daveriocrisiAll’Auditorium della Gran Guardia di Verona sold out per Philippe Daverio, invitato dalla Camera di Commercio e dal Comitato Promozione Imprenditorialità Femminile mercoledì 20 novembre per raccontare “L’arte di Inventarsi. Riflessioni per nuove strade imprenditoriali”.

Parte da Einstein Daverio, ricordando la nota affermazione che sottolinea come non si possano risolvere i problemi attuali partendo dalla stessa prospettiva in cui sono stati creati e come l’utilizzo della parola crisi sia innanzitutto espressione di un mancato desiderio di superarla.

Affrontando i diversi argomenti proposti, mette più volte in luce la versatilità appartenente al mondo femminile, in un Paese che lo sta ancora scoprendo piuttosto a fatica; creatività, visione d’insieme, capacità di pensare all’altro sono l’anima del commercio e il volano per trovare nuove strategie, anche imprenditoriali. Sottolinea poi la sensibilità storica, quasi genetica, insita in un popolo, quello italiano, evidente nel sapere riconoscere più di ogni altro la bellezza e la qualità a partire dai propri stessi sensi fisici; la sua tradizionale arguzia e spontanea lungimiranza nell’intuire i cambiamenti del mercato e nel saperli cogliere, senza necessariamente doversi ingegnare nello strutturare prassi per analisi e ricerche di settore.

Tutte qualità apparentemente in sintonia con le tipiche nicchie produttive della penisola, nonché con il suo patrimonio storico, artistico, architettonico e culturale in genere, di per sé un “grande negozio” naturale. Affinché “entrino i clienti”, servirebbe però che fosse “ben pulito e presentabile”, mentre resta purtroppo spesso legato a normative superate e non riconsiderate alla luce delle esigenze contemporanee, oppure frutto di scelte che evitano la valorizzazione, se non il buon senso. Diventa preoccupante inoltre considerare come statisticamente solo il 10% degli italiani crei prodotto, un tasso molto basso rispetto ad altri Paesi europei e che rende insostenibile l’economia nazionale.

Sarebbe necessaria una nuova consapevolezza della ricchezza e della bellezza, le quali non necessariamente devono rappresentare due estremi divisi da un divario insormontabile, ma che anzi dovrebbero fungere sincronicamente da concetti ispiratori alla base di azioni responsabili. Ci vuole una disponibilità a fare comunicazione come non si è mai fatta prima, ad andare al di là anche degli strumenti di mercato utilizzati da realtà meno intuitive e molto più strategiche della nostra, perché non bastano più nemmeno quelli e perché le crisi servono ad andare oltre. Compreso l’andare oltre se stessi, partendo dall’identità, dal “Paese che siamo”.

Ma quando l’accento della riflessione si sposta per un momento sul “Paese culturale che siamo”, con un’offerta senza pari, e su come esso abbia tutti i presupposti per divenire il motore protagonista di un’economia produttiva e sostenibile, la risposta per tradurre le parole in fatti è molto difficile da dare.

 

OMINILa rete brulica di corsi di formazione, seminari e workshop volti ad approfondire i temi della responsabilità sociale d’impresa. E’ sufficiente digitare su google le parole chiave csr, corso, master e si apre un nutrito elenco di opportunità, destinate ai professionisti che già operano nel settore, ai dipendenti delle aziende e delle pubbliche amministrazioni o ai giovani appassionati della materia che vorrebbero farne un lavoro. Tra i master più rinomati, quelli promossi dall’Università Bocconi, dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e dalla Lumsa di Roma. Questi sono, tuttavia, solo alcuni esempi dell’eccellenza formativa offerta dalle università italiane.

Eppure alcuni dubbi sorgono spontanei. Il sistema formativo, pubblico o privato che sia, non dovrebbe facilitare l’effettivo incontro dell’offerta e della domanda nel mercato del lavoro? E, ancora, siamo sicuri che in una fase storica di recessione, quale quella attuale, le aziende abbiano risorse da investire in responsabilità sociale d’impresa?

I dati relativi ai primi nove mesi del 2012 rilevati dall’Osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese del Cerved Group parlano chiaro: con una media di 200 imprese al giorno che escono dal mercato, per un totale complessivo di 55mila imprese chiuse nel 2012, la crisi è nera e le cifre riferite ai primi sei mesi del 2013 non sono certo più rosee.

Visto il contesto è d’obbligo, dunque, domandarsi quale impresa possa permettersi il lusso di investire in csr? Di certo non le piccole e medie imprese che, a causa della contrazione della liquidità e della stretta al credito praticata dalle banche, stentano ad arrivare alla fine del mese. Tendenzialmente le aziende che investono regolarmente in csr sono piuttosto quelle che possono contare su fatturati consistenti, come rilevato da un’indagine condotta da SWG per l’Osservatorio Socialis su L’impegno sociale delle aziende in Italia, 2012.

 

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paesaggioeccellenzaintervistaIn un momento difficile come questo per le imprese italiane, ci sono notizie che aiutano a sperare. L’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza” ha infatti ricevuto il prestigioso Premio Internazionale sullo Sviluppo Locale. La consegna del riconoscimento è avvenuta lo scorso 4 ottobre a Cluses, il più famoso distretto industriale francese.
Questa realtà marchigiana e italiana è stata premiata per la capacità di coinvolgere aziende diverse su temi di interesse generale, riservando grande attenzione per la preservazione del paesaggio, la tutela di prodotti di qualità e la valorizzazione del lavoro. Il Paesaggio dell’Eccellenza è inoltre da sempre impegnato a conservare quella memoria storica delle imprese e delle competenze professionali che hanno fatto del Made in Italy un valore riconosciuto in tutto il mondo.

Abbiamo voluto saperne di più dell’attività di questa associazione culturale, rivolgendo qualche domanda al direttore Alessandro Carlorosi.

 

Quando e come nasce l’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza”?
L’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza” nasce da un’ipotesi progettuale partita nel 2003 su proposta del gruppo FIMAG iniziative Guzzini, che ha istituito un comitato promotore cui hanno aderito il Comune di Recanati, l’Università di Camerino e lo Studio Conti.
Dal comitato promotore è stato elaborato un documento progettuale per la costituzioni di un Centro Studi e documentazione della realtà produttiva del distretto recanatese. Successivamente sono state coinvolte altre importanti imprese del territorio, delle vallate del Potenza e del Musone, distretto a cavallo tra le province di Macerata e Ancona a forte vocazione multisettoriale, che hanno deciso di aderire a questo progetto culturale.
Nel 2005 si è deciso di istituire questa associazione no profit. Aderirono circa 20 imprese ed alcuni enti locali, come appunto l’Università di Camerino, il Comune di Recanati, la Camera di Commercio di Macerata, formando un fronte comune estremamente eterogeneo, ma motivato nel raggiungere le finalità del Paesaggio dell’Eccellenza.

