, i guasti alle apparecchiature tecniche e i disagi dell’organizzazione hanno fatto slittare tutte le 32 esibizioni in programma, al punto di ritardare il tutto di un giorno.
Jimi Hendrix, che avrebbe dovuto suonare alle 23 del 17 agosto, si ritrovò a salire sul palco alle 4,30 del mattino successivo. Ed erano ancora tutti lì.
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La droga la faceva da padrona, è vero, ma anche uno stato mentale di rilassatezza tale da fare in modo che nulla potesse essere visto come un problema, come un ostacolo.
La musica, anche con il senno di poi e la coscienza di 45 anni in più, è l’unica cosa che tutti, indistintamente, si sentono di salvare senza se e senza ma dopo questo grande evento che non fu solo musicale, ovvio, ma anche politico e storico.
Non che le esibizioni siano state perfette, anzi: molti artisti non volevano salire sul palco e ricattavano gli organizzatori per un cachet più alto, altri avevano suonato solo davanti a poche centinaia di persone prima di allora ed erano rimasti completamente immobilizzati vedendo davanti a sé oltre mezzo milione di persone, altri ancora erano pesantemente sotto effetto di acidi e improvvisavano stonando. Ma l’atmosfera della musica, del palco, quelli la ricordano e la testimoniano tutti.
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IL PUBBLICO
Di nomi del grande rock statunitense ce ne erano parecchi: molti più celebri oggi che allora, altre erano già consacrate stelle del firmamento musicale. Eppure, ad essere protagonista fu senza dubbio il pubblico: queste 500 mila persone completamente inaspettate che giunsero nella vallata solo per sfuggire alla metropoli, cercando di ritrovare la forza bucolica che millantavano in quegli anni proprio in quell’ampio spazio dove ogni cosa era possibile: quando dal secondo giorno di festival tutti cominciarono a togliersi i vestiti, a denudarsi, a bere, a fumare, a fare sesso libero, a cantare, ad auto-organizzarsi per poter andare avanti nonostante le difficoltà (pensate che Manhattan, a circa 100 km dalla sede dell’evento, conobbe a causa del festival l’ingorgo più terribile della sua storia), le icone che salivano sul palco, con le loro borchie e i loro giubbotti di pelle sembravano quasi superate, vecchie.
Si dice che durante il Festival nacquero 2 bambini e morirono 2 ragazzi, uno per overdose e uno schiacciato da un trattore mentre dormiva nelle campagne dopo 70 ore ininterrotte di musica.
L’ORGANIZZAZIONE
E’ forse questo il motivo più palese per cui oggi non si potrebbe mai ripetere un festival come quello del 1969. La fretta nell’organizzazione del festival che inizialmente avrebbe dovuto tenersi proprio a Woodstock, le autorizzazioni mancate, la location adattata con pochi giorni di anticipo, l’impossibilità delle forze dell’ordine di gestire uno spazio così vasto e così aperto, la mancanza di servizi igienici, l’impossibilità dopo appena 24 ore di raggiungere Bethel anche solo per portare acqua e cibo, hanno fatto si che la location divenisse, per quel weekend, una piccola comune completamente autogestita. Tutti si resero conto che stavano partecipando a qualcosa di unico e tutti si impegnarono affinché venisse rispettato il carattere pacifico dell’evento. Non ci fu nessuna rissa, nessun atto di violenza, nessun incidente.
“Un incubo di fango e stagnazione monopolizzato da intrusi con l’aria freak” lo apostrofò il New York Times durante lo svolgimento. Che poi, dopo qualche mese ammise “Lo facemmo principalmente per scoraggiare l’arrivo di altre persone. Avevamo paura che la situazione degenerasse”. Fu così che dopo qualche giorno il festival divenne “un fenomeno di innocenza”, o “un motivo d’orgoglio per lo Stato di New York”.
LA CULTURA
Ma ciò che realmente fu Woodstock lo raccontarono con parole, spesso contrastanti, i suoi protagonisti: “Ci fu la sperimentazioni di ogni tipo di droga e di esperienza lisergica ma tra libero amore e pioggia battente provammo a costruire la nostra cultura e la nostra comunità, con la nostra musica, la nostra stampa, i nostri valori, miti e leggende, per creare una pazzia autenticamente nostra in cui l’autodisciplina e la cooperazione costituivano l’unica via possibile” affermò l’attivista politico Jerry Rubin.
“Tutti flirtavano con la pazzia, improvvisando a caso, facendo pena o con risultati geniali – racconta Eddie Kramer, il tecnico del suono – Woodstock non credo sia stato l’inizio di un bel niente. E’ stato la porta dietro la quale sono rimasti sepolti gli ideali e le utopie degli anni Sessanta”.
Erano i giovani che aspiravano ad avere un posto nella società e che per tre giorni lo avevano trovato lì, in un mondo utopico fatto di sesso, droga e rock’n roll.
