statigeneralicultura13“La cultura è una scelta che resta da fare” afferma Giorgio Napolitano durante il discorso di chiusura della 1° edizione degli Stati Generali della Cultura ed è così che il direttore del gruppo Il Sole 24 Ore, Roberto Napoletano – artefice del “Manifesto della Cultura” – esordisce alla 2° edizione degli Stati Generali. Obiettivo dell’evento è creare un proficuo momento di dibattito sulle attività, strategie e azioni in materia culturale e sottolineare l’urgenza dell’adozione di misure legislativo-economiche capaci di porre la cultura al centro dell’agenda politica del nostro Paese. Il tutto nell’ottica dell’applicazione concreta del precetto dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

Molti sono gli interventi illustri per presentare lo status quo del sistema culturale e le possibili soluzioni partendo proprio dai cinque pilastri costitutivi del “Manifesto della Cultura”: costituente per la cultura; strategie di lungo periodo; cooperazione tra Ministeri; l’arte a scuola e la cultura scientifica; merito, complementarietà pubblico-privata, sgravi fiscali.

Le proposte non si fanno attendere a lungo e ad aprire le fila è Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma. Il suo intervento, dai tratti volutamente provocatori, riscuote ampio favore e prospetta soluzioni che richiedono l’intervento fattivo del Governo: modifica della Carta Costituzionale, ritenuta obsoleta rispetto alle reali esigenze del Paese soprattutto per ciò che concerne il ruolo dei privati a supporto della cultura; gestione privata di tutti quei luoghi culturali attualmente inaccessibili per creare occupazione, economia e sviluppo; intervento della normativa fiscale a favore del mecenatismo e delle sponsorizzazioni culturali capace di garantire la totale detraibilità degli importi a sostegno delle attività culturali; centralità della cultura nella manovra economica.

Il carattere economico della cultura è il fulcro del ragionamento di Marco Magnani – Senior Research Fellow Kennedy School of Economics-Harvard University, Presidente Intercultura / A.F.S. – che cerca di rispondere alla domanda “Esiste una relazione fra cultura ed economia?”. Ovviamente sì. La cultura crea un impatto sulla crescita economica grazie all’indotto che ne deriva (si pensi ad esempio al binomio turismo-cultura e cultura-tecnologia, alla nascita di nuove professioni nel settore culturale, etc.), ma deve essere considerata nella sua accezione materiale, contenutistica e patrimoniale, se si vuole attivare il “moltiplicatore”. Secondo Magnani la cultura ingloba in sé diversi ambiti e deve essere considerata nel suo insieme per funzionare correttamente giacché è fondata sulle qualità del capitale umano, costituito dalla conoscenza implicita ed esplicita alla base della formazione del vantaggio economico. Da sola, però, la cultura non può sostenersi visto che i ricavi non riescono a coprire i costi e, pertanto, sono necessari degli investimenti, siano essi pubblici o privati, e una sua corretta gestione. Solo così si possono avere dei ritorni elevati e può scattare il “moltiplicatore”.

A rafforzare la tesi della cattiva gestione delle risorse di Magnani, è l’intervento di Giuseppe De Rita – Presidente Censis – che evidenzia il problema nella volontà della classe dirigente di mantenere i propri privilegi provocando l’impoverimento della cultura e la sua banalizzazione. Ma allora come si potrebbe risolvere la questione? Attraverso la creazione di un Masterplan per l’industria culturale a medio-lungo termine? La soluzione è di far adattare la politica culturale al territorio attraverso una crescita orizzontale delle risorse. “Solo il territorio ridà alla cultura il rapporto con la dimensione orizzontale della comunità che le sta intorno”, afferma De Rita, e sostiene che è necessario essere consapevoli dello stato reale delle cose inglobando nel masterplan il “buco nero del Mezzogiorno” e l’attuale assenza della dimensione privata.

Anche l’intervento di Patrizio Bertelli – AM Gruppo Prada – evidenzia una deficienza nel sistema culturale italiano incapace allo stato attuale di creare risorse e sostiene che “la cultura non si potrà sviluppare se il nostro Paese non prende atto che si deve investire in questi settori.”

L’intervento della Senatrice a vita Elena Cattaneo – Docente e Direttore del centro di Ricerca sulle cellule staminali Unistem Università di Milano – sposta l’attenzione sulla “ricerca scientifica e tecnica” e sulle problematiche che gli scienziati devono quotidianamente affrontare sia per i continui tagli al settore sia per l’inadeguatezza della normativa in materia. Il suo discorso sottolinea come la realtà scientifica attuale sia solcata da paradossi e come, nonostante le avversità, l’Italia sia all’avanguardia nella sperimentazione scientifica a livello mondiale. La scienza viene paragonata a un grande e desolato deserto dove gli studiosi si trovano da soli di fronte all’ignoto. Ma in questo deserto si può e si deve entrare purché si abbia un’idea e il coraggio d’intraprendere per primi strade mai solcate, visto che quando i risultati arrivano si toccano le vette più alte. Le sue parole sono permeate dall’amore profondo per la sua professione, dall’orgoglio di essere una studiosa italiana e da un’inguaribile ottimismo quando afferma “la scienza può portare lontano e bisogna esserne consapevoli ogni volta che non si investe nello studio.”

Un ottimismo che condivide insieme con Giorgio Squinzi – Presidente Confindustria – proprio in occasione della XI Giornata della Ricerca e dell’Innovazione. L’accento posto all’esigenza di investimenti per la ricerca assume un carattere ancora più significativo per il Presidente, il quale dichiara “dobbiamo ritrovare le nostre potenzialità di crescita e dobbiamo credere nella ricerca e nell’eventualità di giocare un ruolo fondamentale nel mondo. Dobbiamo crederci e fare delle scelte.”

Una ventata di ottimismo e di cambiamento arriva direttamente dalle parole del premier Enrico Letta: “Con il Decreto Valore Cultura si è creata un’inversione di tendenza: rimettere la cultura al centro dell’attenzione perché, capovolgendo le parole di un mio collega, con la cultura si mangia.” Ascoltando il Presidente del Consiglio Enrico Letta si ha la sensazione che il Governo abbia compreso realmente il valore insito e le potenzialità della cultura nella crescita e competitività del nostro Paese, soprattutto quando espone i quattro punti chiave dell’agenda politica. In primis, sull’onda del successo riscosso dalla partecipazione di ben venti città italiane alla nomina di Capitale Europea della Cultura, il Governo intende istituire annualmente la Capitale Italiana della Cultura con l’obiettivo di valorizzare le realtà territoriali del nostro Paese, di creare un fermento creativo e progettuale stimolando sia l’intervento pubblico sia gli investimenti privati e di dare un nuovo impulso al turismo di qualità. Obiettivo di Letta è di avere la prima Capitale già nel 2014, inaugurando l’iniziativa il 27 maggio, data simbolo per ricordare l’attentato agli Uffizi del 1993 da un lato e, dall’altro, aprire una nuova era della politica culturale.
Secondo punto chiave è il credito d’imposta sulla ricerca che il premier dice di “voler estendere non solo al cinema e alla ricerca ma a tutta la cultura” e prosegue affermando che i tagli derivanti dalla spending review non “finiranno nel calderone”, giacché saranno ripartiti su tre obiettivi principali: riduzione delle tasse sul lavoro, finanziamenti specifici in ambito produttivo – come la cultura, la ricerca e l’educazione – e riduzione del deficit e del debito.
Sul tema degli investimenti pubblici in materia culturale il primo ministro pone grande accento dichiarando che è necessario “migliorare i finanziamenti culturali” perché la cultura, l’educazione e la ricerca sono stati oggetto “di tagli lineari”.

Ultimo punto chiave dell’intervento di Letta è l’Expo del 2015 dove “la cultura avrà un ruolo fondamentale” visto e considerato che “l’Italia per cinque mesi avrà la possibilità di mostrare tutte le sue eccellenze”.

Da qui parte la proposta per il futuro di Benito Benedini, Presidente del Gruppo 24 Ore: “l’Expo è Italia e ci si augura che la si visiti seguendo le piste della cultura. Allora perché non si individuano venti opere capaci di rappresentare l’Italia e magari inviarle nei Paesi che parteciperanno all’Expo?” Un’idea lungimirante in grado di rifondare e riformulare l’identità nazionale su principi culturali condivisi capaci, però, di inglobare le molteplici vie tracciate sulla strada della conoscenza che fanno parte del nostro DNA culturale. Un DNA che è ben rappresentato nella sua dicotomia dall’art. 9 della Costituzione dove per cultura non si intende solo l’aspetto materiale ma anche quello immateriale, ossia un sottofondo di conoscenza tecnico-scientifica, di ricerca, di creatività e di innovazione impalpabili che vanno di pari passo con le rivoluzioni artistiche e del sapere. Un “patrimonio” a volte ingombrante da dover gestire che urge risposte e una riorganizzazione fattiva affinché la cultura non resti “una scelta da fare”, ma “la scelta da fare” per apportare una ventata di cambiamento a un sistema antiquato e zoppicante.

Come afferma Emmanuele Emanuele – Presidente della Fondazione Roma – “la cultura per me è l’energia pulita di questo Paese e dal PIL dovremmo passare al PIC, Prodotto Interno Culturale. Noi possiamo farcela. L’Italia ha i mezzi per farlo.”

Ce lo auguriamo.

 

unar13È stato presentato ieri mattina a Roma, al Teatro Orione sull’Appia, il volume “Immigrazione. Dossier Statistico 2013”, titolo che si accompagna in copertina, sempre a caratteri cubitali, a “Rapporto Unar. Dalle discriminazioni ai diritti”, realizzato dall’Idos (acronimo che sta per Immigrazione Dossier Statistico) su committenza giustappunto Unar. L’Unar opera nell’ambito del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta del primo annuario pubblicato in Italia per la raccolta di dati socio-statistici sui temi dell’immigrazione.

Per chi non conosce l’opera, si tratta di un corposo tomo di poco meno di 500 pagine, che, ormai a cadenza annuale, da oltre un ventennio (fino al 2003 curato dalla Caritas di Roma e poi dal Centro Studi Idos), propone un’interessante analisi, soprattutto quantitativa, della situazione dell’immigrazione in Italia, con molte tabelle e capitoli che affrontano le tematiche migratorie da diverse prospettive: statistiche, economiche, politiche, giuridiche.

Quel che qui vogliamo segnalare (denunciare?!) è che nel tomo, certamente prezioso, non c’è una pagina una dedicata alla cultura, allo spettacolo, alle arti, ai media: eppure i 5,2 milioni di cittadini stranieri regolarmente presenti a fine 2012 sul territorio italiano non sono – si ha ragione di ritenere – soltanto lavoratori e consumatori di beni materiali, ma anche fruitori e finanche autori di cultura. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è del 7,4 % del totale nazionale. Gli stranieri iscritti nelle scuole italiani sono poco meno di 800mila, e corrispondono al 9% della popolazione studentesca. I neonati stranieri hanno rappresentato nel 2012 il 15% di tutte le nascita in Italia. Le due comunità più rilevanti in termini quantitativi sono i cittadini del Marocco e dell’Albania, le cui comunità sono formate entrambe da circa 500mila persone; seguono i cinesi, con 300mila, ed è sopra la soglia dei 200mila l’Ucraina.