 

Quali le finalità che l’Associazione si è posta? Con quali risultati fino ad ora?
Le finalità sono quelle di perseguire scopi culturali, di promozione e valorizzazione del patrimonio industriale ed artigianale, inteso come complesso di tradizioni ed esperienze innovative, in riferimento a tecniche, tecnologie, attività della produzione, professioni, uomini e imprese. Più in generale ci impegniamo nella conservazione, valorizzazione e promozione della cultura di impresa e del paesaggio marchigiano quale elemento coesivo.
E’ stato fondamentale fare una prima consultazione con tutti gli imprenditori associati, ascoltandoli uno ad uno, cercando una via comune sulla quale abbiamo cominciato a lavorare.
La necessità primaria è stata quella di avviare rapporti con le scuole e i giovani, coinvolgendo gli istituti locali e gli stessi docenti su questi temi. Il risultato è stato quello di avvicinare, con attività concrete, l’impresa alla scuola.
Iniziative, eventi e attività hanno invece portato alla costituzione del museo del patrimonio industriale, uno tra i primi obiettivi posti nel progetto, creando in questo modo un luogo fisico per far conoscere questo patrimonio e queste storie.
Sul fronte iniziative è interessante ricordare le partecipazioni annuali alla Settimana della Cultura d’Impresa promossa da Confindustria e organizzata da Museimpresa. In queste occasioni abbiamo portato, spesso nelle Università del territorio, delle iniziative mirate a trasferire esperienze locali e nazionali, sui temi legati al lavoro e alla cultura d’impresa, invitando ad esempio importanti professionisti del settore.
Alla costituzione del museo ha contribuito anche tutto il lavoro di raccolta della documentazione che è avvenuto a seguito della realizzazione di eventi o iniziative mirate, come l’organizzazione del concorso fotografico “Paesaggi del Lavoro”. Il contest ha permesso a molti fotografi di entrare nelle imprese e raccontare i luoghi del lavoro e analizzare il rapporto tra architettura industriale e paesaggio, costituendo così un fondo di circa 500 immagini di grande valore documentativo.
Il Museo, denominato Centro Studi Il Paesaggio dell’Eccellenza, ha trovato sede stabile nel giugno del 2010 presso la Galleria Civica Guzzini a Recanati e ospita un’area permanente che racconta l’Associazione e uno spazio dove si alternano esposizioni e iniziative organizzate dall’Associazione o in alcuni casi dalle imprese associate.

 

Cosa ha significato vincere il Premio Internazionale di Sviluppo Locale?
Sicuramente è stata una grande soddisfazione per il lavoro svolto in questi anni, cominciato da zero, attraverso cui si è potuto creare un qualcosa che non esisteva nel nostro territorio. Grande soddisfazione anche per le imprese e gli enti associati, che hanno investito tempo e denaro in un progetto culturale che sta dando frutti soddisfacenti, iniziando ad essere considerato a livello nazionale ed internazionale per la sua capacità di aver messo insieme aziende eterogenee, sia in dimensioni che in produzione, con istituzioni pubbliche.
Nel contesto del Premio Internazionale di Sviluppo Locale abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con altre case history, a livello internazionale, provenienti ad esempio da Tunisia, Argentina, Marocco e altri progetti simili in altri Paesi.

 

In che modo l’Associazione si impegna nel sostenere le imprese del territorio, molte delle quali colpite dalla crisi?
Il ruolo dell’Associazione è quello di lavorare su un piano differente da quello del business e di profitto economico delle aziende. Vogliamo fornire un terreno comune, quello della cultura, in cui identificarsi e poter partire, creando una nuova occasione di dialogo tra le imprese, associate e non, e soprattutto tra le aziende e le istituzioni pubbliche per dare una solida base alla crescita futura delle comunità.

 

Quello dell’Associazione rappresenta un modo per far rete?
Attraverso il nostro progetto, negli incontri associativi, sono nate opportunità per le imprese, come commissioni di lavori sul territorio, che contribuiscono al miglioramento del paesaggio e dei centri storici, o addirittura il semplice incontro tra imprenditori durante un evento o una riunione, hanno avviato strategie comuni in campo economico. C’è un bilancio sociale, ma anche risultati in termini di possibilità di collaborazioni tra le imprese, che sono state poi proseguite sul piano commerciale autonomamente.
Ovviamente la rete è nata e prosegue con il principale intento di lavorare sul terreno della Cultura d’Impresa a favore del territorio con tante iniziative in cantiere o da avviare.

 

Quale collocazione ritiene avranno le imprese marchigiane e italiane nel prossimo futuro, anche in considerazione della concorrenza estera?
A mio avviso hanno tutti i numeri sul piano industriale e del lavoro per competere; hanno meno numeri sul piano burocratico, creditizio e in termini di politiche industriali del nostro Paese. Molto spesso, per tali motivazioni, ascoltiamo imprenditori con progetti interessanti che trovano però difficoltà a realizzarli nel contesto nazionale. Le nostre imprese possiedono però tutte le caratteristiche per vincere la crisi e la concorrenza estera.
Nello specifico, le aziende marchigiane puntano ad un ritorno sulla produzione, non dei grandi numeri, ma dall’elevata qualità. In questo caso l’associazionismo può essere utile per esportare l’idea di fronte unito.
In questo momento lo scenario economico vede venir meno l’esternalizzazione di alcune fasi produttive per gli elevati costi, soprattutto nel controllo, nella gestione e nel trasporto dei beni, che rischiano di far uscire i prodotti dal prezzo di mercato.
Le imprese del nostro distretto hanno la straordinaria capacità di ideare e realizzare i loro prodotti totalmente al loro interno, in una filiera estremamente corta che garantisce l’elevata qualità del prodotto e la capacità di creare ricchezza economica e sociale sul territorio.

 

Si tornerà dunque a produrre interamente in Italia?
Questo non so dirlo. Ma posso assicurare che esistono molte imprese nella Marche, è bene dirlo, che vantano 50, 100 anni di esperienza. Hanno dunque produzioni totalmente interne, poiché in questi anni si è creata una competenza molto alta e specializzata, e anche la tecnologia è all’avanguardia, grazie agli investimenti fatti nel tempo.
Ci sono dunque le possibilità per affermarci e farci ancora valere.

 

 

 

Associati de “Il Paesaggio dell’Eccellenza”

Acrilux – Banca di Credito Cooperativo di Recanati e Colmurano – Brandoni – Campetella Robotic Center – Castagnari Organetti – Clementoni – Fbt elettronica – Garofoli Vini – Pigini Fisarmoniche – Rainbow – Soema – Studio Conti – Valenti&Co.

Gruppo Guzzini: Fratelli Guzzini – Gitronica – iGuzzini illuminazione – Teuco

Gruppo Garofoli: Garofoli Porte – Gidea

Gruppo Pigini: Eko Music Group – Eli edizioni – Rotopress International – Tecnostampa

Gruppo Somi: Somidesign – Somipress

 

Soci onorari

Comune di Recanati – Fondazione ITS Recanati – ITIS “E. Mattei” Recanati – Università di Camerino

 

 

ortourbanoIn costante aumento, gli orti urbani sono ormai presenti in molte città italiane, piccole o grandi che siano. Nel 2013 Coldiretti ha annunciato il record totale di 1,1 milioni di metri quadri di terreno di proprietà comunale destinati a orti urbani. Inoltre, poco più di un terzo (38%) delle amministrazioni comunali dei capoluoghi di provincia li hanno inseriti tra le modalità di gestione delle aree del verde.
Complice la crisi, ma anche l’aspirazione a un’alimentazione più sana ed ecco che sempre più persone riscoprono il piacere di coltivare il piccolo appezzamento di terra messo a loro disposizione e produrre per la propria tavola ortaggi, verdure e frutti. Antiche tradizioni e segreti del mestiere si apprendono dalla rete: sono sempre più diffusi i social network, i blog e i siti dedicati. La Zappata Romana, ad esempio, oltre ad aver sviluppato una mappa online di tutti gli orti urbani della capitale, visitata ogni anno da oltre 30 mila persone, fornisce le linee guida per realizzare un orto condiviso.
La tutela dell’ambiente, insita nell’impegno a prendersi cura quotidianamente della terra, diviene dunque un momento di condivisione: lavorare fianco a fianco, scambiarsi consigli, suggerimenti e strumenti di lavoro favoriscono l’aggregazione sociale.
Questo non è, tuttavia, il solo beneficio apportato dagli orti urbani. Gli orti possono essere, infatti, uno strumento di valorizzazione del territorio e dei beni culturali. Vediamo come. È stato siglato nel maggio scorso il progetto nazionale “Orti Urbani”, promosso dall’associazione Italia Nostra Onlus con l’intento di creare una rete di orti all’interno delle città.