CHE FINE HA FATTO WOODSTOCK
La fattoria dove si svolse quel solo e unico concerto (gli organizzatori continuarono ad organizzare in un’altra location un festival omonimo una volta ogni 10 anni ma senza gli stessi risultati) è stata acquistata oggi da un imprenditore americano che vi ha fatto sorgere un museo in ricordo del concerto ma anche della cultura hippie. Sede di pellegrinaggi da parte di scolaresche e di figli dei fiori tardivi, il fantasma di quell’evento giace così nel ricordo di chi si è divertito, di chi ne è rimasto traumatizzato, di chi ne ha tratto profitti e di chi può dire di avervi partecipato.
Un lungometraggio “Woodstock: Three Days of Peace&Music”, vincitore del premio Oscar come miglior documentario, ha tentato di far rivivere ai posteri quelle sensazioni. Che nessun festival contemporaneo sarà mai più in grado di ricreare.
Purtroppo o per fortuna.
Sullo sfondo delle dinamiche inerenti la gestione dei Beni Culturali degli ultimi decenni, vi è stata una silenziosa ma fondamentale misura legislativa, emanata nel 1993 e fortemente voluta dal ministro a cui deve la denominazione con cui oggi molti la ricordano. Stiamo parlando della Legge Ronchey, una misura importante che ha segnato l’apertura del mercato dei servizi aggiuntivi dei musei e delle aree archeologiche statali ai privati, ai quali finalmente veniva data la possibilità di subentrare nella gestione e sviluppare imprenditorialità in un settore tanto strategico quanto bisognoso di rilancio ed innovazione.
Quella che voleva essere una spinta verso la privatizzazione, si è però tradotta in una liberalizzazione mancata e in un generale fallimento del mercato. Osservando lo scenario attuale vediamo le distorsioni tipiche degli oligopoli modellare un settore che troppo a lungo ha aspettato i benefici auspicati. La Legge Ronchey dei primi anni Novanta non si è infatti limitata a disciplinare l’ingresso dei privati nel mercato. Questa ha introdotto la possibilità di costituire società pubbliche cui affidare la gestione dei servizi – entità capaci di intervenire nel settore culturale con l’efficienza dei privati – e la programmazione negoziata, quale modalità di intervento congiunto, pubblico e privato. Tali condizioni, coadiuvate da una logica di spartizione politica e da un gioco di ruoli in stile cross-directorship, hanno dato vita ad una situazione di oligopolio mascherato e conflitto d’interessi.
In Italia, infatti, la scena dei servizi aggiuntivi è dominata da pochi grandi nomi, che singolarmente o congiunti in ATI, si spartiscono la stragrande maggioranza dei Beni Culturali statali. Electa Mondadori, PRC Codess, Civita, Zetema, sono tutte società invischiate in una ragnatela di nomi, cariche e interessi mascherati, in relazione alla quale il pubblico, lungi dall’essersi esiliato, è invece presente sotto nuove e molteplici spoglie.
In questo contesto non può destare stupore la recente nomina di Gianni Letta a presidente dell’Associazione Civita, società che insieme ai suoi diversi bracci operativi, si afferma come uno dei grandi attori a livello nazionale.
Nata nel 1987 da un’intuizione di Gianfranco Imperatori, con l’obbiettivo di traghettare la tutela e la valorizzazione della cultura verso un nuovo modello di sviluppo economico, Civita ha progressivamente ampliato la sua sfera di influenza vincendo numerose concessioni, assorbendo altre società di servizi aggiuntivi -come Ingegneria della Cultura – e acquisendo partecipazioni in altre realtà imprenditoriali attive nel settore, si pensi a Gebart e Opera Laboratori Fiorentini. Oggi gestisce i servizi aggiuntivi di più di ottanta siti culturali statali ed è presente in nove regioni.
Nel 1998 con Acea e Costa Edutainment ha dato vita a Zetema, società oggi partecipata al 100% dal Comune di Roma nonché una delle grandi protagoniste dell’oligopolio dei servizi aggiuntivi della Capitale.
Confrontando l’organigramma delle due società, Civita e Zetema, c’è un nome che ritorna con forza, quello di Albino Ruberti, amministratore delegato tanto di una, quanto dell’altra. Lo stesso Ruberti è presente nel consiglio di amministrazione di Civita Tre Venezie e Civita Sicilia, nonché componente del consiglio direttivo di Federculture e per molti protetto dello stesso Letta. Anche lui è una delle personalità invischiate nella ragnatela, come Alessandro Nicosia, Emanuele Emanuele, Salvo Nastasi.