Il rapporto Idos è uno strumento certamente prezioso, e, in qualche modo, evoca l’ormai mitico rapporto annuale del Censis sulla situazione del Paese (giunto nel 2012 alla 46ª edizione): è indiscutibilmente un testo di riferimento, per chi si interessa di politiche sociali e specificamente di migrazioni. Se si vuole trovare un qualche deficit, va cercato nell’impostazione complessiva (non particolarmente critica, anzi un po’ asettica) e forse nella eccessiva parcellizzazione delle tematiche (75 capitoli!): insomma, sembra mancare una lettura critica sintetica. Una pecca anche nell’impaginazione, troppo classica, con un’architettura grafica che non invita alla lettura: non viene proposto nemmeno un grafico o una visualizzazione. Conferma di questo approccio eccessivamente tradizionale – nella rappresentazione dei dati – s’è registrata anche durante la presentazione del rapporto: la relazione di Pittau non è stata accompagnata da alcuna slide. E, per quanto accurato l’eloquio del “rapporteur”, un rapporto scientifico ha anche necessità di “rappresentazioni” visive sintetiche, e forse anche un po’ d’effetto… Questa mancanza non è compensata da un breve video curato dalla Rai, che ha cercato di estrapolare un set di dati dal rapporto, sullo sfondo di immagini di repertorio (il video sarà online su YouTube da oggi).

Al di là di questi aspetti “coreografici”, perché la presentazione e l’impostazione del volume ci preoccupa?!

Perché in tutti gli interventi, durante le tre ore di presentazione del rapporto, non abbiamo ascoltato alcuna riflessione sulla funzione della cultura come strumento di integrazione sociale, anzi di “interazione sociale” (come si usa ormai nello slang specifico della sociologia delle migrazioni). Eppure, sono proprio i media e la cultura gli strumenti che possono stimolare (o non stimolare) la coesione sociale, e la promozione di visioni plurali della realtà, che combattano esclusione e discriminazione.

Indiscutibilmente i relatori erano tutti di gran qualità e della massima rappresentatività istituzionale: dal Presidente dell’Idos Franco Pittau alla giornalista di Radio Vaticana Maria Dulce Araújo èvora, dalla Capo Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio Ermenegilda Siniscalchi, dal Direttore Generale dell’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) Marco De Giorgi alla Vice Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (con delega alle Pari Opportunità) senatrice Maria Cecilia Guerra, per arrivare alla onorevole Ministro per l’Integrazione Cécile Kashetu Kyenge.

Non una parola una dedicata alla cultura.
Va lamentato che non esiste una ricerca sulla fruizione culturale e mediale degli stranieri che vivono in Italia.

Va ricordato che pure esistono testate a stampa in lingua straniera edite in Italia, esistono emittenti radiofoniche e televisive locali che offrono trasmissioni per gli stranieri, esistono scrittori ed anche gruppi artistici – soprattutto in ambito musicale – che si impegnano a fare della cultura uno strumento di condivisione di valori, di integrazione, di coesione, di lotta al disagio, di difesa delle pluralità (ideologiche, religiose, etniche…).

Un esempio ormai divenuto famoso a livello nazionale è l’Orchestra di Piazza Vittorio, ma sono attive in Italia decine e decine di gruppi musicali multietnici, rispetto ai quali non esiste alcuna letteratura scientifica e l’attenzione dei riflettori mediali è quasi inesistente.

Come se la dimensione culturale degli immigrati fosse una variabile minore, marginale, e non invece centrale…

Quel che sembra emergere (confermata anche dall’affollato convegno di presentazione del rapporto Idos) è una sorta di “deriva economicista” del senso dello Stato: tutti gli intervenienti hanno posto l’accento su quanto gli immigrati contribuiscano ormai all’economia nazionale, come produttori di reddito, come imprenditori, come consumatori. Come se questa variabile fosse essa a poter rafforzare (ri-legittimare eticamente?!) il senso dell’intervento pubblico nel settore. Gli immigrati contribuiscono alla ricchezza economica del Paese: “quindi” sono degni di adeguata attenzione.

Diversi intervenienti hanno richiamato la stima Idos secondo la quale il “bilancio costi/benefici per le casse statali” (inteso come delta tra la spesa pubblica per l’immigrazione, da una parte, ed i contributi e le tasse pagate dagli immigrati dall’altra) avrebbe registrato un risultato positivo di ben 1,4 miliardi di euro nel 2012: insomma, rimesse all’estero a parte, gli immigrati contribuiscono anche alla ricchezza degli italiani non stranieri…

Il fenomeno (cioè questa “interpretazione”) mostra inquietanti punti di contatto con il dibattito italiano sulle politiche pubbliche a favore della cultura: ogni tanto, emerge la ricerca alfa o lo studio beta che “contano”, “misurano”, “quantificano” l’economia della cultura: fatturato, addetti, imprese, indotto, moltiplicatori e compagnia cantando… Spesso si tratta di numeri in libertà, stime simpaticamente nasometriche, ma i giornali e gli altri media se le bevono (senza scrupolo), e talvolta anche quotidiani nazionali titolano a piena pagina dati e statistiche (che non sono validate, ma che fanno effetto)! Come dire?! L’economico conta più del semiotico: non ci si sofferma sul “senso” della cultura, ma sulla sua funzione economica.

Sembra venir meno il senso profondamente civile (costituzionale, ci sia consentito) dell’intervento pubblico (e le politiche a favore della cultura non sono differenti, in questo, rispetto alle politiche sociali): se il “settore” di riferimento “pesa” economicamente, allora sembra che cresca il senso del ruolo dello Stato!

Il rapporto viene distribuito gratuitamente a chi lo richiede (www.dossierimmigrazione.it). Essendo finanziato con danari dello Stato, ci sembra una bella decisione: non sempre accade in Italia (si ricorderà peraltro che un articolo del famoso decreto, poi divenuto legge, cosiddetto “Valore cultura” prevede proprio un obbligo a rendere gratuitamente disponibili le ricerche finanziate con danari pubblici).

Da segnalare, per la cronaca, che il rapporto Idos è giunto alla 23ª edizione, ma di fatto sembra trattarsi di una edizione… n° 1. Nato in effetti in ambito confessionale, essendo stato promosso dalla Caritas e dalla Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, ma comunque caratterizzato per una bella autonomia ideologica, nel 2013 si è incrinato il rapporto fiduciario tra la Caritas-Migrantes e l’Idos. Nuovo inedito committente è giustappunto l’Unar. A fine maggio 2013, l’Idos (che pure ha sede presso il palazzo che ospita alcuni uffici della Cei), diramava un laconico comunicato stampa: “dobbiamo dirvi con rammarico che, a livello nazionale, non è stato raggiunto un accordo per poter continuare la collaborazione con Caritas e Migrantes”. Di criticità di finanziamento trattasi, sembra leggersi tra le righe.

Il Presidente di Idos Pittau ha liquidato – con grazia – questo passaggio di consegne tra committenti/finanziatori (non avvenuto forse in modo proprio sereno) ricordando un auspicio di don Luigi Di Liegro (fondatore della Caritas Diocesana di Roma), il quale pare teorizzasse che non importa lo status del proponente di una bella idea (privato o pubblico, confessionale o aconfessionale che sia), ma quel che conta è che le buone progettualità vengano sviluppate… Meglio ancora se dallo Stato, che la collettività tutta deve (dovrebbe) rappresentare e tutelare. Verrebbe da commentare, con ecumenica benedizione: “tutto è bene, quel che finisce bene”. E quindi la comunità scientifica è ben lieta che il rapporto sopravviva ai travagli tra finanziatori. Anche se Pittau, ieri mattina, ha fatto comprendere a chiare lettere, con bonomia, che il contratto per l’edizione 2014 l’Unar non l’ha ancora perfezionato.

Non riteniamo che, nel passaggio di committenza, dalla Fondazione Migrantes della Cei all’Unar dell’italico Stato, ci sia stato un salto di qualità: il rapporto era e resta uno strumento di conoscenza importante. Spiace osservare che nell’edizione 2013 non vi sia più quella pur minima attenzione che c’era nel rapporto 2012, che dedicava pagine interessanti alle testate radiotelevisive di immigrati, intitolando efficacemente “Comunicare il diverso”.

Come utilizzano internet gli stranieri che vivono in Italia?!
Che impressione hanno di come la Rai rappresenta la loro immagine?!

Si tratta di quesiti che restano senza risposta. E che pure meritano essere analizzati, perché potrebbero fornirci interpretazioni inedite di stereotipi e cliché, e forse anche strumentazione adeguata per superare le discriminazioni. Che sono frutto di degenerazioni dell’immaginario collettivo. E proprio la cultura e l’arte possono combattere in modo efficace le distorsioni

Una battuta finale sull’apprezzabile autoironia della Ministra Kyenge: ha enfatizzato come le tematiche della migrazione debbano essere affrontate meglio soprattutto dagli operatori scolastici, ed ha raccontato che, in un incontro con studenti di una scuola elementare, si è trovata qualche giorno fa spiazzata alla domanda di un bambino: “ma ministro… il vostro governo ha un programma???”. Una risata convinta s’è elevata dalla platea.

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

 

 

 

A quanti di voi è capitato di sentirsi dire: “sei tale e quale a tua madre”, “tutto tuo padre”, o ancora ” sembrate gemelli”?
La questione delle somiglianze familiari è un argomento spesso dibattuto, e accade spesso di imbattersi in chi vede similarità da noi magari non condivise.
Ad analizzare la questione, da un punto di vista quasi scientifico, è il fotografo Ulric Colette: partendo da ritratti fotografici di persone legati con rapporti di parentela, ha sovrapposto i volti rintracciando le contiguità dei lineamenti. La raccolta di questi lavori è stata non a caso chiamata “Portraits Génétiques” e mette letteralmente in primo piano le somiglianze tra genitori e figli, sorelle e fratelli, gemelli, cugini.
Ecco a voi il risultato!

Per conoscere tutti gli “esperimenti genetici” di Ulric Colette visitate il suo sito
[vimeo 10485241 w=400 h=230]

TITOLOThe Art Collecting Legal Handbookthearthandbook

 

 

COSEChiunque abbia a che fare in modo approfondito con il mondo dell’arte sa quanto sia difficile barcamenarsi tra la legislazione dei beni culturali. Una volta varcati i confini di una nazione, infatti, le normative riguardanti arte e cultura cambiano, così come cambia la tassazione, le leggi che regolano copyright e diritto d’autore, la natura e la forma dei contratti d’artista. The Art Collecting Legal Handbook interviene proprio in aiuto di coloro che in un modo o in un altro hanno a che fare con il mercato dell’arte, presentando degli approfondimenti riguardanti i Paesi europei, ma anche i mercati internazionali di Stati Uniti, America Latina, Cina, Giappone, India, Canada. Una panoramica completa e variegata che colleziona in maniera agevole i punti principali inerenti la legislazione di ogni singolo Paese analizzato.

 

 

COMEIl volume è introdotto da alcuni paragrafi di presentazione del lavoro, che si soffermano anche su argomenti specifici come l’evoluzione del mercato dell’arte o la natura del contratto d’autore. Si entra, poi, nel vivo del testo con l’Argentina per finire con gli Usa e New York, in un’analisi dei principali mercati dell’arte internazionale che viene svolta sotto forma di intervista. I curatori del volume, infatti, Bruno Boesch e Massimo Sterpi, hanno raccolto una serie di interviste ai principali esperti di legislazione culturale del territorio preso in considerazione. La tipologia di domande è sempre la stessa e divisa per settori: “cultural heritage and art market”, “purchase and export”, “peaceful enjoyment”, “sale”, “art philantropy”, “tax” e, per finire, una parte dedicata alle informazioni pratiche e ai contatti.