Il progetto, al quale hanno aderito quest’anno anche il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali e l’ANCI, mira a realizzare un’unica rete in tutta Italia, che, ispirandosi a comuni regole condivise, favorisca lo sviluppo di un’economia etica e la valorizzazione del patrimonio storico, gastronomico e culturale connesso alla coltivazione.

È esemplificativa in tal senso l’esperienza del Comune di Ostuni, che nell’ambito di tale progetto, ha deciso di riqualificare l’intera cinta muraria, andando ricreare gli orti terrazzati che un tempo caratterizzavano l’area. Coinvolgendo gli studenti alla riscoperta delle antiche tradizioni contadine e con un forte impegno dell’amministrazione comunale, si andrà a restituire al territorio un’area di circa 1.500 metri quadrati, che saranno destinati in parte a verde pubblico e in parte dati in gestione diretta ai residenti, alle associazioni e alle scuole.

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TITOLOCambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatoricambiamotutto

 

 

COSE“Innovazione” è un termine spesso inflazionato, usato molto di frequente all’interno del vocabolario odierno. Nel saggio Cambiamo tutto! “innovazione” è una parola usata con cautela, e collegata principalmente ad uno strumento che si offre a coloro che non vogliono restare con le mani in mano di fronte alla crisi: internet. Il World Wilde Web viene indicato come la causa della “terza rivoluzione industriale” che stiamo vivendo; è  il luogo in cui le cose accadono, il banco di prova per eccellenza per coloro che credono che nella vita si va avanti con il merito e con le intuizioni. Il lavoro non va più cercato, va creato, e internet – rete immensa di persone, non di computer – è lo strumento più democratico per dare vita a una società globale che si basi su “la trasparenza, la collaborazione, la partecipazione”. L’autore accredita questa tesi presentando esempi di start up, imprese o semplici individui che partiti da un’idea astratta, l’hanno perseguita e sviluppata, fino a farne un business di successo.

 

COMEIl saggio si snoda in una serie di capitoli che esplorano, con freschezza e curiosità, testimonianze concrete di come il web sia davvero la chiave per una rivoluzione positiva non solo per la vita quotidiana del singolo, ma anche per la società, la politica, la scienza, l’istruzione.
Sono storie modernissime, come quella di Vito Lomese, un giovane pugliese che ha creato il motore di ricerca globale per il lavoro, Jobrapido; o più datate, come quella del team di Perotto della Olivetti che nel 1964 presentò all’Esposizione Universale di New York, il primo “computer fai-da-te”, quando ancora l’affermazione “vedremo un computer su ogni scrivania prima di vedere due macchine in ogni garage”, sembrava una profezia strampalata. Si parla anche di idee attualissime che oggi ci sembrano assurde e ci fanno sorridere, ma che un giorno, chissà, forse avranno costituito il primo passo verso un’altra rivoluzione epocale. È il caso, ad esempio, delle stampanti 3D e della intuizione di un certo Enrico Dini di utilizzarne una versione gigante per costruire case: il rapid building. Staremo a vedere…

 

proNon è il solito manuale che ti consiglia come uscire dalla crisi con una brillante idea geniale che per magia ti renderà il nuovo Zio Paperone. È una collezione di storie reali, effettivamente accadute a gente normale, a italiani. È un saggio che serve all’Italia, un paese spesso troppo radicato in convenzioni e schemi desueti e timorosi, un paese che ha bisogno di aprirsi al nuovo con coraggio, freschezza e convinzione, preferibilmente col supporto delle istituzioni che ci governano.

 

CONTRO“Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” e le idee geniali, purtroppo, non nascono tutti i giorni sul davanzale delle nostre finestre. Gli esempi di successi sono tanti, ma per riuscire bisogna perseverare molto e non arrendersi al comparire dei primi ostacoli

 

SEGNI PARTICOLARIRiccardo Luna, l’autore del libro, giornalista di Repubblica, direttore delle riviste Campus, Romanista e Wired, ha candidato Internet nel 2010 al premio Nobel per la Pace, e ha fondato Wikitalia, associazione che promuove la partecipazione e la trasparenza politica in Italia, attraverso la rete. Per Cambiamo tutto! ha creato un sito in cui interagire con i lettori, dando vita a un libro “in progress”, che permetta di partecipare al progetto di una “rivoluzione dell’innovazione”.

 

CONSIGLIATO AChi è in cerca di ispirazione per un’idea innovativa. Chi è pessimista e vuole smettere di esserlo. Chi è ottimista (con raziocinio) e vuole una conferma alle sue convinzioni.

 

INFO UTILICambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori di Riccardo Luna, Laterza 2013, 14 euro.

1eleGlobal Chef è un prodotto e un servizio che consente di connettere le persone provenienti da diverse parti del mondo mentre cucinano, avvicinando le distanze attraverso la tecnologia degli ologrammi. Music Yue, che della “y” ha anche la forma, permette di disperdere o convertire in musica i fastidiosi rumori urbani. Ohita è un piccolo oggetto portatile e indossabile che purifica l’aria e ne consente il ricambio a casa, così come in città dove i livelli di inquinamento sono ben più elevati.

Ecco alcune delle migliori idee nate dalla creatività dei giovanissimi che hanno partecipato all’Electrolux Design Lab, il concorso che invita gli studenti di design di tutto il mondo a presentare concept innovativi per gli elettrodomestici del futuro.

La competizione, giunta quest’anno alla sua undicesima edizione, è organizzata da Electrolux, azienda leader nella produzione di elettrodomestici, che presta grande attenzione alla sostenibilità dei processi e dei prodotti.

Tuttora in corso, l’edizione 2013 ha visto 1700 designer proventi da 60 paesi nel mondo confrontarsi sul tema “Inspired Urban Living”, selezionato dall’azienda tenendo conto della crescente urbanizzazione e della conseguente riduzione degli spazi che caratterizzano la società attuale. Tre, in particolare, le aree d’interesse tra le quali scegliere: cucina social, aria naturale e pulizia facile e senza fatica.

Una volta scaduto il termine di applicazione, il 15 marzo scorso, i 100 partecipanti selezionati, accompagnati da una squadra di esperti, hanno lavorato all’ulteriore sviluppo del loro concept in vista del superamento delle successive fasi di sbarramento. Dai 20 finalisti, le cui creazioni possono essere visionate e votate dal pubblico sul blog di Electrolux Design Lab, emergerà una rosa di 8 candidati, tra i quali la giuria di esperti andrà a selezionare il vincitore. Al primo classificato saranno offerti uno stage retribuito di sei mesi presso uno dei Design Center di Electrolux e un premio di 5.000 Euro. Al secondo e terzo classificato andranno rispettivamente un premio di 3.000 e 2.000 Euro, mentre alla proposta che avrà ricevuto più voti on-line sarà assegnato un premio di 1.000 Euro.

 

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sammasterclassA Bologna (8 e 9 novembre)  e  Roma (23 e 24 novembre)

Dopo il successo della Strategic Arts Management master class che si è svolta a Milano il 4 e 5 maggio scorsi, Tools for Culture approda con il progetto SAM in altre due città italiane, Bologna e Roma, portando il suo format inconfondibile ad affrontare due  temi cruciali nel contesto dell’economia della cultura.
Mantenendo un’attenzione costante allo scenario in cui nuovi mercati culturali e nuove esigenze sociali si interfacciano con l’economia dei territori, SAM master class “L’impresa sociale e culturale“, che si svolgerà nel cuore culturale di Bologna (Urban Centre-Piazza Maggiore) l’8 e il 9 novembre 2013, intende esplorare in modo efficace il ruolo che la cultura e l’impegno verso il sociale ricoprono come driver strategico capace di ridefinire processi, prodotti e azioni dell’impresa che pone la propria infrastruttura tecnica al servizio della domanda crescente di condivisione e partecipazione.