Laureato in giurisprudenza e dedicatosi al giornalismo per molti anni, Letta ha una lunga storia di cariche prima in relazione alla testata Il Tempo, poi per il gruppo Fininvest e quale capo dell’ufficio stampa della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro. E’ stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri nel susseguirsi dei governi Berlusconi e dal 2007 è membro dell’advisory board di Goldman Sachs International, società la quale si occupa di consulenza strategica per l’opportunità di sviluppo degli affari, con focus particolare sull’Italia.
E’ uomo di relazioni, apostrofato da alcuni come Eminenza Azzurrina del sistema culturale italiano, considerato il collante fra figure come Mario Ciaccia, Mario Tosello e Salvo Nastasi, considerati i re dei commissariamenti d’oro. Di Nastasi, attuale vertice della Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo, è stato anche testimone di nozze.
In questo quadro risulta difficile interpretare costruttivamente le proposte avanzate dall’Associazione Civita durante l’Assemblea dei Soci che ha sancito la nomina a presidente dell’on. Letta, svoltasi venerdì 5 luglio presso i Musei Capitolini. Ruberti in persona ha dato voce a quelle che sono state definite le priorità per il mondo culturale italiano e che per certi versi sicuramente lo sono: la riforma delle condizioni fiscali nei rapporti fra pubblico e privati che vogliono sostenere la cultura – dal regime delle detrazioni e delle deduzioni all’introduzione dell’IVA agevolata per il restauro e i contratti di sponsorizzazione -, l’innovazione del sistema delle concessioni in termini di maggiore attrattività e redditività, l’introduzione di nuove modalità di gestione integrata tra Amministrazione Pubblica e operatori privati, la minore frammentazione dei servizi messi a gara e la revisione delle strategie tariffarie in direzione di un ripensamento della gratuità e del generale aumento dei prezzi.
Nell’ascolto di queste proposte, si pone un problema fondamentale in termini di fiducia. La situazione di mala gestione del mercato dei servizi aggiuntivi ha infatti assunto dimensioni talmente epiche che qualche anno fa è stato lo stesso Antitrust a descrivere le situazioni di monopolio e ingiustificato vantaggio competitivo che si vengono ripetutamente a creare nel settore. L’organismo ha parlato, infatti, di una serie di imprese che, grazie alla partecipazione pubblica o a reti di relazioni fra privati, risultano avvantaggiate nell’assegnazione dei servizi aggiuntivi nei siti statali. In un quadro come quello delineato viene difficile guardare a Civita come al soggetto più idoneo per indicare la rotta della ripresa e dello sviluppo economico. Espressione stessa delle distorsioni del sistema, guidata da alcuni fra gli attori chiave della scena politica attuale, la Civita di Gianni Letta fa parte della grande ragnatela che avvolge il settore culturale italiano e come gli altri nodi della rete è invischiata in una fitta trama di relazioni e interessi, che sarà difficile districare.
Per approfondire:
www.civita.it
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/10/27/oltre-il-giardino.html
http://marcotravaglio.mastertopforum.net/printview.php?t=2909&start=0
http://www.italica.rai.it/galleria/numero12/istituzioni/zetema.htm
http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getarticle&id=1900
http://www.roma5stelle.com/forum/181-valorizzazione-patrimonio-culturale/16047-zetema?limit=6&start=12
http://www.lettera43.it/cultura/nastasi-corsa-alla-scala_4367567313.htm
http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/la-carica-dei-letta-letta-da-anni-decidono-sui-milioni-di-euro-di-fondazioni-40373.htm
http://www.ilfoglio.it/soloqui/4551
http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2012/10/22/news/oltre_il_giardino-45039795/
La presentazione del rapporto annuale Federculture, giunto alla sua nona edizione, è ormai divenuta un’utile occasione per una radiografia sia del corpo culturale italiano sia della sua anima: va riconosciuto al Presidente della “associazione nazionale degli enti pubblici e privati, istituzioni e aziende operanti nel campo delle politiche e delle attività culturali” (così si autodefinisce Federculture, fondata nel 1997, che vanta oltre 150 soci in un eccentrico mix: Regioni, Province, Comuni, consorzi, fondazioni, imprese, associazioni…), Roberto Grossi, di aver esplorato, attraverso il rapporto – di cui è stato ideatore e primo curatore, fin dal 2002 – molte tematiche importanti della politica e dell’economia culturale nazionale.
Lontano da poter essere ancora un testo fondamentale di riferimento (non lo sono peraltro nemmeno la relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni o la relazione annuale del Mibac sul Fondo Unico per lo Spettacolo… lo stato dell’arte delle conoscenze resta in Italia drammatico ed è forse l’emergenza prioritaria a livello di “policy”), il rapporto Federculture è certamente uno strumento interessante per tutti gli operatori, anche soltanto per l’utile appendice statistica. Di anno in anno, vengono chiamati a corte diversi contributori, e ciò arricchisce lo spettro delle opinioni, ma non esalta l’organicità e la necessità di un approccio critico globale e diacronico, affidato soltanto al capitolo introduttivo curato da Grossi.