 

 

PROSi tratta di un testo davvero completo, non solo dal punto di vista “geografico”, in quanto analizza la legislazione di un esteso ventaglio di Paesi, ma anche dal punto di vista contenutistico in sé, trattando un’ampia varietà di argomenti, inerenti sia il diritto comparato dei beni culturali che il mercato dell’arte. La forma dell’intervista, snella e dinamica, facilita la lettura e la comprensione di argomenti che, altrimenti, potrebbero risultare ostici ai non specialisti del settore.

 

 

CONTROIl testo è reperibile solo in inglese e non vi è ancora una traduzione in lingua italiana, o in altre lingue.

 

 

SEGNI PARTICOLARIAlla fine del testo, si trovano i dettagli di contatto di tutti gli intervistati e dei loro uffici legali, di cui sono riportati indirizzo, numeri di telefono, e-mail e sito internet.

 

 

CONSIGLIATO AGallerie, musei, fondazioni, case d’aste, collezionisti, artisti, acquirenti o venditori di opere d’arte, ereditieri, studiosi e studenti di economia della cultura, di diritto, di arte e beni culturali.

 

 

INFO UTILIThe Art Collecting Legal Handbook, a cura di Bruno Boesch e Massimo Sterpi, Thomson Reuters, Londra, 2013.

mannequin-barcelona-mannequin-1927 copiaNuova tecnologia non invasiva per valutare le condizioni di salute delle opere d’arte. E’ proprio così, girando la tela e analizzandola dal retro ricercatori e conservatori del settore hanno messo a punto un metodo diagnostico in grado di capire il massimo grado di sopportazione meccanica che l’opera possa subire. Essa verrebbe quindi sottoposta a questo metodo non invasivo, costituito da luce infrarossa attraverso fibre ottiche, per scoprire la sua fragilità e capire, di conseguenza, qual è il migliore trattamento di conservazione da adottare.

L’idea nasce da un team di specialisti provenienti dalla University Collage London e dalla University of Barcelona ed è frutto della collaborazione tra ricerca, scienza e conservazione. “Come per la diagnostica medica, solo la stretta collaborazione interdisciplinare tra curatori, conservatori e restauratori può portare ad uno sviluppo realmente utile. Questo controllo non invasivo permette di migliorare il livello di gestione delle opere e curarle in ogni galleria o museo”, dice Matija Strlic, Senior Lecturer dal Centro per i Beni sostenibili dell’ UCL.

Esso si basa sulla determinazione del PH, sul grado di polimerizzazione (DP) della cellulosa e sull‘identificazione delle fibre che costituiscono la tela ottenuti tramite spettroscopia nel vicino infrarosso (NIR); ossia una metodica analitica di tipo fisico, basata sull’assorbimento di radiazioni elettromagnetiche caratterizzate nella zona del vicino infrarosso da numeri d’onda compresi tra 12800 e 4000cm-1 (780-2500 nm). Il segnale analitico che si ottiene dipende dalle proprietà chimico-fisiche del campione che durante l’analisi viene colpito da radiazioni incidenti, le quali posso essere assorbite, in parte trasmesse ed in parte riflesse. Lo spettro ottenuto, ponendo l’intensità dell’assorbimento in funzione dei numeri d’onda, è caratterizzato da picchi riferibili a gruppi funzionali specifici presenti nel campione.
Ne risulta che la spettroscopia NIR è una tecnica molto efficiente e vantaggiosa rispetto alle metodiche analitiche convenzionali: è infatti veloce, non è distruttiva, non è invasiva (nel senso che le radiazioni usate hanno contenuto energetico molto basso che non provoca un trasferimento di energia al campione sotto forma di calore). Il passo successivo dell’analisi, consiste nella statistica multivariata per permettere di costituire un modello tale da prevedere le proprietà della tela. Tutto ciò porta ad avere dei valori e delle categorie sullo stato di salute dell’opera. Le categorie sono quattro e vanno dalla prima, molto fragile, secondo la quale l’opera d’arte potrebbe non riuscire a sopportare le vibrazioni che un trasporto comporta, all’ultima, tela in buone condizioni per cui può essere tranquillamente traslata.

Per calibrare e validare questo metodo è stato usato inizialmente un campione di riferimento costituito da 199 tele appartenenti al XIX e XX secolo. Il campionario è stato ampiamente analizzato usando microscopi e metodi di analisi chimica. Una volta che il metodo ha raggiunto il giusto grado di validazione, 12 opere di Salvator Dalì sono state selezionate per essere analizzate. Ciò ha permesso di attestare il loro buono stato di conservazione scoprendo oltretutto l’uso di diversi tessuti di tela: in particolare, si è notato l’uso di un cotone di bassa qualità ed economico del giovane Dalì, quando ancora era studente, a fronte del lino di alta qualità iniziato ad usare in seguito al suo successo.

La vera innovazione viene ulteriormente sottolineata se si pensa ai metodi estremamente invasivi che finora vengono utilizzati, che prevedono il prelievo di campione, ossia l’asportazione di quantità minime di materia da sottoporre ai vari esami. Esempio sono la cromatografia, che permette di separare e dosare i componenti di un miscuglio, e le microanalisi che prevedono l’identificazione dei materiali attraverso l’osservazione al microscopio di formazioni di cristalli o di colorazioni caratteristiche a seguito di reazioni chimiche indotte.

 

 

TITOLOMusicologiamusicologia

 

 

 

COSE È possibile racchiudere 50 anni di storia della musica in un sito internet semplice e accessibile? Se si spulcia per bene il sito Musicologia, la risposta diventa magicamente sì. Non si tratta di certo di un’operazione facile, ma l’intento della pagina web è proprio quello di creare un’enciclopedia della musica popolare dal 1962 al 2012, che presenti al navigatore i brani e gli artisti che hanno fatto la storia della musica, che hanno segnato un’epoca, che generazioni canticchiano da decenni, o che i teenager contemporanei ascoltano oggi.

 

 

 

COMEEntrando su Musicologia appare subito visibile che è possibile esplorare il sito attraverso tre modalità:
1) Seguire la Timeline, cioè seguire una divisione cronologica degli eventi. Cliccando su ogni anno, appare una parte testuale che spiega i principali avvenimenti in ambito musicale di quell’anno, un elenco dei principali artisti che lo hanno caratterizzato, e la possibilità di ascoltare i brani più significativi, o di vedere un video Youtube. L’elenco, poi, viene proposto tramite una suddivisione in Easy, Medium, Hard, a seconda della difficoltà di ascolto e fruibilità dei brani proposti.
2) Procedere con la ricerca per Artista: per ogni artista è disponibile una scheda informativa e uno o più brani da ascoltare.
3) Scegliere la ricerca per Genere musicale: in questo caso, i generi, oltre settanta, sono catalogati in ordine alfabetico, dalla A di Alternative Dance alla W di World Music.
Per ogni contenuto è possibile lasciare un commento.

 

 

proSi tratta di un sito molto ben articolato, di facile fruizione, dalla grafica piacevole e divertente. Ha la peculiarità di evitare gli snobismi e di fare una cernita dei brani in base alla loro popolarità e non solo alla loro qualità musicale, presentando un quadro veritiero delle tendenze musicali di un determinato periodo.

 

 

 

CONTRONon tutti gli anni o gli artisti sono ancora trattati e sviscerati. Ma, come specificato dal creatore del sito, Stefano Masnaghetti (caporedattore della rivista Outune), si tratta di un work in progress che potrebbe essere praticamente infinito, vista l’immensità del panorama musicale popolare e la sua continua evoluzione.

 

 

 

SEGNI PARTICOLARINavigando sul sito, emerge chiaramente che si tratta di un progetto nato per passione. Stefano Masnaghetti precisa che si tratta di una visione soggettiva del panorama musicale e che “non è un lavoro enciclopedico, non è l’ennesimo Vangelo di un critico onnisciente, non è un tentativo di racchiudere in un unico luogo i dischi più “belli” di sempre. È molto di più. È il primo viaggio, interno a quella che è la colonna sonora delle nostre vite…” E soprattutto, non si tratta di un progetto chiuso, ma di un progetto in continuo divenire che cerca e stimola il confronto con altri appassionati di musica.

 

 
CONSIGLIATO AI “musicadipendenti” che vogliono condividere idee e passioni, i fruitori “ingenui” della musica che sono desiderosi di apprendere e saperne di più.

 

 

 

INFO UTILImusicologia.outune.net

fiatosospCostanza Quatriglio, ha la forza della determinazione dalla sua parte, è tenace, sorridente e non ha paura di dire quello che pensa.
La regista palermitana presenta Fuori Concorso a Venezia “Con il fiato sospeso”. Il film racconta la storia di Stella (Alba Rohrwacher), una studentessa della facoltà di chimica che si sente male a causa delle esposizioni a sostanze tossiche presenti nel laboratorio dove fa la ricercatrice. La sua vicenda si intreccia con il diario di Emanuele (Michele Riondino) un dottorando, morto di tumore, che ha seguito, qualche tempo prima, il suo stesso percorso universitario. La pellicola è un viaggio autentico intrapreso dalla regista dopo aver letto, alla fine del 2008, un articolo sulla chiusura del laboratorio di chimica della Facoltà di farmacia dell’Università di Catania per sospetto inquinamento ambientale. Contemporaneamente viene ritrovato un memoriale scritto da Emanuele in cui denuncia le condizioni insalubri del laboratorio di ricerca.
Oggi si attende la conclusione del processo che vede imputati i vertici della Facoltà. Anni di documentazioni e incontri, hanno dato vita a un suggestivo film, metafora di un paese che manda i suoi figli alla guerra.

 

 

Ci racconti il lavoro che avete fatto insieme?

Alba Rohrwacher: Quando Costanza mi ha coinvolto in questo progetto, ho detto subito di sì perché mi sembrava importante che questa storia venisse raccontata. Inizialmente ho sentito una grande responsabilità che nasce da un grande limite e in questo limite ha trovato una forma libera e nuova. Sentivo anche un pudore, un rispetto profondo, per chi quella storia l’aveva vissuta davvero. Abbiamo iniziato a lavorare e, in questi pochissimi giorni, abbiamo girato prima le scene nel laboratorio di ricerca e poi, quando siamo arrivati all’intervista, sapevo che c’era un’onestà, un rispetto vero e che quella intimità poteva uscire dal mio personaggio.

Costanza Quatriglio: Le ho parlato tante volte di quali potevano essere i sentimenti chiave di questa storia. Ho cercato di costruire un percorso insieme ad Alba che le permettesse di fare un’esperienza cui attingere per costruire al meglio il personaggio di Stella. Ti colpisce che questi ragazzi abbiano questa grande passione per lo studio e colpisce questo tradimento gigantesco che è sotto gli occhi di tutti. Quindi, da un lato abbiamo lavorato sui concetti e poi sull’esperienza in laboratorio. Questo esercizio ci ha permesso di creare quel cortocircuito che è alla base di quella relazione privata, intima di cui parlava Alba. Un film di finzione ma girato sulla base di un precipitato di realtà che sulla pellicola diventa potente.