Le imprese oggi desiderano  produrre valore per sé e per il contesto in cui si collocano, concependo il proprio rapporto con stakeholder interni ed esterni in termini di Corporate Social Responsibility. La master class bolognese vuole fornire, tanto ai professionisti della cultura quanto agli imprenditori, l’approccio strategico e gli strumenti operativi necessari all’ideazione, implementazione, finanziamento e  comunicazione di progetti di responsabilità sociale, abbandonando le nicchie e le etichette per enfatizzare le connessioni e le sinergie.

E a Roma?
Nella Capitale fanno da padrone i temi legati al marketing culturale; il sistema culturale tende sempre di più a creare un nuovo approccio strategico che parta dal confronto con i mercati , dall’analisi e comprensione delle esigenze di fruitori potenziali e reali e dalla capacità di creare un dialogo flessibile con i propri interlocutori. Il percorso di SAM master class “branding, crafting, funding the Arts”, che si terrà a Roma il 23 e 24 novembre, propone un serrato confronto tecnico che partendo dall’analisi dei mercati della cultura e dalla definizione delle componenti di un prodotto culturale, e passando per l’analisi critica del concetto di brand culturale e delle norme in materia di proprietà intellettuale e creative commons, si concluderà con i temi del crafting (la costruzione accurata dei progetti artistici), del fundraising / crowdfunding e dela comunicazione del prodotto. Lo spazio che ospiterà la master class, l’Opificio Telecom è, non a caso, un esempio di assoluto successo rispetto i temi affrontati, essendo modello di co-branding tra la Fondazione Romaeuropa e Telecom italia.

A prestissimo i programmi delle due SAM master class che renderanno Bologna e Roma arene di discussione intelligente e proficua sui temi della progettazione e gestione culturale.
“Metodi più che contenuti, approcci più che trucchi”
(M. Trimarchi)

Stay tuned!

globein1L’artigiano è l’operoso custode di un antico saper fare e l’abile creatore di manufatti che raccontano le tradizioni e la cultura del paese d’origine. Inestimabile risorsa per i paesi più ricchi, è altrettanto fondamentale in quei paesi in cui lo sviluppo tarda ad arrivare. Questi ultimi, tuttavia, a differenza dei primi, scontano una difficoltà di accesso al mercato insormontabile. La carenza di risorse, la mancanza di collegamenti fisici e infrastrutturale, le barriere linguistiche determinano, di fatto, l’esclusione dal circuito economico dei manufatti artigianali realizzati dalle popolazioni più povere, divenendo mancate opportunità.

In che modo, dunque, l’innovazione tecnologica, unita all’agire economico possono coniugarsi a favore dello sviluppo delle popolazioni rurali più povere? Come consentire l’accesso al mercato agli artigiani di questi paesi?

Queste probabilmente le domande che si sono posti i fondatori di GlobeIn, quando nel 2011 hanno creato la loro start-up, una piattaforma di e-commerce che consente agli artigiani dei Paesi emergenti di entrare in contatto con il mercato globale, ma anche uno spazio virtuale nel quale la vendita dei manufatti si accompagna al racconto della storia dell’artista che lo ha realizzato.

Cerchiamo di capire, dunque, come funziona GlobeIn, ufficialmente online dalla fine dello scorso aprile. La piattaforma risponde alla sfida di creare l’inclusione economica, individuando nella creatività, nella cultura e nella sostenibilità insite nel lavoro artigianale le leve da valorizzare per favorire il cambiamento. La ricerca degli artigiani e la collaborazione con essi sono attivate e mantenute a livello locale attraverso la figura chiave dell’artisan helper. Questi “country and regional managers”, così come definiti nel sito, oltre ad occuparsi delle questioni di ordinaria amministrazione, ovvero di corrispondere il pagamento dell’oggetto venduto e provvedere alla spedizione dello stesso, gestiscono le diverse criticità e opportunità di sviluppo del territorio, contribuendo alla crescita economica e sociale della comunità locale. L’importante funzione svolta si riflette nel modello economico individuato dai fondatori di GlobeIn. Come precisato nel sito, sono gli artigiani a definire il prezzo dei loro manufatti, prezzo che gli verrà interamente corrisposto loro al momento della vendita dell’oggetto. Rispetto alla cifra definita GlobeIn applica un sovrapprezzo del 25%, una parte del quale è destinata agli operatori locali.

 

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heralabHera, una delle principali multiutility italiane, ha lanciato lo scorso 21 maggio l’iniziativa Hera Lab: si tratta di un consiglio locale che riunisce i principali stakeholder di riferimento della società con la finalità di istituire un luogo di ascolto, confronto e proposta sulle risposte che il gruppo può dare al territorio. Obiettivo: offrire una maggiore sostenibilità dei servizi.

Con un fatturato che si attesta a poco meno di 4,5 milioni di euro e investimenti per 287,9 milioni di euro, il gruppo Hera fornisce servizi ambientali, idrici ed energetici a 249 comuni per un bacino di utenza di 3,3 milioni di cittadini e impiega in modo diretto 6.663 dipendenti di cui il 97% assunti a tempo indeterminato. Questi i numeri di una crescita costante realizzata nel corso di dieci anni di attività e solo in parte rallentata dalla crisi economica in corso. Quali sono, dunque, i punti di forza del gruppo HERA? Il suo forte legame con il territorio, la sostenibilità e la trasparenza.

Nata nel 2002 dall’unione di undici aziende di servizi pubblici dell’Emilia Romagna, alle quali si è recentemente aggiunta anche Acegas, questa giovane azienda ha mostrato fin dalla sua fondazione una grande sensibilità rispetto ai temi della responsabilità sociale d’impresa. Risale al 2003, in effetti, la pubblicazione del primo bilancio di sostenibilità ed è in occasione della presentazione del BS 2012 che sono stati presentati i risultati raggiunti nel corso di dieci anni di attività e di impegno per il territorio e con il territorio. Un percorso di sostenibilità in cui il rispetto per l’ambiente si è concretizzato, tra l’altro, nell’attivazione e nel potenziamento dei servizi di raccolta differenziata, nella scelta a favore delle energie rinnovabili e nella messa a norma degli impianti di distribuzione e smaltimento; l’attenzione alla comunità di riferimento si è tradotta in iniziative di ascolto e coinvolgimento, educazione ambientale e sensibilizzazione attraverso idee e strumenti innovativi. Si veda il progetto “Elimina la Bolletta, Regala un Albero alla tua Città”, in cui i cittadini, i comuni e l’azienda si impegnano ad attivare un circolo virtuoso per cui ogni cliente che decide di passare alla bolletta on-line, non solo contribuisce al risparmio di carta e anidride carbonica, ma genera per l’azienda un risparmio che sarà poi reinvestito nella forestazione del territorio.

 

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Quando le cose si fanno per bene, si vede! Stiamo parlando della qualità percepita all’ART FORUM WÜRTH di Capena, appena fuori Roma.
La WÜRTH, multinazionale di matrice tedesca, distribuisce materiale professionale per fissaggio e montaggio su scala mondiale. L’ART FORUM WÜRTH è uno dei 15 spazi espositivi WÜRTH (l’ultimo è stato inaugurato lo scorso 20 aprile a Rorschach, in Svizzera sul lago di Costanza), presenti in dieci nazioni europee.