Quel che qui interessa è l’aspetto “coreografico” della presentazione, kermesse che mostra, di anno di anno, nella composizione del “panel” e nelle presenze istituzionali, una strutturazione che ha valenze non soltanto simboliche.
Il 2013 rientra senza dubbio nella “serie A”. Il 1° luglio, parterre de roi, nella assai istituzionale (e molto rovente, causa deficit climatizzazione), Protomoteca del Campidoglio, oltre al Sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino, ed alle due fiere Assessore alla Cultura, Lidia Ravera per la Regione e (fresca di nomina) Flavia Barca al Comune, quest’anno, ben due ministri: Bray per la Cultura e Giovannini per il Lavoro. Abbiamo ascoltato discorsi alti: il primo è intellettuale colto, il secondo ricercatore serio.
La lettura “da sinistra” della crisi in atto (secondo Federculture, nel 2012 i consumi culturali sono caduti del 12 %, i Comuni hanno ridotto le risorse allocate alla cultura dell’11 %, gli sponsor privati hanno tagliato budget per il 42 %: in sintesi, un disastro) propone nuovi stilemi: abbiamo a che fare con amministratori pubblici senza dubbio più sensibili (e preparati e colti), ma il “pianto” resta del tutto simile: “no hay dinero” e quindi le “policy” restano belle intenzioni.
In sostanza, le analisi sono più evolute, finanche raffinate, ma la risposta concreta è la stessa: in questo, l’esecutivo Letta mostra la stessa insensibilità e colpevole inerzia dell’esecutivo Monti, così come di quello precedente ancora (eccetera eccetera eccetera).
Verrebbe da sostenere, ascoltando le analisi (e le lamentazioni) di Massimo Bray e Enrico Giovannini: cambia la “retorica”, non cambiano le “pratiche”. Questa dinamica è molto deludente, ancor più per chi sperava in un “new deal” da parte di amministratori giustappunto più sensibili rispetto alla cultura.
È quindi quasi paradossale ascoltare bei discorsi, migliori discorsi, se, alla prova dei fatti, questi ministri non si rivelano (non si rivelano ancora? beneficio di inventario perché sono al potere “soltanto” da due mesi?!) sostanzialmente differenti dai Bondi e dagli Urbani (per citare due ministri-simbolo della non politica culturale del centro-destra). «Parole-parole-parole» (ricordiamo, da cultori del diritto d’autore, che la canzone è divenuta famosa grazie a Mina nel 1972, ma il brano è stato composto da Gianni Ferrio, con testo di Leo Chiosso e Giancarlo Del Re).
Parole più suadenti, forse più convincenti nell’elaborazione teorica, ma di fatto soltanto parole.
Roberto Grossi, nel suo come sempre appassionato intervento, ha chiesto: sostenere i consumi delle famiglie grazie alla detraibilità delle spese per la cultura, promuovere il lavoro giovanile con un piano per l’occupazione culturale, rilanciare la produzione cancellando le norme che ostacolano l’autonomia di capacità di programmazione di enti e aziende. Sagge tesi, di cui non si trova alcuna traccia nell’azione di Governo.
Ma il Ministro Bray, nella sua prima intervista, ha sostenuto che non intende comunque dimettersi, anche se continuerà a ricevere schiaffi dalla sua stessa compagine di governo (basti pensare alla incredibile vicenda del tax credit de-finanziato…). E ardua intrapresa si rivela quella del Ministro Giovannini, gran teorico di quel benessere equo e sostenibile che dovrebbe avere nella cultura il proprio volano. Parole, nuovamente. Belle parole, ma soltanto parole. Se questo è il risultato di un Pd o di un Sel partiti “di lotta e di governo”, temiamo che il dissenso qualunquista dei grillini finirà per crescere ancora nei consensi di un elettorato sempre più stanco, esausto, esasperato.
Il titolo dell’edizione 2013 del rapporto Federculture (per i tipi di 24Ore Cultura) è “Una strategia per la cultura. Una strategia per il Paese”. La crisi è profonda, lo sconforto diffuso, gli interventi teorici, la speranza svanisce.
Quale… “strategia”, di grazia?! Il respiro strategico resta pia intenzione, a fronte della carenza di ossigenazione nel breve periodo.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Ieri, 19 giugno 2013, si è tenuta a Roma, nella cornice pomposamente istituzionale della sala che la Camera dei Deputati ha dedicato ad Aldo Moro (non sappiamo quanto l’eterodosso celebrato avrebbe in realtà apprezzato…), una giornata in memoria del più famoso Assessore alla Cultura d’Italia: Renato Nicolini (1942-2012), assessore nelle giunte romane guidate da Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli ed Ugo Vetere (1976-1985).