 

Come attrice c’è una ricerca diversa. Come hai lavorato per interpretare questo ruolo?

A.R.: C’era un testo che aveva scritto Costanza e che poi è diventato nuovo nel momento in cui lei mi faceva le domande e si è arricchito poi di sensazioni, nate con le sequenze girate in laboratorio. Durante l’intervista e le giornate trascorse nei laboratori di ricerca, si è creato qualcosa di molto intimo, tra me, la direttrice della fotografia, Costanza, che era l’intervistatrice, e il fonico. Era come una confessione e non c’era la macchina del cinema a invadere uno spazio.

 

Si parla molto di Università per i tagli e per i tanti problemi di accesso allo studio. Quando vi siete accostate a questa storia, la morte attraverso lo studio, come vi siete sentite?

C. Q.: Ho considerato questa vicenda esemplare di uno stato dell’arte dell’Italia e del futuro dei ragazzi. Ho trovato ispirazione dal diario di Emanuele, dove denunciava le cose che non funzionavano in quel laboratorio. Non mi interessa più dire se è dimostrabile o no che la sua malattia sia connessa o no a quel laboratorio, quello che mi interessa dire è che, a volte, nell’Università si muore anche psicologicamente. Una morte come metafora del fatto che in questo paese, negli ultimi anni, si è persa completamente l’idea di progettualità del futuro. C’è troppo cinismo, si è persa l’idea di passione e di pietas, perché in questo film c’è anche l’amore per quello che fai e per il prossimo. In Italia oggi esiste solo un’Università verticistica che pubblica, pubblica, pubblica e basta.

A. R.: Questo film racconta anche un altro punto di vista, quello di chi va alla guerra e va verso la morte per una passione. Si, è vero che ci sono dei vertici che ti tradiscono, che ti vogliono schiacciare e ti portano nel baratro della morte, ma c’è anche un esercito che, dalla mattina alla sera, fa della loro vita universitaria una ragione di esistere. Queste generazioni spesso vengono rappresentate come perse, in un luogo smarrito. Invece, nel film, c’è una generazione cosciente e consapevole che cerca di modificare le cose e qualcuno che non permette di cambiarle.

 

Il film ha un linguaggio diverso, come ti sei trovata?

A. R.: Il film è nato mentre lo facevamo, eravamo coerenti con un sentimento e, per questo motivo, tutto poteva funzionare. Poteva funzionare che io venissi catapultata dentro un gruppo di ricerca vero che mi ha accolta, anche se non aveva mai avuto a che fare con il mezzo cinematografico e, in questo modo, anche l’intervista, prima approcciata con pudore, è diventata naturale. Dicevo sempre a Costanza che questo limite sarebbe diventato la forza del film.

C. Q.: Questa bellissima frase di Alba, mi è stata detta anche dai mie collaboratori che hanno sposato il progetto e lavorato in modo volontario. Ci sono tre cose di cui si parla sempre: la libertà, l’indipendenza e la solitudine. Questo film aveva il pregio della libertà, il privilegio dell’indipendenza, ma ha rischiato il dispiacere della solitudine. Per fortuna non è così: è bastato farlo vedere, le persone se ne sono innamorate e la Mostra del Cinema di Venezia lo ha voluto.

 

Quale reazione ti aspetti da Venezia?

C. Q.: Mi aspetto rispetto. Non è un “J’accuse” nei confronti dell’Università di Catania, non è un film a tesi, ma pone delle questioni e la principale si racchiude nella frase che il professore dice alla propria allieva: “Quando noi abbiamo incominciato a lavorare in laboratorio non sapevamo che l’amianto e il benzene erano cancerogeni”. Questa è il tema del film, noi viviamo in un paese che non si è mai addestrato al progresso. In Italia c’è la classe dirigente più vecchia d’Europa e se tu lavori e studi con delle categorie concettuali vecchie di sessanta anni, è chiaro che sei sempre ancorato al passato e non pensi mai al futuro. Questa è la vera riflessione.”

 

senatosedEra stato facile l’esordio del Cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo: “ … si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici; per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti”. Erano tempi in cui l’italiano era una lingua ricca ed elegante, la House of Lords a Londra era solo dinastica, le schifezze (che non sono mai mancate nella storia) non erano fonte di vanteria tamarra e di invidia dei mentecatti.

Fabrizio Salina declinerà elegantemente, ricordando il monito di Padre Pirrone: “Senatores boni viri, senatus autem mala bestia”. Era un consesso di anziani (chi ricorda più che “senex” vuol dire “vecchio”?) che controbilanciava lo strapotere dell’imperatore: anche nella Roma potenza mondiale c’era un sistema di checks-and-balances. Quando Catone il censore martellava i colleghi ripetendo “Ceterum censeo Carthaginem esse delenda” alla fine lo ascoltarono.

Le cose sono cambiate, certo. Qualcuno azzarda sulla stampa o in televisione (il Senato, così come la Camera, hanno molteplici succursali di fatto): “Porcellum delendum”, magari si guadagna un titoletto sui giornali ma i colleghi se ne fottono. Quando le scrissero sulla Costituzione le Camere erano state concepite come asimmetriche per poter fertilizzare la visione dei Deputati con l’esperienza dei Senatori. Oggi ci si candida all’una o all’altra sulla base di ubbìe atmosferiche o di calcoli machiavellici. Che peccato.

Rimangono i Senatori a vita, che i tanti villan rifatti della politica temono e perciò disprezzano. Persone che invece di strillare luoghi comuni nei salotti televisivi lavorano davvero, costruiscono mondi significativi e utili, “hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Abbiamo qualcosa da ridire su Montale, Bo, De Filippo, Bobbio, Levi-Montalcini? O su Abbado, Cattaneo, Piano, Rubbia? Il fatto che siano intensamente alfabetizzati non implica che non sappiano ragionare, anzi: la finta logica che vuole contrapporre poesia e azione nasce solo dal terrore degli ignoranti

Ovvio che nel clima da ultimi giorni di Pompei che stiamo attraversando in questi mesi (anni? decenni?) qualcuno si diletti a far il dietrologo. L’ombra del complotto aleggia sempre sulla nostra disastrata Repubblica, così finisce per fare più notizia un legittimo parere soggettivo che non l’interpretazione analitica degli spartiti, la ricerca sui materia-li da costruzione del corpo umano, la visione dinamica e ironica delle armonie proget-tuali, l’investigazione sui moti dell’universo.

E’ arrivato il tempo di imparare la lezione, deponendo finalmente la fede da ultras nello stellone che laverebbe le nostre indefinite onte. In un Paese sorretto dalla logica elemen-tare i prossimi candidati al Senato dovrebbero venire dalle numerose e multiformi schiere di chi sa immaginare il futuro costruendo il presente, investendo fiducia e risorse per migliorare le cose, facendo prevalere la passione sull’interesse e il sogno sulla volgarità. Buon lavoro ai Senatori a vita.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

LAVORO, ARCHEOLOGI PROTESTANO AL PANTHEON - FOTO 1Sempre più frequentemente  ci si imbatte in notizie di ritrovamenti archeologici effettuati grazie alla realizzazione di lavori pubblici o privati. Infatti l’Italia sempre più povera  in tema di ricerca e di università arricchisce la propria storia in modo sempre maggiore con i dati storici rintracciati durante scavi d’emergenza. La sensazione che suscitano questi ritrovamenti è sempre di stupore, sorpresi che il nostro territorio abbia ancora così tante informazioni da svelare sul nostro passato.

Fortunatamente negli anni si è intensificata la presenza degli archeologi sui cantieri dal forte rischio archeologico, affinché, in caso di ritrovamento, si possa intervenire per salvaguardare il reperto archeologico e studiarlo, il tutto sempre sotto il vigile occhio delle Soprintendenze .
Quanti pezzi di storia ci saremmo persi per strada se non ci fossero stati gli archeologi a vigilare? Probabilmente molti, perché l’Italia mostra ancora molta insofferenza verso gli scavi archeologici, percepiti come fonte di costi e di disagi urbani.
Ma se non ci fosse l’archeologia con quali occhi guarderemo indietro? Se non sapessimo leggere il nostro passato che identità avremmo?
Purtroppo da quanto risulta da recenti appelli delle associazioni di categoria , ANA e CIA, questo prezioso lavoro vale davvero poco, tra i sette e i cinque euro l’ora. L’insofferenza per l’archeologia nasce infatti da qui, dalle aziende e dagli enti i quali, tenuti su richiesta delle Soprintendenze a garantire la presenza degli archeologi nei loro cantieri , strappano contratti al massimo ribasso. Una gara a chi offre la cifra più bassa, e non a chi offre il miglior servizio al miglior prezzo.
La presenza dell’archeologo è percepita come un’imposizione, e tanto vale affrontarla con il costo minore.
Ma questo è solo un aspetto di un problema più ampio, culturale, che è lo stesso che ci vale i moniti dall’Europa, che fa crollare i muri a Pompei, che lascia immutato un ministero vetusto e ingessato in una burocrazia lenta che non sa mettere a frutto nemmeno le scarse  risorse economiche a disposizione.
Gli archeologi in Europa? Meglio sorvolare sulla retribuzione degli archeologi in Inghiterra, uno stipendio minimo è di 19.000 annui, basterà raccontare che in Portogallo ogni comune può assumere alle proprie dipendenze uno o più archeologi, esiste per legge la  figura dell’archeologo come funzionario comunale: intuizioni che in Italia sono appena nate e arrancano.
Bisogna far presto , perché quando in Italia ci si accorgerà di quanto poco lungimiranti siamo stati nel gestire la nostra ricchezza primaria e di quanto sia utile  l’archeologia preventiva ad ottimizzare tempi e costi delle opere,  i nostri archeologi potrebbero essere fuggiti altrove, o aver ripiegato su un lavoro più dignitoso.

Per una volta non sono stati gli atenei italiani ad analizzare, esaminare, valutare. Il maestro si è trasformato in scolaro e le 133 strutture sparse sul territorio italiano, tra università ed enti di ricerca, sono state oggetto di indagine da parte dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione, nata nel 2006. Ci sono voluti 20 mesi perché 14.770 revisori concludessero la monumentale opera di valutazione che per la prima volta ha messo sotto esame la produttività della ricerca degli atenei italiani (progetto VQR).

Sono state considerate 14 aree scientifiche e per ogni struttura sono stati tenuti in conto 7 indicatori che si riferiscono a fattori come la qualità della ricerca, la capacità di attrarre risorse o l’internazionalizzazione; e altri 8 indicatori relativi, invece, alla capacità di relazione, connessione e valorizzazione del contesto socio-economico.

Per quanto riguarda i 95 atenei italiani, è stata fatta una distinzione in base a grandi, medie, piccole università e la posizione di ciascun ateneo in graduatoria è stato determinato da un valore medio tra tutte le aree considerate. Ai primi posti tra le grandi università figurano: Padova, Milano Bicocca, Verona, Bologna, Pavia. Le prime 5 classificate delle medie università sono state: Trento, Bolzano, Ferrara, Milano San Raffaele, Piemonte Orientale e Venezia Ca’ Foscari. Infine, tra gli atenei più piccoli, spiccano Pisa Sant’Anna, Pisa Normale, Roma Luiss, Trieste Sissa, Roma Biomedico. Se si considerano, invece, le classifiche “tematiche”, per le Scienze matematiche e informatiche abbiamo nell’ordine: Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Pisa. Per le Scienze economiche e statistiche: Padova, Milano Bocconi, Bologna. Per le Scienze dell’antichità, letterarie, artistiche: Padova, Milano Politecnico e Bologna. Per le Scienze giuridiche: Trento, Padova, Verona.