Dal 2006 l’ART FORUM espone, attraverso mostre temporanee, la collezione di oltre 15.000 opere messa in piedi per volere di Reinhold Würth. La produzione e l’arte infatti, secondo Mr Würth non sono separate, ma vivono in simbiosi. Lui stesso dichiara di essere “…fermamente convinto che un contatto vivace, critico e soprattutto attivo con l’arte contribuisca alla corretta interpretazione della cultura aziendale”.
Gli ART FORUM nel mondo sono posti aperti a tutti (clienti, pubblico esterno, scuole, ecc), a cominciare dai dipendenti. E ai dipendenti si rivolgono una serie di attività ed iniziative, corsi di disegno, visite gratuite alle mostre, ed eventi ad hoc. L’arte permea la WÜRTH e le dà consistenza: attraverso l’arte la WÜRTH trasmette i suoi valori aziendali che costituiscono la sua cultura d’impresa. Oltretutto il linguaggio artistico ben si presta alle logiche di visibilità e riconoscimento dell’identità sia all’interno che all’esterno della struttura.

Numerose sono state le mostre che si sono alternate in questi anni: solo per citarne una ricordiamo la quella dedicata a Christo (Christo and Jeanne-Claude. Opere nella collezione WÜRTH, dal 21.01.2012 al 02.02.2013) di cui la collezione Würth vanta di custodire un ampio numero di pezzi. Attualmente l’ART FORUM ospita l’esposizione “TRANSAVANGUARDIA tra Lüpertz e Paladino. Opere nella Collezione Würth”, un confronto tra due artisti che si esprimono sostanzialmente attraverso la pittura all’interno della cornice della Transavanguardia, il movimento teorizzato e presentato ufficialmente da Achille Bonito Oliva alla Biennale di Venezia del 1980.

Movimento Trans e non Post, la Transavanguardia cerca oltre un nuovo modo di esprimersi, proponendo un ritorno alla pittura. La cornice storica degli anni ’80 vede gli artisti colpiti da una società in cui i media stavano creando ipertesti sempre più complessi da decifrare, e il progresso assumeva contorni diversi rispetto a quelli fino ad allora conosciuti. In un’ottica ciclica, opponendosi al concettualismo e all’Arte Povera allora imperanti, si torna dunque alla pittura e Achille Bonito Oliva teorizza per la prima volta questo movimento, inglobando, tra gli altri, artisti come Sandro Chia, Nicola De Maria, Francesco Clemente ed Enzo Cucchi, pure molto attivi in quel periodo.

La mostra si snoda tra opere di Lüpertz e Paladino mettendone in risalto affinità e differenze: in alcune la mano dell’uno o dell’altro è davvero evidente, in altre è quasi difficile individuarne la matrice creatrice. Ed è in quel momento che si capisce il senso della mostra. La Transavanguardia tedesca fu diversa da quella italiana poiché diverso era il background culturale nazionale su cui “sedeva” il movimento. I tedeschi sentivano ancora forte l’eco dell’Espressionismo, gli italiani privilegiavano maggiormente la luce e i colori accesi. Paladino si interessa di alchimia e fa suoi i concetti di maschera e simbolo creando una propria iconografia: è affascinato dalle culture tribali e compie spesso viaggi in Brasile, il primo già nell’82. Lüpertz lavora per cicli di opere, anche molto lunghi, nei quali è in grado di inserire rimandi al mito, ai classici e alla letteratura, come nel ciclo di lavori dedicati al fiume Clitunno (di cui anche Pascoli aveva scritto), o quelle in cui si focalizza sul famoso sorriso miceneo.

Completata la visita alla mostra resta l’idea di un luogo dove arte e produzione si stringano la mano, un luogo aperto a tutti. La responsabile Lidia Ciotta mette in risalto il fatto che l’ART FORUM abbia accesso gratuito e ribadisce che il museo dialoga continuamente con le scuole e la realtà territoriale, costruendosi nel corso degli anni una sua immagine di qualità e diventando di anno in anno sempre più forte e riconosciuto.

E la crisi? Che influenza ha? Il periodo non è facile, gli articoli giornalistici riportano problemi economici anche alla WÜRTH, dovuti soprattutto alla mancanza di pagamento delle aziende italiane che si riforniscono dall’azienda tedesca. Ma gli stessi commenti riportano anche che, nonostante ciò, sono rari i casi di operai messi in mobilità e si è optato piuttosto per i contratti di solidarietà. Il tutto sembra coerente con i valori aziendali dell’ “operazione WÜRTH”.

Non sarà mainstream, ma la qualità percepita all’ART FORUM è a tutto tondo. Questo significa che dietro la struttura ha lavorato bene, in maniera coerente, ed è per questo che costituisce un raro esempio illuminato di contaminazione tra cultura e produzione. Chi l’ha detto che i bulloni cozzano con l’arte?

Uscirà nelle sale il prossimo 30 maggio, il film “Slow Food Story”, nel quale il regista Stefano Sardo ripercorre la storia di Carlo Petrini, inventore e fondatore di Slow Food. La pellicola, presentata all’ultimo festival di Berlino, racconta di un percorso di cambiamento e di responsabilità sociale, nato in un piccolo paesino del Piemonte, Bra, dalla passione per il buon vino e per il buon cibo di un gruppo di amici, tra i quali spicca il carismatico Carlo Petrini.

Negli anni ’80, due eventi segnano quella che potremmo definire la storia dell’alimentazione italiana ed europea: da un lato, lo scandalo del vino al metanolo, prima di una serie di crisi che hanno visto il concetto di sicurezza alimentare dilatarsi, per essere inteso non più solo nel senso di sicurezza degli approvvigionamenti, ma anche come sicurezza dell’alimento per il consumatore; dall’altro, la comparsa dei fast food, che con l’avvento della globalizzazione si sono diffusi a macchia d’olio e che ne possono essere considerati veri e propri emblemi.

Queste le premesse e il contesto che hanno spinto Petrini a fondare l’associazione “Arcigola”, alla quale a distanza di tre anni, nel 1986, farà seguito la fondazione del movimento internazionale “Slow Food”: slow in antitesi al fast, filiera breve in antitesi a filiera lunga, territorio e valori in risposta alla standardizzazione degli alimenti e dei luoghi di consumo. Una “rivoluzione culturale e gastronomica”, così come significativamente l’ha definita il regista della pellicola, perché il cibo è cultura, è tradizione, è simbolo. Un percorso e un invito al cambiamento che va avanti da 25 anni e che da questo piccolo paesino del nord Italia si è diffuso in ben 150 Paesi, formando una fitta rete che oggi conta oltre 100.000 iscritti e 2.000 comunità, impegnate a produrre alimenti le cui caratteristiche fondamentali sono “buono, pulito e giusto”. Questo è, in effetti, il motto di Slow Food, che come si legge nel sito istituzionale, al concetto di bontà, intesa come qualità organolettica – colore, odore, sapore – dell’alimento, associa elementi afferenti i legami affettivi, identitari e, dunque, culturali, il rispetto dell’ambiente e la giustizia sociale, tanto in riferimento ai produttori, quanto in riferimento ai consumatori.

Una pellicola celebrativa che fa da corona al forte e costante impegno dell’associazione non-profit, nella formazione, nella tutela della biodiversità e delle comunità locali. Si pensi al recente accordo di collaborazione che è stato stipulato tra la Fao e Slow Food per aiutare i piccoli agricoltori dei paesi più poveri, assicurando loro più cibo e, al tempo stesso, valorizzando i prodotti e le ricette locali, in modo tale da immetterli sul mercato a sostegno dell’economia. Attività e azioni che denotano un forte impegno per il territorio e che coinvolgono il territorio stesso, alla riscoperta di un’alimentazione e di uno stile di vita più sostenibile.