L’iniziativa, promossa da uno dei cinque figli, Ottavia (che si professa filosofa di professione) e dall’ultima compagna, l’attrice Marilù Prati, ha rappresentato un’occasione stimolante di riflessione, sia sulla politica culturale sia sulla politica italiana tout-court.
Brillante – come sempre – l’intervento di Stefano Rodotà, che ha ricordato come tutta l’esperienza politica e personale di Nicolini rappresenti la lotta al “riduzionismo”, ovvero al tentativo di ridurre la politica ad amministrazione del contingente, a rapporto con “la polizia ed il mercato”, allorquando dovrebbe essere invece continuo invito alla provocazione creativa, alla “fantasia al potere”. Rodotà ha rintracciato nelle teorie e pratiche di Nicolini la radice della sua idea di cultura come “bene comune”.
Il neo eletto Sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha ricordato di aver conosciuto Nicolini quando, allora al Policlinico Gemelli, fu il medico curante di colei che scoprì essere la madre dell’Assessore, e ha ricordato la fascinazione subita nei confronti di un uomo che aveva il dono di essere lieve anche nei momenti di tristezza, con un sorriso sempre un po’ malinconico (atteggiamento che peraltro molto affascinava le donne). Il Sindaco ha approfittato dell’occasione per annunciare che l’edizione 2013 dell’Estate Romana, che era a rischio a causa di un bando surreale emanato negli ultimi giorni della Giunta Alemanno (incredibile caso di bando che si dichiara subordinato all’eventuale – ?! – acquisizione di risorse…), si terrà, avendo reperito le risorse necessarie (almeno 2 milioni di euro, a fronte di una richiesta minima di 2,5 milioni da parte delle cosiddette “associazioni storiche” della manifestazione romana).
Franco Purini, amico e collega del Nicolini architetto sin dai tempi dell’Università, ha ricordato come Renato sia stato interprete di una lettura trasversale di autori che hanno formato la sua poliedrica personalità: da Nietsche a Gramsci a Debord. L’Estate Romana (progetto tutt’altro che “effimero”, se è vero che sopravvive dopo oltre trent’anni: la prima edizione risale al 1977) è in effetti un esempio eccellente di una logica (post-moderna) di ibridazione di linguaggi, di superamento della separazione ideologica tra culture alte e culture basse, nonché l’avanguardistico tentativo di “riappropriazione” della città, di rifondazione urbanistica, di ridefinizione degli spazi della socialità, da parte della cittadinanza.
L’organizzatore culturale Andres Neumann ha evocato l’immagine dello “sciamano”, per rappresentare la capacità di Nicolini di vedere oltre, di cercare di costruire realtà ispirate all’utopia.
Sono poi intervenuti Vincenzo Frustaci, dirigente dell’Archivio Capitolino, e Donato Tamblé, Soprintendente Archivistico per Roma ed il Lazio, che hanno comunicato che la biblioteca e l’archivio personale di Nicolini, messi a disposizione dalla famiglia, sono stati dichiarati proprio il 19 giugno beni di interesse culturale e storico nazionale, e verranno quindi messi a disposizione della collettività.
Infine, va segnalato che è stato pubblicato dalla Camera dei Deputati un libro che raccoglie gli interventi di Nicolini durante la sua attività parlamentare: è stato deputato per 3 legislature (IX, X e XI) ovvero dal 1984 al 1994, prima nelle fila del Pci e nel 1992 come esponente del Pds.
Nonostante il livello qualificatissimo degli interventi e la stimolazione intellettuale provocata, abbiamo percepito una qual certa nebbia farisea nella celebrazione della memoria del Nostro: stupisce molto che nessuno abbia nemmeno fatto cenno a come la “carriera politica” di Nicolini sia stata sostanzialmente interrotta quando nel 1993, in dissenso rispetto al proprio partito, decise di non sostenere la candidatura di Rutelli come possibile Sindaco di Roma, e si candidò con una lista autonoma, denominata “Liberare Roma” (si osservi che lo slogan “liberiamo Roma” è stato peraltro ripreso da Marino nella sua recente campagna elettorale).
Ne scrivo a ragion veduta, perché sono stato il responsabile della comunicazione della sua campagna elettorale, autofinanziata francescanamente: Nicolini ottenne un 8 % dei voti, al ballottaggio fu poi eletto Rutelli, Nicolini frequentò poi per un qualche tempo Rifondazione Comunista, ma mai tornò a ricoprire ruoli, a livello nazionale o locale significativi, se non quando Bassolino Sindaco lo chiamò, per una breve stagione (dal 1994 al 1997), come Assessore alla Cultura di Napoli. Nessuno ha ricordato che nell’estate del 2009 decise di prendere la tessera del Pd e prospettò una candidatura (che autodefinì “creativa e democratica”) alle primarie, cui presto rinunciò, rendendosi conto che aveva contro, ancora una volta, “il partito”.