Come si può ben notare, la vittoria degli atenei del nord su quelli del sud e del centro è quasi schiacciante. Roma La Sapienza, nella classifica generale, è solo al 22° posto e il consiglio nazionale delle ricerche, il CNR, è risultato il grande assente dalle classifiche Anvur. Le Università di Catania e Palermo sono al 30° e al 31° posto, Bari e Cagliari al 26° e 27° posto, mentre risalgono un po’ la china solo Catanzaro, Napoli e Salerno che si attestano più o meno a metà classifica.

Alla luce di ciò, non sono mancate le polemiche, specialmente se si considera che tra i 6,69 miliardi di euro che il Miur ha stanziato per la ricerca nelle università, 540 milioni, cioè il 7%, dovrebbero essere distribuiti in base al merito, ovvero proprio in base ai risultati di questa ricerca. Il Cnr, ad esempio, si giustifica sostenendo che il centro privilegia i rapporti con il mondo delle aziende e l’interdisciplinarità, mentre la valutazione dell’Anvur ha messo in luce gli atenei che si occupano principalmente di ricerca pura. C’è anche da dire, poi, che l’indagine è stata compiuta per gli anni dal 2004 al 2010, escludendo per forza di cose, risultati importanti come quello dell’Istituto nazionale di fisica nucleare che nel 2012 è stato coinvolto nella scoperta del bosone di Higgs.

Certo è che si tratta di un momento significativo e importante per l’università e la ricerca italiana. Il fatto che si parli di questi due settori, a lungo ignorati o deprecati, e che si investano 10 milioni di euro per istituire un agenzia (l’Anvur appunto) che ne monitori lo stato di salute, è sicuramente un passo avanti positivo. Forse il passo successivo, quello di stanziare parte di fondi in base ai risultati di questa classifica, necessita di un altro po’ di rodaggio per essere effettuato. Bisognerebbe prima capire tutte le sfaccettature della ricerca, delle sue applicazioni e della sua produttività. E magari evitare il rischio di affondare ancora di più quegli atenei che sono già in fondo alle classifiche, e che, pur non essendo prestigiosi, garantiscono però una distribuzione democratica dell’accesso al sapere nel nostro Paese.

D’altra parte persino dall’Anvur giunge la necessità di cautela nell’applicare ai risultati della ricerca una distribuzione delle risorse, nonostante l’esito incoraggiante e positivo del loro lavoro: “crediamo che la VQR dispiegherà i suoi effetti benefici nei mesi e negli anni a venire se i suoi risultati saranno studiati nel dettaglio e analizzati con attenzione, e utilizzati dagli organi di governo delle strutture per avviare azioni conseguenti di miglioramento. Un segnale incoraggiante è lo spirito di grande interesse e collaborazione con l’ANVUR delle strutture valutate, per le quali la VQR ha richiesto lavoro e impegno in un momento di grande trasformazione e difficoltà (in particolare per le università)”.

agcomLa presentazione annuale della relazione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni al Parlamento e al Governo si ripropone anno dopo anno come un rito istituzionale, dal quale non si possono certo pretendere fuochi d’artificio e sensazionali rivelazioni.
Spesso, in queste occasioni diviene più rilevante l’aspetto coreografico che quello contenutistico. Storicamente la relazione è stata presentata nella prestigiosa Sala della Lupa della Camera dei Deputati, ma la prima sortita della consiliatura presieduta da un anno da Angelo Marcello Cardani è stata ospitata nella più accogliente Sala della Regina, che beneficia peraltro di un impianto di climatizzazione all’altezza del torrido luglio romano (le precedenti presentazioni della relazione erano divenute famose per il tasso di… sudorazione degli astanti, oltre che per i diffusi sbadigli).

Un antropologo osserverebbe come si tratti di un rito assolutamente… maschile. In barba alle “quote rosa”, si contavano in sala forse una decina di donne su circa duecento presenze, e peraltro si ricordi che tutti i componenti dell’Agcom sono senza dubbio maschi (Antonio Martusciello, Francesco Posterano nella Commissione Servizi e Prodotti; Antonio Preto e Maurizio Dècina nella Commissione Infrastrutture e Reti).

Curiosa presenza di molti “vice”: è intervenuta Marina Sereni, Vice Presidente della Camera (senza la grazia nemmeno di un cenno di giustificazione sull’assenza della Boldrini, che ha così involontariamente alimentato le polemiche su un qual certo suo assenteismo dai lavori parlamentari), il Vice Ministro per lo Sviluppo Economico Antonio Catricalà, il Vice Presidente della Corte Costituzionale Luigi Mazzella… Forse troppi “vice”, per l’economia simbolica di kermesse come questa. Come se Parlamento e Governo prendessero le distanze dai rispettivi ruoli, ed osservassero con distacco Agcom.

In effetti, Parlamento e Governo sono “decision maker” mentre l’Agcom dovrebbe essere un mero “regolatore”. Si tratta però di un regolatore che a fronte dell’assenza del legislatore, si vede costretto ad intervenire come supplente: il caso del regolamento sul diritto d’autore online è sintomatico, così come quello della regolazione del pluralismo elettorale e politico.

Ma anche la “materia” Rai è nelle competenze Agcom, anche soltanto per le linee-guida sull’ormai ridicolo “contratto di servizio” Rai (scaduto da sette mesi). In queste materie (ed altre ancora), il Paese è governato da norme vecchie ed obsolete, ma il Parlamento dormicchia.
La relazione di Cardani, snella (una ventina di pagine, meno di un’ora di lettura), si caratterizza per il tono pacato e molto diplomatico. È come se volesse attenuare la rappresentazione delle criticità del sistema mediale italiano, in primis il gravissimo ritardo nella diffusione della banda larga e nella diffusione della rete come strumento di conoscenza, partecipazione, commercio, imprenditorialità: il 37 % degli italiani non ha mai avuto accesso ad internet!

Si conferma la centralità dei contenuti audiovisivi nella “dieta mediatica”, che assorbono circa due ore delle giornate di ogni italiano, il 42 % dei totali 274 minuti dedicati alla comunicazione (qui omettiamo critiche sulla qualità della fonte).
Pochi e lievi cenni critici. Agcom certifica il calo degli investimenti pubblicitari: – 19 % per l’editoria, – 18 % per la tv, – 13 % l’esterna, – 7 % la radio

Soltanto il web è in controtendenza, con un + 12 % (ed ha una fetta del 14 % della torta pubblicitaria totale). Basti osservare che editoria ha perso il 14 % del proprio fatturato in un anno soltanto, con un calo di 1 miliardo di euro nei ricavi. Nel 2012, i quotidiani hanno visto calare del 10 % la vendita di copie, e del 19 % i ricavi pubblicitari!
Nel business tv, Sky ha superato Mediaset nel totale dei ricavi, e Rai è terza.

Il business totale del settore delle comunicazioni sarebbe calato dai 65,8 miliardi del 2011 ai 61,5 miliardi del 2012.
Diverte notare come uno dei primi dispacci diramati dall’Ansa sintetizzava la debolezza della Rai nell’offerta su internet: il portale della Bbc è il 5° per utilizzazione (numero accessi) nel Regno Unito, prima di Yahoo, quello della Rai è al 28° posto in classifica. Questa è forse l’unica freccia amara, tra quelle lanciate dal delicato arciere Cardani.

Agcom conferma l’intenzione di emanare un regolamento in materia di diritto d’autore online (lo si attende da anni…), ma ribadisce che semmai il Parlamento decidesse di intervenire, si ritirerà in punta di piedi (anzi, si adeguerà). Tanto l’Autorità sa benissimo che il Parlamento, con l’attuale maggioranza “collosa”, non interverrà.
L’Autorità benedice lo scorporo della rete Telecom Italia (decisione definita addirittura “coraggiosa e innovativa”), ma non più di tanto, perché attende le ulteriori mosse del gruppo di Bernabè e vuole vedere le carte.

Nulla dice Agcom rispetto all’esigenza di stimolare la produzione di contenuti di qualità. Si limita ad un cenno rispetto alle esigenze di verificare eventuali posizioni dominanti all’interno dei singoli mercati del Sic (il duopolio Rai + Mediaset ha l’87 % dei ricavi nel settore della tv gratuita, Sky ha il 78 % nella tv pay…).

Nulla dice rispetto al rischio di dinamiche parassitarie da parte dei “nuovi aggregatori” (Google in primis).

Nulla dice in materia di emittenza radiotelevisiva locale (esiste ancora?!).

Nulla dice rispetto all’occupazione, alla forza-lavoro: come se l’economia del sistema non fosse basata anche sul lavoro, oltre che sul capitale (ci si perdoni la passatista citazione marxiana).

Nulla dice l’Agcom – in sostanza – sul problema centrale, che nemmeno identifica: l’evoluzione del sistema mediale italiano sta producendo continuo impoverimento strutturale e depauperizzazione delle risorse allocate sulla produzione di contenuto (calano gli investimenti, la disoccupazione cresce, il precariato impazza). Vale per l’editoria di qualità, per il cinema, per la musica, per la fiction, eccetera.

L’Autorità non identifica la patologia fondamentale del sistema. La pirateria è un problema importante, ma non il più grave. Cardani si limita a scrivere: “il ruolo della produzione di contenuti non viene meno” (!). Quella che sta… venendo meno, caro Presidente, è la “produzione” stessa di contenuti, non il suo ruolo.

Da segnalare che è intervenuto in sala, con il suo ormai noto look molto “casual”, Roberto Fico, il Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai (soprannominato, forse con eccessivo entusiasmo, “il mastino” da “Prima Comunicazione”), il cui pensiero crediamo di immaginare, mentre ascoltava le molto molto molto moderate parole di Cardani ed osservava i quattro altri silenti componenti del soviet Agcom schierati in bella mostra sul tavolo di presidenza.

Segnaliamo alcuni dettagli che riteniamo significativi. La relazione non si caratterizza per quella vena poetica e per quelle raffinate citazioni cui ci aveva abituato il past President Corrado Calabrò (ci sono però chicche come l’incipit: “per comprendere la dimensione di un fenomeno sarebbe necessario poter valutare il controfattuale della sua assenza”, sic), si evince che è stata elaborata sotto la guida di un economista e non di un giurista, e ciò è innovativo.

Molti sono i dati citati, ma, da ricercatori, ci preoccupa un po’ la pluralità di fonti utilizzate, con numeri che temiamo possano finire per smentirsi l’un l’altro, per difformità metodologica e contraddittorietà interna: in una nota a piè di pagina, i redattori utilizzano la simpatica formula “ex multis” (come dire, abbiamo colto qua e là), inadeguata per un documento che dovrebbe rappresentare la “summa” (anche scientifica, no?!) in materia.