 

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In questi giorni, le sale principali del museo Peggy Guggenheim di Venezia ospitano dei capolavori molto speciali. Provengono da tutta Italia e a realizzarli sono stati degli artisti unici: i bambini delle scuole primarie.
L’esposizione giunge a coronamento del progetto “Kids Creative Lab”, nato dalla collaborazione tra la Collezione Guggenheim e OVS con l’obiettivo di avvicinare i più piccoli al mondo dell’arte e di incentivarne la creatività.
Il progetto, al quale tutti i bambini possono partecipare a titolo gratuito sia attraverso la loro scuola, sia individualmente, è semplice e fortemente interattivo. Il fil rouge che lega le creazioni è il binomio arte e moda, storicamente caro a Peggy Guggenheim e fonte di ispirazione per le creazioni di Ovs. Nel sito dedicato sono illustrate, tramite dei veri e propri laboratori a distanza, le modalità di realizzazione degli elaborati artistici: quattro in tutto le possibilità, che tuttavia diventano mille grazie alla fantasia dei bambini e ai colori utilizzabili, dai bottoni e le spille fatti con la pasta modellabile agli stampini per decorare maglie e tessuti. Le fotografie delle creazioni possono poi essere caricate e condivise nella sezione del sito appositamente dedicata, che diviene una vera e propria galleria virtuale. I lavori inviati entro marzo, invece, sono confluiti nella grande installazione collettiva visitabile presso il Guggenheim fino al 6 maggio. Vincitrice è la Scuola elementare “Michele Scherillo” di Napoli, che data la grande adesione dei suoi alunni è stata premiata con 10 tablet ASUS. La mostra non è però un evento conclusivo e l’invito a partecipare rimane aperto.
La creatività come strumento che si apprende sin da piccoli e come arma per affrontare un futuro pieno di sfide; l’amore per l’arte che va stimolato, affinché possa crescere nel tempo ed essere coltivato giorno dopo giorno: questa è la forza dell’iniziativa, semplice e al tempo stesso innovativa, nata dall’incontro tra l’impegno educativo che la Collezione Guggenheim porta avanti da diversi anni e l’attenzione di Ovs ai temi della responsabilità sociale d’impresa. Il progetto, appare l’ideale prosecuzione della scelta del noto marchio del retail di coniugare sostenibilità e stile, puntando su idee innovative e sul talento dei giovani. Strategia confermata anche dalla recente creazione dell’Ovs Design Area, una piattaforma dedicata a dare spazio ai talenti emergenti provenienti dalle più rinomate scuole di moda nazionali e internazionali.

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Passeggiando per le strade del centro è capitato a ciascuno di noi di ammirare le luccicanti vetrine di Gucci, gli abiti sartoriali di Dior o le borse di Louis Vuitton con il loro indistinguibile ologramma. Qualche volta, forse, osservando la perfezione delle rifiniture e la bellezza di questi oggetti ci siamo interrogati sul lavoro necessario a realizzarli. Quanti sarti e sarte collaborano alla creazione di un abito di alta moda? Quanti abili artigiani lavorano la pelle per realizzare una borsa o un paio di scarpe? Chi sono queste persone dotate della straordinaria capacità di trasformare la materia informe in oggetti del desiderio?
Per rispondere a questa domanda il gruppo Lvhm, acronimo di Louis Vuitton Moët Hennessy, leader mondiale che riunisce i principali marchi del lusso, aprirà le porte dei propri atelier, vigneti, laboratori e palazzi.
Tornano, infatti, il 15 e 16 giugno 2013 “Les Journées Particulières”. Per un intero week-end, il pubblico sarà attivamente coinvolto in tour, visite, dimostrazioni e conferenze: insomma, un’esplorazione a tutto campo di oltre 40 esclusive sedi del gruppo, dislocate in Francia, Italia, Spagna, Svizzera, Regno Unito e Polonia. Dagli studi di Christian Dior alla casa di famiglia di Louis Vuitton, dalla sede produttiva di Guerlain a Orphin al laboratorio di Vuitton a Marsaz nella provincia della Drme, dalla tenuta viticola Numanthia in Spagna alla sede di Acqua di Parma in Italia.
Il successo della precedente edizione, tenutasi nel 2011, alla quale hanno partecipato oltre 100.000 visitatori, recandosi nei 25 siti aperti, ha spinto il gruppo francese a rinnovare e ad estendere a nuovi siti l’esperienza. Orologiai, calzolai, orafi, sarti, viticoltori e tanti altri “artisti del mestiere” sveleranno i loro antichi segreti e mostreranno il dietro le quinte del lusso.

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Mentre si discute di problemi di occupazione giovanile, crisi dell’economia e immigrazione, qualcuno ha già cominciato a voltare pagina, a cambiare paradigma per offrire ai giovani uno sbocco professionale, l’opportunità per costruire un progetto di vita. Accade in un’azienda italiana, la IFI di Tavullia, che da cinquant’anni continua a distinguersi nell’arredo per locali food & beverage grazie allo sguardo sempre proiettato oltre il presente.
L’idea si chiama start up, un servizio bar a costi accessibili (meno di 6000 euro per la configurazione basic da 3m, consegna e garanzia di 3 anni incluse) che IFI mette a disposizione delle due popolazioni attualmente in maggiore difficoltà: giovani ed immigrati, dando loro un’opportunità per costruirsi un futuro aprendo il primo bar. A raccontarlo, è il presidente di IFI S.p.A. Gianfranco Tonti, che sarà presente anche a DNA.italia il 19 aprile.

 

Quando e come nasce l’idea del vostro progetto?
L’idea nasce a cavallo tra il 2011 e il 2012, quando i dati sulla disoccupazione in Italia conclamarono quello che era già sotto gli occhi di tutti, ovverosia che le due categorie di popolazione con maggiori difficoltà a trovare un lavoro nel nostro Paese erano quelle dei giovani e dei nuovi italiani. L’ispirazione venne dall’esempio di Ryan Air, che aprì a molti, per non dire a tutti, il piacere di viaggiare in aereo in modo frequente e sicuro, attraverso l’essenzialità.

 

In che cosa il vostro progetto è innovativo?
Innanzitutto nel concept: start up è un servizio bar a tecnologie e misure standard per aprire velocemente, e con un investimento contenuto, il primo bar; un doppio deck – fronte e retro – con tutti gli elementi indispensabili a rendere un servizio pienamente operativo. La sua concezione essenziale apre alla relazione: per esempio, il piano di servizio ribassato abbatte le barriere con il proprietario, diventando una sorta di tavolo di scambio. Anche il processo industriale è innovativo: IFI ha infatti riconsiderato tutta la catena del valore di un modulo bar eliminando il superfluo, selezionando i materiali, standardizzando il più possibile e massimizzando la scala produttiva, così da arrivare a un costo essenziale per un prodotto essenziale, un esempio del saper fare italiano nella sua nuova concezione: buon gusto, alta qualità industriale, nuovo processo creativo.

 

Quali sono, a vostro avviso, i principali problemi che una start up deve affrontare?
Sicuramente la difficoltà di accesso al credito è uno degli ostacoli più severi, soprattutto per chi magari ha buone idee e voglia di lavorare, ma non ha capitali da investire. Proprio per questo con start up abbiamo contenuto in maniera così “rivoluzionaria” il costo di tutto ciò che è necessario al servizio bar. I riscontri che abbiamo avuto ci confortano: l’investimento così contenuto ha consentito a più di un nuovo imprenditore di aprire il suo primo bar. Per alcuni di loro era un sogno; abbiamo raccolto delle testimonianze nel blog www.iltuoprimobar.it, dove tra l’altro diamo consigli dall’A alla Z su cosa occorre per aprire un bar, dalle normative ai suggerimenti pratici per realizzare un locale.