Ad inizio 2010, aveva pubblicamente sostenuto la necessità delle primarie per la scelta del candidato del centro-sinistra a presidente della Regione Lazio, dichiarando di voler partecipare alle stesse. Poche settimane prima di morire (soffriva da tempo di una terribile malattia), pubblicò su “il Manifesto” (il 28 giugno 2012) un articolo che così iniziava: “Confesso di restarci un po’ male, quando vedo che nessun giornale o gruppo associa a sinistra il mio nome alle ormai prossime elezioni per il sindaco di Roma”. Come dire?! La passione e la tenacia, nonostante le batoste, non l’avevano certo abbandonato.
In sostanza, Nicolini rappresenta la figura di un politico irrituale ed anticonformista, un uomo colto e creativo, un intellettuale umanista, un artista eccentrico, sganciato dalle dinamiche della partitocrazia, vecchia e nuova, tollerato fino a quando non ha superato i “limiti”.
Alessandra Mammì ha intitolato un suo intervento su “l’Espresso” con un efficace “Nicolini, il Grande Escluso”. Spesso emarginato, comunque visto con sospetto dagli apparati vecchi e nuovi. Emarginato in vita e celebrato post-mortem: un po’ come avvenuto per Pasolini (che certamente aveva tratti comuni con Nicolini, entrambi agli antipodi rispetto all’idea di “intellettuale organico”), la “buona società” si rivela spesso abile nel cordoglio, ma non riesce a ben mascherare il respiro di sollievo per essersi liberata di un personaggio scomodo.
La lungimiranza che mostrarono i sindaci (comunisti) Argan, Petroselli e Vetere nei confronti del giovane Nicolini fu un atto di coraggio (soprattutto in considerazione dei tempi), rispetto alla conservazione che spesso caratterizza le macchine burocratiche dei partiti.
Nessuno ha però adeguatamente enfatizzato, nella celebrazione in memoria, la radicale diversità (caratteriale, culturale, arriverei a sostenere antropologica) di Renato rispetto alla gran parte dei “politici di professione”. Era veramente… un diverso!
Tutti hanno poi evocato l’Estate Romana, assurta quasi a dimensione mitica, dimenticando che negli ultimi anni Nicolini aveva assunto una posizione molto critica rispetto alla degenerazione mercantile che la sua idea aveva subito nel corso del tempo.
Si era (si è) esaurita la carica di innovazione e di trasgressione, e l’Estate Romana si è andata via via trasformando in una sorta di inutile bazaar culturale, in un banale supermarket dello spettacolo. Crediamo che questa visione critica di Nicolini verso la sua stessa creatura debba stimolare il Sindaco Marino, al fine di una lettura innovativa del mercato dell’offerta e della domanda culturale capitolina, che ha necessità di nuove invenzioni, nuove provocazioni, nuove trasgressioni.
Non di riprodurre l’esistente, ma osare: sperimentare nuove forme e nuovi linguaggi e… nuovi luoghi finanche. È certamente importante assegnare risorse alle “manifestazioni storiche” dell’Estate Romana (almeno per garantire l’occupazione, verrebbe ad aggiungere!), ma è forse più importante e strategico ragionare sul senso e sulla validità della mera riproposizione di un intervento pubblico che attualmente finisce per riprodurre quel che il mercato è ormai in grado di produrre da solo.
Nessuno, infine, ha ricordato che nonostante si tratti di uno dei concetti che più hanno reso famosa Roma negli ultimi 40 anni in tutto il mondo, incredibilmente non esiste una monografia sull’Estate Romana, né un saggio critico sull’esperienza politica, culturale, artistica di Renato Nicolini.
Quali le ragioni di questa incredibile rimozione??? Di fatto, l’unica pubblicazione è il suo libro di memorie, “Estate Romana 1976-1985. Un effimero lungo nove anni”, ripubblicato l’anno scorso dalla Città del Sole (la prima edizione era stata pubblicata nel 1991 da un editore il cui nome era tutto un programma, Sisifo…). Qualche riflessione storico-critica è contenuta nel nostro contributo al saggio a più mani pubblicato nel 2008 da Donzelli “Capitale di cultura. Quindici anni di politiche a Roma”, scritto con Gianni Borgna, Roberto Grossi, Carlo Fuortes, Franco Ferrarotti, ma quella voleva essere una piccola traccia che purtroppo non ha avuto gli adeguati sviluppi di ricostruzione politica e culturale di una esperienza profonda.