E preoccupa anche che Cardani utilizzi il termine “consumatori” riferendosi al target finale dell’Autorità. In punta di piedi, ci permettiamo di ricordare al Presidente che l’Agcom ha delle funzioni molto più delicate della consorella Agcm (Garante della Concorrenza e del Mercato): dovrebbe vedere i propri “stakeholder” non nei “consumatori”, bensì nei fruitori, ovvero nei cittadini.Non si tratta di un distinguo semantico marginale.

E, rispetto a questi cittadini, Agcom dovrebbe anche pensare alle funzioni culturali del sistema dei media. Funzioni che sembrano essere completamente ignorate, nella relazione: la parola “cultura” è completamente assente dalla relazione di Cardani (ma anche la parola “emittenti locali”, come se… non esistessero più le radio e tv indipendenti: di grazia, sono deboli e marginalizzate, ma vanno ancora in onda!). In sostanza, viene ignorata completamente la intima relazione tra l’economico ed il semiotico. Ma l’Agcom non dovrebbe vigilare anche su questo?! Sul senso (di società) che l’attuale assetto del sistema mediale produce, che è poi il senso stesso (il più intimo) della democrazia! Sui valori (anche etici!), sulla Weltanschauung che i media stimolano.

Non debbono essere tenuti sott’occhio soltanto la concorrenza ed il pluralismo, ma anche la produzione di senso: la cultura, insomma. Tutto l’approccio della relazione è quantitativo, ma l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni non dovrebbe avere a cuore anche la “qualità”? Come dire?! Il mandato Agcom dura ben sette anni: Cardani e colleghi hanno di fronte qualche anno per un… ravvedimento operoso.
Attendiamo poi di leggere la Relazione vera e propria, ovvero il corposo tomo che, quest’anno, per la prima volta nella storia dell’Agcom, non è stato distribuito ai partecipanti, e non si sa nemmeno se verrà stampato su carta (effetti perversi della “spending review”: è vero che pochi lo leggevano, ma era comunque uno strumento utile).

È comunque disponibile sul sito dell’Autorità (464 pagine: aaargh! abbiamo controllato, anche qui il concetto di “cultura” non è presente, se non nel capitolo dedicato ad alcuni obblighi della Rai: da non crederci…), insieme ad alcune slide di sintesi dei dati (che estrapolano dal tomo un set di interessanti informazioni, ovviamente… tutte soltanto quantitative).

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

AB26146I dati di scenario sui consumi culturali in Italia sono ripetitivi e non sorprendono più. Ormai si possono ridurre a un banale dato di fatto e ad una amara considerazione conclusiva. Il dato di fatto è che se diminuiscono gli investimenti in cultura diminuiscono anche i consumi culturali (sic!).

La considerazione conclusiva è che proprio non sappiamo cosa farcene della cultura.
Due relazioni presentate di recente da osservatori autorevoli convergono decisamente nella direzione appena accennata. Si tratta dell’ottavo Rapporto Annuale di Federculture e della Relazione Annuale 2011 – 12 presentata dall’Osservatorio Culturale del Piemonte che rielabora dati Istat messi in relazione con alcuni indicatori sociali forniti dell’IRES Piemonte.
Lo scenario lascia attoniti e verrebbe voglia di passare ad altro, ma dal cumulo di macerie si odono alcune voci che sembrano dare indicazioni di una via d’uscita. “La cultura non può essere un isola!” afferma Luca Del Pozzolo direttore dell’Osservatorio piemontese che lancia un segnale alla politica e alle istituzioni, al mondo delle imprese e alla società nel suo complesso. E, dal versante Federculture, giunge un richiamo che indica negli investimenti in cultura “la scelta per salvare l’Italia”. Quasi un appello perché si capisca come sia impossibile uscire dalla crisi senza investimenti in cultura, in Italia ancor meno che in altri paesi.

Tutto sembra chiaro e giusto. Ma perché non lo facciamo? Perché non ce la facciamo?
“La cultura come isola” denuncia Del Pozzolo. E ci viene fatto di interpretare questa considerazione nell’accezione più drammatica di “cultura isolata”. Isolata e emarginata, come la parente povera e ingombrante di un’ottusa famiglia di saccenti e presuntuosi.

A che serve la cultura? Ci si è spesso domandati negli ultimi anni. Serve al turismo! Ha sentenziato qualcuno e per questo l’ha sottratta ai cittadini per offrirla a un turismo di massa che a mala pena distingue un parco giochi da un parco archeologico. E’ la storia patria! Ha affermato qualcun altro impedendo che la cultura uscisse dai musei e si confrontasse con la realtà quotidiana. E’ business! Ha decretato qualche manager mentre iniziava a ragionare sugli spazi culturali esattamente come farebbe un affittacamere.

Mancanza di idee ma soprattutto mancanza di familiarità con la cultura. In una parola: “estraneità”. Abbiamo aspettato la metà degli anni Settanta per dotarci di un Ministero per i Beni Culturali. Abbiamo subito repentini e radicali cambiamenti economici e sociali nell’arco di pochi decenni e non abbiamo dato spazio adeguato a chi questi cambiamenti li interpretava e cercava di leggerli.

Negli anni Sessanta una città come Roma era al centro dell’attività artistica internazionale con gallerie come la Tartaruga, l’Attico e la Scaletta. Negli stessi anni Milano si animava grazie alle iniziative di Azimuth. Poi qualcosa si è rotto e quel periodo è rimasto l’ultimo significativo momento di contatto con la società e la sua cultura in movimento. E’ come se avessimo subito la modernità senza metabolizzarla e, in anni recenti, attraversato la contemporaneità nuotando in apnea. Oggi stiamo emergendo e ci accorgiamo che rischiamo la deriva.
Del Pozzolo invoca opportunamente “nuove sinergie” e “incontri sempre più strutturali tra il mondo della cultura e quello delle imprese innovative”. Ma dobbiamo sapere che si parte da un livello basso.

La Pubblica Amministrazione e il mondo della politica hanno avuto le loro colpe, ma l’impresa privata non è riuscita a far meglio. Un bagno di umiltà da parte di tutti è assolutamente necessario, confortati dal fatto che il 58% dei cittadini ritiene molto importante il ruolo delle istituzioni culturali, è favorevole al sostegno pubblico alla cultura e auspica un aumento dell’offerta culturale.

Ma non basta. La crisi impone di allargare lo sguardo verso ipotesi sociali ed economiche diverse da quelle che hanno fallito negli ultimi decenni. Forse questa prospettiva permette di rimescolare le carte e iniziare una nuova partita.

drinkculturaLa presentazione del rapporto annuale Federculture, giunto alla sua nona edizione, è ormai divenuta un’utile occasione per una radiografia sia del corpo culturale italiano sia della sua anima: va riconosciuto al Presidente della “associazione nazionale degli enti pubblici e privati, istituzioni e aziende operanti nel campo delle politiche e delle attività culturali” (così si autodefinisce Federculture, fondata nel 1997, che vanta oltre 150 soci in un eccentrico mix: Regioni, Province, Comuni, consorzi, fondazioni, imprese, associazioni…), Roberto Grossi, di aver esplorato, attraverso il rapporto  – di cui è stato ideatore e primo curatore, fin dal 2002 – molte tematiche importanti della politica e dell’economia culturale nazionale.

Lontano da poter essere ancora un testo fondamentale di riferimento (non lo sono peraltro nemmeno la relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni o la relazione annuale del Mibac sul Fondo Unico per lo Spettacolo… lo stato dell’arte delle conoscenze resta in Italia drammatico ed è forse l’emergenza prioritaria a livello di “policy”), il rapporto Federculture è certamente uno strumento interessante per tutti gli operatori, anche soltanto per l’utile appendice statistica. Di anno in anno, vengono chiamati a corte diversi contributori, e ciò arricchisce lo spettro delle opinioni, ma non esalta l’organicità e la necessità di un approccio critico globale e diacronico, affidato soltanto al capitolo introduttivo curato da Grossi.
Quel che qui interessa è l’aspetto “coreografico” della presentazione, kermesse che mostra, di anno di anno, nella composizione del “panel” e nelle presenze istituzionali, una strutturazione che ha valenze non soltanto simboliche.

Il 2013 rientra senza dubbio nella “serie A”. Il 1° luglio, parterre de roi, nella assai istituzionale (e molto rovente, causa deficit climatizzazione), Protomoteca del Campidoglio, oltre al Sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino, ed alle due fiere Assessore alla Cultura, Lidia Ravera per la Regione e (fresca di nomina) Flavia Barca al Comune, quest’anno, ben due ministri: Bray per la Cultura e Giovannini per il Lavoro. Abbiamo ascoltato discorsi alti: il primo è intellettuale colto, il secondo ricercatore serio.

La lettura “da sinistra” della crisi in atto (secondo Federculture, nel 2012 i consumi culturali sono caduti del 12 %, i Comuni hanno ridotto le risorse allocate alla cultura dell’11 %, gli sponsor privati hanno tagliato budget per il 42 %: in sintesi, un disastro) propone nuovi stilemi: abbiamo a che fare con amministratori pubblici senza dubbio più sensibili (e preparati e colti), ma il “pianto” resta del tutto simile: “no hay dinero” e quindi le “policy” restano belle intenzioni.

In sostanza, le analisi sono più evolute, finanche raffinate, ma la risposta concreta è la stessa: in questo, l’esecutivo Letta mostra la stessa insensibilità e colpevole inerzia dell’esecutivo Monti, così come di quello precedente ancora (eccetera eccetera eccetera).
Verrebbe da sostenere, ascoltando le analisi (e le lamentazioni) di Massimo Bray e Enrico Giovannini: cambia la “retorica”, non cambiano le “pratiche”. Questa dinamica è molto deludente, ancor più per chi sperava in un “new deal” da parte di amministratori giustappunto più sensibili rispetto alla cultura.

È quindi quasi paradossale ascoltare bei discorsi, migliori discorsi, se, alla prova dei fatti, questi ministri non si rivelano (non si rivelano ancora? beneficio di inventario perché sono al potere “soltanto” da due mesi?!) sostanzialmente differenti dai Bondi e dagli Urbani (per citare due ministri-simbolo della non politica culturale del centro-destra). «Parole-parole-parole» (ricordiamo, da cultori del diritto d’autore, che la canzone è divenuta famosa grazie a Mina nel 1972, ma il brano è stato composto da Gianni Ferrio, con testo di Leo Chiosso e Giancarlo Del Re).
Parole più suadenti, forse più convincenti nell’elaborazione teorica, ma di fatto soltanto parole.

Roberto Grossi, nel suo come sempre appassionato intervento, ha chiesto: sostenere i consumi delle famiglie grazie alla detraibilità delle spese per la cultura, promuovere il lavoro giovanile con un piano per l’occupazione culturale, rilanciare la produzione cancellando le norme che ostacolano l’autonomia di capacità di programmazione di enti e aziende. Sagge tesi, di cui non si trova alcuna traccia nell’azione di Governo.

Ma il Ministro Bray, nella sua prima intervista, ha sostenuto che non intende comunque dimettersi, anche se continuerà a ricevere schiaffi dalla sua stessa compagine di governo (basti pensare alla incredibile vicenda del tax credit de-finanziato…). E ardua intrapresa si rivela quella del Ministro Giovannini, gran teorico di quel benessere equo e sostenibile che dovrebbe avere nella cultura il proprio volano. Parole, nuovamente. Belle parole, ma soltanto parole. Se questo è il risultato di un Pd o di un Sel partiti “di lotta e di governo”, temiamo che il dissenso qualunquista dei grillini finirà per crescere ancora nei consensi di un elettorato sempre più stanco, esausto, esasperato.
Il titolo dell’edizione 2013 del rapporto Federculture (per i tipi di 24Ore Cultura) è “Una strategia per la cultura. Una strategia per il Paese”. La crisi è profonda, lo sconforto diffuso, gli interventi teorici, la speranza svanisce.