 

Pensate che il fatto di essere italiani vi abbia favorito o svantaggiato?
Da parte nostra possiamo solo dire che, pur essendo la nostra un’azienda che esporta nel mondo, tutti gli stabilimenti della IFI sono in Italia, e i nostri collaboratori lavorano nella zona tra le province di Pesaro e Rimini. Anche nella scelta dei fornitori, privilegiamo le realtà a noi più vicine, con le quali abbiamo instaurato un legame nel tempo. Viviamo un momento epocale, dove il made in italy non può più vivere di rendita. Il nostro made in Italy è frutto di investimenti in design, ricerca e sviluppo e capacità manifatturiere che arrivano da una tradizione continuamente capace di rinnovarsi.

 

Per iscriverti al DNA.pitch e partecipare all’elevator pitch dei Start Up – IFI, prenota gratuitamente il tuo posto in sala qui

Il sostegno all’arte può venire dalla responsabilità sociale d’impresa? E l’arte può a sua volta aiutare le imprese a riscoprire gli elementi creativi che spesso giacciono sopiti all’interno dell’azienda? La risposta è affermativa, come ben sanno le imprese che hanno scelto l’arte quale strumento per parlare di sé, quale mezzo per interagire con il territorio e per migliorare le relazioni con i propri dipendenti.
La casa farmaceutica tedesca Bayer, che nel 2013 celebra il suo cinquantaseiesimo anniversario, ha deciso di esporre per la prima volta al pubblico la propria collezione d’arte, tra le più antiche della Germania. Parte delle circa 2mila opere, collezionate nel corso di quasi un secolo di storia, potranno essere ammirate al Martin-Gropius-Bau di Berlino fino al 9 giugno. La mostra “Da Beckmann a Warhol. Arte del XX e XXI secolo” ricostruisce attraverso oltre 240 opere il rapporto di lunga data tra la casa farmaceutica e l’arte cominciato nel lontano 1909, quando l’allora amministratore delegato Carl Duisberg commissionò un suo ritratto al pittore Max Liebermann. Una passione che nel tempo ha portato la Bayer a collezionare più di 5mila opere, un selezionato nucleo delle quali ha dato vita nel 2002 alla “Collezione Bayer”. Come si evince dal sito istituzionale dell’azienda, il sostegno al mondo dell’arte, con progetti che spaziano dal teatro, alle arti visive e alla musica, è animato dalla ferma convinzione che la crescita culturale delle persone e la tutela dei capolavori ereditati dalle civiltà del passato siano ambiti prioritari d’intervento.
Rimanendo in territorio tedesco, altro esempio significativo è quello della Deutsche Bank, il cui impegno nell’arte è ormai da molti anni consolidato. L’istituto finanziario tedesco dispone di una delle più ampie collezioni corporate d’arte contemporanea nel mondo, la cui raccolta è animata dall’innovativo principio elaborato negli anni ’80 di “Art Works”, ovvero l’arte contemporanea che, entrando in un luogo non convenzionale come la banca, rompe gli schemi e apre nuovi orizzonti, influendo in modo positivo sulla creatività dei collaboratori.

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Il consumatore è un attore centrale nella società contemporanea. Da destinatario passivo di messaggi pubblicitari, privo di diritti e di tutele, nel corso degli anni ha assunto un proprio status giuridico anche grazie alla pressione della comunità europea. La legge italiana lo definisce come “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Una persona fisica pensante, che al momento dell’acquisto può fare delle scelte ben precise. Può scegliere di consumare in modo sostenibile e le sue decisioni sono oggi più che mai in grado di influenzare le strategie imprenditoriali delle aziende. Informandosi, infatti, i consumatori hanno la possibilità di optare per quei prodotti che sono attenti all’ambiente, naturale e sociale, e premiare quelle aziende che adottino comportamenti socialmente responsabili. La responsabilità sociale d’impresa (RSI), definita dall’UE come “la responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”, riguarda dunque da vicino tutti gli attori coinvolti nella filiera della produzione, consumatori compresi. Eppure, un’indagine presentata nel 2011 dal Consumers’ Forum, ha rilevato che il concetto di responsabilità sociale d’impresa è ancora poco noto presso i consumatori europei – in Italia solo il 17% ha dichiarato di averne sentito parlare. Dalla ricerca, inoltre, emerge che essi, pur propensi ad effettuare acquisti sostenibili, mostrano scarsa fiducia nei confronti dei produttori e delle loro dichiarazioni, dato che risulterebbe ancor più negativo se il medesimo sondaggio fosse riproposto oggi, a seguito dello scandalo delle carni di cavallo.
Il ruolo dei consumatori è, dunque, fondamentale; tuttavia essi non ne sono ancora pienamente coscienti. Ma qualcosa sta cambiando. Le istituzioni europee già da qualche anno e, in particolare, con l’adozione della Strategia sulla RSI 2011-2014, si sono attivate nel promuovere il “market reward”, volto a far sì che il mercato premi le aziende socialmente responsabili. Anche l’Italia si è recentemente dotata di un Piano d’azione nazionale sulla RSI 2012-2014, nel quale si ribadisce la necessità di sensibilizzare i consumatori e di instaurare un dialogo tra questi e le imprese.

 

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L’elemento centrale del turismo industriale è la visita ai luoghi, alle strutture e agli oggetti che portano alla conoscenza diretta di quelle che sono le persone, le metodologie, gli strumenti e i processi delle attività produttive di un luogo ovvero a toccare la sua essenza materica. Gli ambiti di visita spaziano dall’archeologia industriale ai musei di impresa, dalle visite ad aziende di prodotti e servizi ai distretti industriali, dai villaggi industriali agli spacci aziendali. All’ultima edizione della Borsa Italiana Turismo è partita, dallo stand della Regione, la nuova fase del movimento Turismo industriale in Friuli Venezia Giulia. Con una trasversalità di competenze tra turismo, marketing e imprenditoria, il progetto Turismo industriale incubato dal 2006 all’interno dell’universo Confindustria, ha visto la partecipazione di aziende fortemente innovatrici anche nei settori del Design, del Food & Beverage, della Green Economy.

Industria e Turismo Andata & Ritorno ora diventa Associazione senza scopo di lucro e dalla sua nuova sede in provincia di Udine lancia proposte ambiziose. L’Associazione porta con sé il progetto di Turismo industriale dalle radici impegnandosi a proseguirne l’attività con l’apertura a nuove competenze e nuove relazioni regionali ed europee per la valorizzazione del territorio. Possono aderire all’Associazione Industria e Turismo Andata & Ritorno, in rete d’impresa, tutti coloro che attivamente operano nei settori delle attività produttive, della cultura, dello sport, della formazione. I grandi marchi e le originalità della Regione FVG saranno potenzialmente coinvolti nella creazione del nuovo Circuito Turistico Industriale. Ai soci fondatori, oltre a Giuliana Quendolo e Marino Firmani promotori di tale corrente, si è unito, tra gli altri, l’imprenditore Raffaele Caltabiano portando la sede per l’Associazione ora collocata nel parco dell’ex Amideria Chiozza di Ruda (UD), esempio significativo di archeologia industriale.