Mentre il Sindaco lasciava la Sala Aldo Moro, scusandosi per la necessità di tornare in Campidoglio per perfezionare la gestazione della Giunta, qualcuno ha simpaticamente urlato: “Sindaco, ci dia un Nicolini assessore!”. Magari fosse. Avrà Marino il coraggio necessario per affidare l’incarico ad una persona lontana dai poteri forti (anche del sistema culturale romano) e soprattutto fuori dal coro, per dare voce (e palcoscenici) alle infinità diversità che Roma ancora non riesce ad esprimere?! Ce lo auguriamo.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale
Particolare attenzione viene rivolta in questi giorni all’azione di governo conclusasi con l’elaborazione del cosiddetto “Decreto Fare”. Allo stato attuale, non è ancora disponibile una bozza del decreto, che è in fase di elaborazione a seguito delle modifiche apportate. Il solo materiale disponibile è un comunicato stampa diramato dalla Segreteria della Presidenza del Consiglio.
Questo decreto rappresenta il primo vero risultato del governo Letta e tiene conto delle raccomandazioni che il Consiglio Superiore Europeo ha indirizzato al governo italiano in data 29 maggio 2013.
Tra le numerose tematiche affrontate, ha suscitato notevole interesse quella relativa al rispolvero dell’Agenda Digitale.
Com’è già stato sottolineato in tempi non sospetti da Tafter, l’Agenda Digitale è un progetto molto più ambizioso e complesso di quanto si possa intuire dai resoconti della stampa nazionale. La Digital Agenda è, infatti, una delle iniziative faro promosse dall’Unione Europea per l’attuazione della strategia di sviluppo Europe 2020, che fissa obiettivi, strumenti e desiderata da raggiungere entro la scadenza dell’attuale decennio.
La piena attuazione della Digital Agenda prevede la realizzazione di 101 azioni legate a 7 tematiche principali (pillar) che spaziano dal mercato unico digitale alla interoperabilità e creazione di standard, dalla sicurezza alla realizzazione di reti veloci e ultra-veloci, passando per ricerca & innovazione, inclusione digitale e sviluppo di competenze digitali, al fine di rendere le tecnologie digitali utili alla società europea.
Nella fattispecie, i punti su cui il nostro governo si è pronunciato rispondono, stando a quanto asserisce il comunicato stampa, a tre attività principali: la costituzione di un domicilio digitale, così come quella del fascicolo sanitario elettronico, e all’offerta di wi-fi pubblico e “libero come in Europa”.
Oltre a questi interventi operativi è stata inoltre realizzata un’agenzia per l’agenda digitale ed è stata espressa la volontà di Razionalizzazione dei Centri di Elaborazione dei Dati.
Questi interventi sono la risposta (anche se non concreta) alla raccomandazione che il Consiglio Superiore Europeo ha espresso, sia pur sinteticamente, nel documento ufficiale rivolto all’Italia. L’intento è piuttosto chiaro: rendere il wi-fi pubblico più user-friendly dovrebbe rispondere sia agli obiettivi fissati nel contesto della strategia europea sia al fine di “potenziamento delle comunicazioni a banda larga, tra l’altro al fine di superare le disparità tra nord e sud”, espressa dal consiglio.
La realtà è tuttavia alquanto differente, e pone un problema di trade-off tra facilità d’utilizzo e sicurezza del wi-fi pubblico. Dato che entrambi i princìpi sono inseriti all’interno delle azioni contemplate dalla Digital Agenda, la possibilità che uno dei due sovrasti l’altro è da escludere.
Ma approfondiamo l’argomento: il Decreto Fare, nel caso rimanga coerente con il comunicato che ne anticipa i punti, libera l’utilizzo del wi-fi pubblico dall’obbligo di inserimento, ad ogni utilizzo, delle credenziali d’accesso, a patto che il gestore continui a poter identificare di fatto l’utente attraverso la lettura del codice MAC. Questo codice è il codice di identificazione univoco che le aziende assegnano a ciascun esemplare dei propri prodotti, e pertanto potrebbe essere una comoda soluzione per identificare, senza gravare sulla facilità di utilizzo, l’utente di un determinato servizio.
Il condizionale è però d’obbligo perché in rete sono disponibili numerosi software in grado di modificare il MAC. Questo renderebbe facilmente falsificabili le credenziali d’accesso, e ciò sarebbe nettamente in contrasto con quei princìpi di sicurezza che fanno da contraltare allo sviluppo delle NGA.
La questione, piuttosto delicata, non è sicuramente di facile soluzione in quanto in capo ai gestori della rete grava la responsabilità penale per i reati commessi dagli utenti non identificabili. Lo stallo legislativo ed attuativo che potrebbe derivare da questa dicotomia è un rischio che l’Italia non può assolutamente sottovalutare. La ratio di tale interesse verso il wi-fi è da attribuire alla posizione non certo entusiasmante che il nostro Paese occupa nella distribuzione di accesso alle reti di ultima generazione (NGA), presentando, nel report del 2013, una copertura del 14% contro quella la media del 53% degli altri Stati dell’Unione.