Quale… “strategia”, di grazia?! Il respiro strategico resta pia intenzione, a fronte della carenza di ossigenazione nel breve periodo.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

Era il 3 aprile del 1973, mentre dall’isola di Manhattan Martin Cooper faceva la sua prima chiamata da un telefono cellulare Motorola: la tecnologia raggiungeva un altro primato che ha cambiato la vita dei consumatori di tutto il mondo, arrivando ad influenzare la quotidianità in ogni angolo della terra.

A questa data risale l’invenzione del codice a barre GS1, un linguaggio universale che accompagna i nostri gesti tradizionali tutte le volte che facciamo un semplice acquisto. Un semplice strumento che consente di risparmiare ogni anno quasi il 7% del fatturato aziendale, attraverso l’associazione di un singolo prodotto ad un codice che ne racchiude il prezzo.

Questo nuovo modo di classificare gli oggetti negli scaffali era il chiodo fisso dei due ingegneri che lo elaborarono, Norman Joseph Woodland e Bernard Silver: nel 1952, infatti, con il numero di serie 2,612,994 riuscirono a far brevettare la loro idea, ancora allo stato rudimentale, composta da punti bidimensionali che riprendevano il linguaggio del Codice Morse. La soluzione definitiva venne trovata in modo quasi casuale: Woodland, il suo ideatore da tempo stava, infatti, studiando assieme al collega Bernard Silver, per trovare la chiave di volta che permettesse di facilitare e snellire le code nei supermercati e nelle piccole botteghe. Un giorno, mentre si trovava in spiaggia, disegnò sulla sabbia le linee orizzontali, partendo dai puntini del codice Morse, ma alternando linee più strette ad alcune più spesse.

Nacque così il linguaggio universale utilizzato nelle casse di tutto il mondo, ma per divenire effettivamente operativo ci volle ancora un anno: il primo prodotto marchiato dal Codice a Barre Gs1 (questo il nome per esteso) fu, infatti, venduto il 26 giugno 1974 in un supermercato Marsh di Troy nell’Ohio; si trattava di un pacchetto di gomme da 67 centesimi.

In pochi sanno cosa rivelano i numeri stampati nel codice, una vera e propria carta d’identità del prodotto che acquistiamo: le prime due cifre presenti indicano il paese di provenienza, da 80-83 identificano ad esempio l’Italia, da 90 a 91 l’Austria. Seguono cinque cifre che indicano l’indirizzo del produttore o fornitore, le altre cinque si riferiscono al prodotto stesso. Gli ultimi numeri servono, invece , a confermare le informazioni nel caso ci fossero errori precedenti.

 

 

 

In piena campagna elettorale, sono stati numerosi i riferimenti a fondi europei e a programmi per un futuro che appare “bipartisanamente” incerto. Superato il confine italico, tuttavia, i disegni sembrano essere molto più chiari di quanto appaiano nello stivale, e tematiche come Digital Agenda, Social Innovation e Smart Cities perdono il mitico alone nostrano per trasformarsi in progetti ed iniziative molto strutturate su tempi, risorse ed obiettivi. Europe 2020, la Strategia comunitaria del decennio, ha categorizzato i propri obiettivi di crescita secondo tre direttrici: crescita smart, sostenibile ed inclusiva.

Queste direttrici sono finalizzate al raggiungimento di obiettivi concreti da perseguire entro il 2020: un tasso di occupazione tra le fasce di popolazione tra i 20 ed i 64 anni pari al 75%, il 3% del Pil investito in Ricerca e Sviluppo, il 20/20/20 delle energie ambientali (riduzione delle emissioni di gas serra, utilizzo di energie rinnovabili, aumento delle efficienza energetica), diminuzione dell’abbandono scolastico e aumento dei laureati (almeno il 40% della popolazione tra i 30 e i 34 anni), e riduzione dell’esclusione sociale e della povertà.

Per raggiungere tali risultati l’Unione Europea ha sviluppato una serie di strumenti tra i quali primeggiano le “iniziative faro”. Per la Crescita Smart sono tre le iniziative previste: la Digital Agenda for Europe, l’Innovation Union, e l’iniziativa Youth on the move.

Nel dettaglio, l’Agenda Digitale è costituita da 101 azioni programmatiche raccolte in 7 pilastri principali, ognuno dei quali è volto a limitare delle carenze che in fase di progettazione della Strategia Europa 2020 sono state evidenziate. Lo scopo dell’Agenda Digitale è quello di ottenere vantaggi socioeconomici sostenibili grazie ad un mercato unico basato su elevati livelli di connessione e su applicazioni interoperabili. Per raggiungere tali obiettivi è stata strutturata una timeline pianificata di azioni da realizzare con controlli a breve, medio e lungo termine. La prossima scadenza sarà il 2015 e l’Italia non mostra rosee prospettive in merito al raggiungimento degli obiettivi fissati. (vedi immagine).

L’immagine mette in evidenza alcune tematiche degne di riflessione: la prima è la mole di lavoro ancora da svolgere, in particolar modo nel rinnovamento della Piccola e Media Impresa (di fatto solo il 3% circa delle PMI allo stato attuale ha un servizio di vendita online); l’altra è che, gli scopi che l’Agenda Digitale persegue includono ma non si esauriscono con i servizi di e-government che tanta attenzione hanno richiamato presso la nostra stampa. In merito a questa specifica tematica, inoltre, è da dire che l’Italia fa parte degli unici 6 Stati Europei ad aver raggiunto l’obiettivo di fornire la totalità dei servizi di base (100%) attraverso l’e-government a cittadini ed imprese, mentre è al penultimo posto per quanto riguarda il loro utilizzo (con solo il 22,2% della popolazione), così come è tra gli ultimi posti nella graduatoria che misura l’utilizzo della rete.

Altro discorso è quello che riguarda le Smart Cities e la Social Innovation, che spesso vengono citati congiuntamente ma non sempre in maniera esatta. Nate a seguito di uno studio del 2007 che misurava le città di media dimensione su sei variabili (Smart Economy, Smart People, Smart Governance, Smart Mobility, Smart Environment e Smart Living), le Smart Cities si sono imposte nell’immaginario collettivo come il nuovo paradigma della città del futuro, in cui tutti gli elementi prioritari della Strategia Europa 2020 convergono. Questo paradigma, che ha dato vita a disparate proposte e ad altrettante classifiche, non trova immediata attuazione nel programma comunitario omonimo (Smart Cities and Communities).

Le Smart Cities and Communities costituiscono, infatti, una delle 5 European Innovation Partnership (EIP) che rientrano, a loro volta, tra le iniziative chiave della Innovation Union. Questa EIP, che vede uniti i settori Technology, Innovation e ICT, prevede a fronte di uno stanziamento di fondi pari a 365 milioni di euro, l’istituzione di azioni volte a “catalizzare i progressi in aree in cui Energia (produzione, distribuzione ed utilizzo), Sistemi di Mobilità e Trasporto, e ICT sono intimamente collegate e offrire nuove opportunità interdisciplinari per migliorare i servizi e, contemporaneamente, ridurre il consumo di risorse, energia, gas serra (GHG) ed altre emissioni inquinanti”  . Tali iniziative prevedono ovviamente anche l’installazione di prototipi che, se positivi,  andranno a costituire delle risorse disponibili per l’intera comunità europea.  Inoltre, le azioni promosse dovranno avvalersi di attività di Social Innovation mirate alla diffusione dei progetti realizzati, e non, di azioni di Social Innovation tout court.

Queste ultime saranno invece implementate attraverso l’Urbact, il programma Europeo di scambio e apprendimento che promuove lo sviluppo urbano sostenibile. In seno a questo programma è nato il progetto “Citizen Innovation in Smart Cities” che ha come obiettivo principale quello di sviluppare un nuovo modello di offerta di servizi pubblici progettati in accordo con i cittadini in un processo di open innovation. Sia le Smart Cities che la Social Innovation stanno subendo la sorte di identificare contemporaneamente lo strumento e l’obiettivo. Per riuscire a massimizzare i potenziali benefici dell’uno e dell’altro, è forse utile tenerne chiari i confini.

La Direzione Generale per la valorizzazione del MiBAC ha effettuato, dal 21 novembre al 14 dicembre 2012, un questionario volto alla comprensione delle reali esigenze dei cittadini italiani riguardo i servizi offerti dai principali musei statali promuovendolo, forse in tempi di scarsità di risorse dedicate alla comunicazione, sul sito della DG valorizzazione (non il sito principale del MiBAC) e su social network come Facebook e Twitter.
Fatto sta che gli italiani hanno risposto: 7.043 i sondaggi arrivati, di cui solo un centinaio provenienti da utenti interni all’amministrazione ministeriale.
A prima vista i risultati ottenuti non mostrano degli evidenti cambiamenti rispetto a rilevazioni effettuate negli scorsi anni, ma andiamo comunque a capire quali le esigenze di oltre 7 mila italiani in tema di musei:

Gratuità e rapporto qualità prezzo: il primo dato sicuramente interessante è che quasi il 76% degli italiani ritiene sia giusto pagare un biglietto di ingresso per usufruire dei servizi museali. E’ un dato che rafforza la consapevolezza ormai acquisita che hanno gli italiani del loro patrimonio culturale che sono disposti a sostenere anche economicamente tramite il pagamento di un biglietto.
Certo è che questo risultato non dice molto se non misurato poi alle risposte ottenute da un’altra delle domande sottoposte agli utenti ovvero “Ritiene che il prezzo del biglietto sia adeguato a quanto i musei offrono?”: ora, qui l’analisi è interpretabile in diverse maniere: la direttrice generale per la valorizzazione, Anna Maria Buzzi, tiene a precisare che i visitatori sarebbero quindi disposti a pagare di più per entrare nei musei ma questo in realtà non è pienamente vero, soprattutto se si vanno ad incrociare queste percentuali di risposta con quelle più approfondite in cui gli utenti dichiarano apertamente che vi è una effettiva carenza nei nostri siti culturali rispetto a pannelli esplicativi, percorsi di visita, difficoltà di raggiungere i luoghi culturali con mezzi pubblici e soprattutto orari di visita che non consentono una fruizione abituale dei luoghi culturali.

Fasce a riduzione di prezzo: uno degli aspetti che meriterebbe proposte politiche immediate in fatto di pricing è il dato relativo ai pensionati che, da una ricerca condotta anche 2 anni fa dal prof. Hinna , intervenuto alla presentazione, sono disposti a non usufruire del biglietto gratuito over 65 (spostando quindi la gratuità del biglietto alla fascia 19-29 anni, in difficoltà economica dalla disoccupazione lancinante e target mirato da far affezionare alla cultura).

Orario prolungato: più dell’85% degli intervistati ha mostrato la necessità di visitare i musei in orari diversi rispetto a quelli abituali. Nello specifico, gli orari di prolungamento richiesti vanno dalle 20 alle 22 (41%) e fino alle 24 (44%). Una questione non da poco se si considera che questi dati il Ministero li conosceva già da tempo ma da altrettanto tempo non riesce a garantire neppure i normali orari di visita a causa del blocco delle assunzioni dei custodi.