Proporre un ampliamento della gamma di prodotti e servizi turistici da parte del territorio con l’offerta complementare di un circuito turistico industriale ha l’obiettivo di costruire un turismo capace di attirare il visitatore verso un viaggio di scoperta del paesaggio nella sua complessità. Per questa via, le radici locali attualizzate arricchiscono con opportunità di business il territorio con l’avvio di nuove filiere che sanno proiettarsi oltre il già noto. Con questo progetto si suggerisce una valorizzazione del luogo attraverso un turismo in forma integrata che vede tra i protagonisti, oltre agli operatori turistici in senso stretto, l’enogastronomia, il commercio, l’industria, l’artigianato, l’arte e la cultura. In altre parole, una serie di proposte che invitano all’analisi di un contesto. Le visite offerte andranno ad integrarsi con quelle consolidate dei circuiti storico-artistici consentendo di conoscere una “area ecologica”. In realtà, come nessun altro tipo di turismo, quello industriale permette di entrare a fondo in un territorio e di leggere così il paesaggio. L’azienda come “luogo aperto” del resto è al centro di un sistema di relazioni materiali e immateriali. Un’impresa è soggetto di una comunità e di relazioni, le stesse che ora consentono un’inedita esperienza: l’apertura all’innovazione, al cambiamento, al luogo sociale.

Per ulteriori informazioni l’indirizzo email è info@industriaeturismofvg.it

Foto: “Fabbrica corpo, archeologia industriale”. Autore Flavio Milandri, Forlì

 

Crescente è l’attenzione da parte di imprese e istituzioni per la Corporate Social Responsibility (CSR), in italiano la Responsabilità Sociale d’Impresa.

Ma che cosa è la CSR? Definita dall’Unione Europea come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, la CSR è un nuovo modo di fare impresa attento alle ricadute sociali e ambientali derivanti dalle attività economiche svolte. L’unica via percorribile per crescere in modo sostenibile.

Si potrebbe pensare, dunque, che la questione riguardi solo le imprese. Niente di più sbagliato. La CSR riguarda tutti noi. Scegliere la sostenibilità è un gesto responsabile che quotidianamente ciascuno di noi può attuare, premiando quelle aziende attente a temi fondamentali quali l’ambiente, le questioni sociali, il benessere e la sicurezza dei dipendenti e del luogo di lavoro.
Per tale ragione le istituzioni europee si sono fatte promotrici di numerose iniziative volte a sensibilizzare i cittadini della comunità rispetto i temi della CSR, prestando particolare attenzione alle generazioni future. Sia perché i giovani di oggi saranno gli imprenditori di domani, sia perché la CSR costituisce un’opportunità di lavoro reale dato il moltiplicarsi dell’interesse delle imprese verso tale tematica.

In tale contesto si inserisce il progetto internazionale “Prince, Merchant and Citizen as one: CSR in Europe”, finanziato tramite il programma comunitario “Gioventù in Azione” e dedicato proprio ai giovani. Il progetto, al quale partecipano Italia, Portogallo, Polonia e Turchia, ha l’obiettivo di diffondere i temi legati alla CSR ai giovani, coinvolgendo a livello locale enti di formazione, imprese, istituzioni, associazioni, fondazioni e centri giovanili. Oltre a sensibilizzare i ragazzi, l’intreccio di attori coinvolti consentirà a livello nazionale lo sviluppo di sinergie positive tra settore pubblico, imprese e società civile, mentre a livello internazionale lo scambio di buone pratiche ed esperienze arricchiranno il bagaglio di ciascun paese partecipante.

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In questa brevissima battaglia elettorale non facciamo altro che sentir parlare di fondi, erogazioni, finanziamenti, tagli, ma da nessuno parte politica si è menzionato il “futuro”. Nessun partito ha infatti saputo disegnare con forza il quadro del nostro paese tra vent’anni, ma tanto meno con una prospettiva di 5, 10 anni, quella cui ogni governo dovrebbe guardare.
Come ci insegna il passato, i grandi cambiamenti si generano solo in seguito ad una continuità politica e di governance. E’ inoltre importante definire nell’agenda politica il ruolo delle industrie della creatività, della cultura e del turismo, per il prossimo futuro.
La Commissione europea ha presentato il 26 settembre 2012 una comunicazione dal titolo “Valorizzare i settori culturali e creativi per favorire la crescita e l’occupazione nell’UE”: in essa si stabilisce un legame strategico tra creatività e cultura, riconosciuti come elementi fondamentali di sviluppo economico e di identità comunitaria. Ricordiamo anche che questa visione era già presente nel programma Europa Creativa, progetto quadro 2014-2020, che prevede lo stanziamento di 1,8 miliardi di euro destinati a tali settori.
Di questo programma non è tanto importante la dotazione finanziaria, quanto l’indicazione di una strategia politica per l’Europa, che in Italia nessuno ha ascoltato con attenzione, cogliendo quali possano essere gli strumenti operativi idonei, volti ad assecondare simili strategie di crescita.
Con una compagine politica ancora sospinta dalle banche, dalle grandi imprese e dalle utilities, dinnanzi allo spread che risale a 380 punti e piazza affari che scende a 14.300, bruciando il 20% dell’ultimo rialzo, in questo scenario sempre più intrecciato, tra politica, economia e mondo della finanza, la nostra più grande “linfa vitale”, che sono la produzione culturale, il turismo e le industrie creative, è stritolata dai soliti noti, che verranno avvantaggiati da finanziamenti già assegnati, alimentando una classe imprenditoriale incapace di stare sul mercato, perché adagiata su un tale sistema di comodo, nient’affatto stimolante per migliorarsi e crescere.
Dinanzi alla difficoltà dei giovani di emergere, dovuta alla mancanza di politiche di sostegno alle start up, di incentivi alle assunzioni per gli under 30, con un Mezzogiorno ancora totalmente abbandonato dal governo, sebbene vi risieda la maggior parte del nostro patrimonio culturale, servirebbe il coraggio di fornire proposte a lungo termine, dotate di visioni e strumenti operativi in linea con gli indirizzi della comunità europea, di competenze e di valore aggiunto per poter affrontare la più grande sfida del nostro paese che sia mai stata tentata dal dopoguerra ad oggi.
Ora abbiamo un solo grande vantaggio: quello di aver misurato con certezza quali sono i mali della nostra politica ed è proprio adesso che possiamo sconfiggerli e correggerli.

Stefano Monti è direttore editoriale di Tafter

 

A pochi chilometri da Bologna, la città in cui è nata la prima macchina automatica italiana per la produzione di gelato, è stato da poco inaugurato il Gelato Museum Carpigiani, destinazione imperdibile per gli amanti del dolce freddo.
Il museo sorge presso la sede di Carpigiani, azienda produttrice dal 1946 di macchine per gelato artigianale, all’interno di spazi industriali ora convertiti in centro per lo studio e l’approfondimento di storia, cultura e tecnologia del gelato.
Il progetto Gelato Museum, curato dalla storica Luciana Polliotti e per il graphic design dallo studio B+C, documenta e racconta le origini del gelato artigianale, alimento fresco celebrato da cuochi, poeti e letterati: sorbetti e gelati sono il prodotto della umana ragione più raffinata affermava Filippo Baldini medico napoletano all’interno della sua opera De’ Sorbetti (1775).

Accedendo al museo, sulla rampa d’ingresso, si incontra la linea del tempo della storia del gelato, e si scopre che il piacere di degustare bevande fresche risale a molti secoli fa. Già nel 12.000 a.C a Franchthi in Grecia, si consumava una zuppa di mandorle ed aglio raffreddata ad una sorgente, mentre nel III e II sec a.C, in Mesopotamia e in Egitto, la neve fresca veniva abbinata a succhi di frutta, miele oppure vino.
Lo shrb, preparato dagli speziali arabi nel XI secolo, e il candiero, una crema all’uovo con un tocco di vin santo, realizzata a Firenze alla fine del Seicento, vengono considerati rispettivamente i predecessori del sorbetto e del gelato.
Data la difficoltà e i costi di reperimento della neve fresca e del ghiaccio, il gelato rimane fino alla fine dell’Ottocento un simbolo del potere, un dessert prelibato riservato alle classi nobili.

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