Scorrendo gli altri dati, tutt’altro che rosei, che riguardano il nostro Paese in termini di agenda digitale, è possibile inoltre capire la ragione di un altro provvedimento menzionato dal decreto: la semplificazione della procedura per ottenere una casella di posta elettronica certificata con la quale avere un contatto con la Pubblica Amministrazione, dovrebbe servire a migliorare la casistica delle interazioni tra amministrazione e cittadini in materia di eGovernment.
In questo campo, infatti, l’Italia rappresenta (ma ormai questa è prassi) un vero e proprio paradosso: da un lato siamo tra i Paesi Guida dell’Unione in merito a servizi di eGovernment offerti ai cittadini, dall’altro il fanalino di coda della classifica che misura i reali contatti che intercorrono tra la macchina statale e le persone che amministra. Forse un numero più alto di persone in possesso dei requisiti digitali necessari ad avviare un contatto con la P.A. potrebbe migliorare la posizione che l’Italia ricopre in questo frangente, ma è evidente che non si tratta di soli mezzi tecnici quanto piuttosto di una cultura, quella italiana, che da un lato si manifesta poco digitalizzata e dall’altro anche meno incline al colloquio con i propri governanti.
Non è certo un caso che il disinteresse politico mostrato dalle sempre più basse percentuali di partecipazione al voto si manifesti anche in questo frangente.
Forse, più che di piccoli escamotage messi in atto per raggiungere i livelli imposti dall’Unione Europa, l’Italia ha bisogno di politiche credibili e fondate, che abbiano l’obiettivo di trasformare realmente il tessuto sociale di questa Nazione: ma questa è tutta un’altra storia.
A New York si sta parlando di cultura: lo si sta facendo proprio ora grazie al dibattito organizzato per il 12 giugno dall’ONU in collaborazione con l’UNESCO e a cui prenderanno parte influenti figure del comparto culturale internazionale.
Parliamo di personalità del calibro di Mr. Vuk Jeremic, il presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di Ban Ki-moon, segretario generale dell’ONU, di Irina Bokova, direttore generale ONU e di una schiera di rappresentanti istituzionali provenienti da Portogallo, Bangladesh, Capo Verde, Argentina, Jamaica, Marocco, Benin, Guyana, Senegal, Sud Africa, Brasile, Spagna.
Ad illustrare invece nel dettaglio le best practises del mondo culturale internazionale ci sarà il direttore del Metropolitan Museum, Thomas P.Campbell, il direttore dell’Orchestra Filarmonica di Belgrado e il capo servizio della sezione Musica del New York Times.
Una bella rimpatriata, verrebbe da dire, con un ordine del giorno a dir poco ambizioso: stilare le linee programmatiche dell’agenda sviluppo 2015 in ambito di cultura e sviluppo ripensando le strategie finora adottate in questo ambito discutendo sul ruolo e sull’impatto che la cultura ha per lo sviluppo dei Paesi del mondo.
Il meeting internazionale, così si legge nel draft programme, è stato fortemente voluto soprattutto in luce dei risultati ottenuti durante Rio+20, in cui con forza si è evidenziato come scienza, tecnologia, innovazione e cultura saranno fondamentali per il raggiungimento dei MDGs (Millennium Development Goals).
Le domande a cui gli esperti di tutto il mondo e i rappresentanti dei vari paesi dovranno rispondere sono:
– Come potrà la creatività contribuire ad uno sviluppo sostenibile?
– Quale il ruolo del patrimonio culturale e della creatività nell’assicurare uno sviluppo integrato delle società?
– Come la creatività e i beni culturali potranno garantire una crescita economica sostenibile?
– Come la creatività e i beni culturali potranno portarci verso un’urbanizzazione e una crescita più bilanciata?
– Riusciremo a sfruttare la cultura come mezzo di pace e riconciliazione tra popoli?
I documenti ufficiali stilati durante il dibattito verranno resi noti tra qualche giorno. La speranza è quella di ottenere un Report che indichi le attività da intraprendere e le risorse, sociali ed economiche, a disposizione.
Certo, dopo il fallimento di Rio+20, nulla lascia presagire dossier densi di proposte che i vari capi di Stato siano impazienti di mettere in pratica.
Forse, dovremmo semplicemente rallegrarci del fatto che si sia sentita l’esigenza di un meeting internazionale dedicato alla cultura e allo sviluppo, del fatto che finalmente, dopo decenni, a livello internazionale e coadiuvati da ONU e UNESCO il mondo intero cominci ad interrogarsi su come questo strano oggetto che chiamiamo “cultura” possa davvero servire a risolvere i conflitti sociali e ad accrescere lo sviluppo sociale.
Ma verrà il momento in cui questa tiepida gioia non sarà più sufficiente. E allora, a prescindere da ogni Organizzazione Mondiale e Internazionale, ognuno dovrà dimostrare cosa può fare per un paese migliore.