Insomma, quello che gli italiani vogliono, forse, il Ministero lo aveva già capito da tempo ma mancano politiche gestionali e organizzative forti affinché i desideri degli italiani si trasformino in realtà.
Poveri italiani, quindi, che dichiarano di voler pagare anche di più il biglietto d’ingresso ai musei statali a patto di trovarsi di fronte a dei servizi adeguati non sapendo invece che l’art. 2 ai commi 615.616 e 617 della legge 244/07 non consente la riattribuzione del denaro proveniente dai biglietti d’ingresso all’istituzione stessa.
Un esempio su tutti è rappresentato dagli introiti dei Musei Vaticani: su oltre 2 milioni di euro guadagnati in un anno (2011) quanto è rimasto al Museo? Appena 600 mila euro.
Sareste ancora disposti a pagare di più per vistare una mostra sapendo che quel denaro non verrà utilizzato per la conservazione, la tutela, la valorizzazione delle opere d’arte esposte ma andrebbe a coprire buchi di bilancio sparsi qua e là nelle casse dello Stato?
Ben vengano le consultazioni pubbliche, dunque, purché portino a dei risultati concreti però: non possiamo continuare a far cadere negligenze e lacune di servizi sulle tasche degli italiani che, forse ingenuamente, credono ancora di poter contribuire, da soli, a migliorare le sorti del sistema culturale italiano.

Gli esperti di Boston Consulting hanno evidenziato come nel bacino del Mediterraneo la crescita del turismo è stata pari a +7,7 per cento tra 2000 a 2010, e le previsioni dicono che crescerà ancora del +4,8 per cento, ma per l’Italia la crescita è stata solo del 2 per cento. È noto inoltre che fino al 2000 l’Italia era la prima destinazione in Europa, leader per capacità attrattiva rispetto ai propri principali competitor, mentre oggi si posiziona solo al terzo posto dietro Francia e Spagna.
Ma quali sono le linee di intervento previste nel Piano strategico del turismo per invertire la tendenza? Rispetto alle prime anticipazioni, reazioni positive, ma anche alcune delusioni.
Rottamazione degli hotel: per il ministro del turismo 34mila imprese sono “troppe, troppo vecchie, piccole e non competitive”. Ma se è vero che il comparto alberghiero italiano ha bisogno di un rinnovamento, è necessario osservare che piccoli hotel, B&B, agriturismi (circa il 70% dell’offerta italiana) sono stati una risorsa per lo sviluppo turistico e un fattore distintivo e competitivo per il Paese.
“Meglio ragionare sulla qualità e non sulle dimensioni” ha commentato Claudio Albonetti, presidente di Assoturismo-Confesercenti. Sarebbe quindi importante concentrarsi sulla riorganizzazione del settore ricettivo, non costruire giganti della ricezione. Per contribuire all’ammodernamento delle imprese ricettive il Governo potrebbe intervenire creando le condizioni affinché possano svilupparsi forme di aggregazione, introducendo, ad esempio, agevolazioni fiscali che favoriscano processi di fusione e di riorganizzazione a livello gestionale.
Si potrebbe inoltre ipotizzare una misura che favorisca la ricongiunzione fra proprietà dell’immobile e relativa gestione, e non lavorare per la semplificazione delle procedure per consentire un più facile cambio di destinazione degli immobili, come ipotizza il Piano strategico del Turismo. Occorre, infatti, agevolare interventi di ristrutturazione dell’offerta alberghiera esistente e che fino ad ora ha resistito, anche se a fatica, alle regole del mercato. In Italia, infatti, il 40% degli hotel a tre stelle, che rappresentano oltre il 50% dell’offerta complessiva, è locato a piccoli gestori che devono competere sul mercato con affitti elevati, immobili obsoleti e inadeguati all’esigenze dei clienti, ma senza possibilità di fare migliorie per adeguare gli standard del servizio.
Sempre in riferimento al settore alberghiero, il piano di Gnudi si pone come obiettivo di rendere più omogenea e uniforme la classificazione delle stelle, in modo che gli alberghi abbiamo le stesse caratteristiche in tutta Italia. È sicuramente un punto fondamentale, infatti, il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri pubblicato nella GU del 11/02/09 aveva già provveduto in questo senso definendo le tipologie dei servizi che dovrebbero fornire le imprese turistiche nell’ambito dell’armonizzazione della classificazione alberghiera, rispetto alle quali le Regioni avrebbero dovuto adeguare i loro standard.
Inoltre, tra le priorità del Piano strategico del turismo troviamo una buona notizia: la riforma dell’Enit. Gli esperti di Boston Consulting evidenziano, infatti, come l’Enit, “non solo ha un budget limitato, ma soprattutto non ha le professionalità necessarie”. L’Enit, in particolare, dovrebbe diventare “fabbrica di prodotti ed avere una strategia fortissima sul digitale, ma non ha le competenze. Così come è oggi, l’Enit può essere chiuso”. I punti principali della riforma dell’Enit prevedono quindi che oltre a divenire una Spa dovrà puntare sulla commercializzazione, più che sulla promozione.
Queste alcune anticipazioni delle sette linee di intervento e cinquanta azioni definite nel Piano e che dovrebbero indicare la strada che intende rimetterci in carreggiata nella competizione internazionale sul turismo. L’obiettivo, ha dichiarato il Ministro, è di “incrementare l’impatto del turismo sul Pil reale da 134 a 164 miliardi e che nel 2020 il turismo arrivi a creare 500mila posti di lavoro”. Il Piano Strategico Nazionale sul Turismo entro metà novembre passerà all’esame del Consiglio dei Ministri.

 

L’ambiente che ci circonda e la partecipazione sociale, si sa, influenzano inevitabilmente la nostra vita. Un contesto ricco e stimolante non solo ci permette di vivere meglio ma agisce in maniera positiva sul nostro stato psico-fisico. E cosa più della cultura può rendere il nostro ambiente interessante e soddisfacente? Cosa meglio delle attività culturali può nutrire le nostre menti, mantenendole giovani e in salute?
È cosa certa che negli ultimi decenni la percezione del benessere individuale si sia sempre più legata ad un’idea complessiva, un’idea che tiene conto non solo di elementi materiali e fisici ma anche di una dimensione puramente emotiva, psicologica e sociale. Per questo si è cominciato ad osservare quanto, chi usufruisce delle bellezze artistiche e culturali che ci circondano vive non solo una vita più felice ma corre anche meno rischi di soffrire di ansia o di disturbi depressivi. Infatti, è stato provato che la cultura regala emozioni e sentimenti positivi che si ripercuotono su tutto il nostro essere. Ed è proprio questa la novità riportata dalla ultime ricerche: non solo la mente ma anche il corpo trae beneficio dagli stimoli culturali presenti intorno a noi.
Il Journal of Epidemiology and Community Health, ad esempio, ha pubblicato uno studio realizzato da un’Università norvegese che, dopo avere seguito le attività e lo stile di vita di più di cinquantamila persone, ha dimostrato quanto le arti abbiano un effetto benefico sulla salute sia mentale che fisica. Un’altra ricerca, questa volta tutta italiana, realizzata da Doxa per la Fondazione Bracco, sostiene che, proprio l’impegno nelle attività culturali incida in maniera significativa sia sul benessere generale che sull’aspettativa di vita di ciascuno. Addirittura, su una scala di fattori che influenzano la nostra salute, la fruizione di stimoli culturali sarebbe più importante della condizione economica.
La soluzione per l’eterna giovinezza è dunque sempre stata davanti ai nostri occhi. E la risposta non è arrivata da un farmaco o da una qualche innovativa scoperta biomedica. Tutto quello che occorre fare è non dimenticare le nostre tradizioni, la nostra storia e la nostra identità e dare la giusta importanza ai corretti stili di vita.
Insomma, visitare un museo, leggere un libro, andare a teatro o a un concerto è un vero toccasana e noi abbiamo la possibilità di migliorare la qualità della nostra salute impegnandoci in un appuntamento costante con la cultura.
Dimentichiamoci delle equazioni cultura/intrattenimento, cultura/piacevole passatempo: la cultura non è qualcosa di superfluo, al contrario migliora e allunga la vita e può essere medicina ed efficace prevenzione. Non a caso, in molti paesi si stanno studiando vere e proprie politiche di cultural welfare, basate sulla consapevolezza che, proprio la fruizione culturale, può rappresentare una leva per lo sviluppo e per il benessere. Specialmente in un periodo di crisi la cultura rappresenta una vera e propria risorsa per la crescita dell’intera società.

Nell’ambito del Convegno dal titolo “Le risorse pubbliche per la fiction in Europa” promosso dall’APT (all’interno dell’edizione 2012 del Roma Fiction Fest) che ha avuto luogo il 1° ottobre scorso, l’Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli ha presentato alcune anticipazioni del IV Rapporto sulla fiction.
Tra i focus di quest’anno una inedita ricognizione (tuttora in corso) volta a determinare l’entità e i beneficiari di fondi di provenienza europea (Fondo Sociale Europeo, Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, Eurimages e Media) che hanno contribuito a sostenere i vari ambiti della filiera italiana dell’audiovisivo e in special modo la produzione.
L’esito della prima fase dell’indagine restituisce un quadro non entusiasmante soprattutto se posto a confronto con i nostri principali competitor europei.

Distribuzione dei progetti/società beneficiari per tipologia di Fondo monitorato (2007-2011)


Fonte: elaborazioni IEM-Rosselli su dati Open Coesione, Eurimages e Antenna Media Torino

Nel periodo esaminato 2007-2011, le risorse europee stanziate a sostegno dell’audiovisivo italiano ammontano complessivamente a 60,7 M€ (dato provvisorio), di cui 33,5 milioni da Media (55%), 18 milioni dal FESR (29%), 8,3 milioni da Eurimages (14%) e circa un milione dal FSE (2%). I progetti ad oggi monitorati sono stati 741. Se si considerano anche le risorse aggiuntive (in virtù del cosiddetto principio di addizionalità) che provengono anche dallo Stato, dalle Regioni e in minima parte dai privati le risorse complessive destinate al comparto salgono a 105,5 M€
Il programma Media, che rappresenta oltre la metà degli stanziamenti europei complessivi, ha finanziato tra il 2007 e il 2011 400 progetti audiovisivi italiani.
Rispetto al totale degli stanziamenti del programma per singolo anno, l’Italia ottiene in media il 7,2% delle risorse assegnate. L’anno più proficuo è il 2008, a partire dal quale si registra una progressiva  contrazione.

Sostegno Piano Media: Italia vs. totale UE  (2007-2011) dati in M€


Fonte: elaborazioni IEM-Rosselli su dati Open Coesione, Eurimages e Antenna Media Torino

Il segmento della filiera maggiormente finanziato dal programma MEDIA è quello della distribuzione (18,5M€) seguito dai progetti di sostegno ai produttori (7,7 M€).
Tra questi ultimi si segnalano 25 progetti di “fiction” (cinema e televisione) per 1,2 M € .
Basti osservare come per il medesimo ambito di intervento la Francia ha ottenuto 43 M€, il Regno Unito 17 milioni, laddove il totale europeo per gli stanziamenti in questo ambito è stato di 156 M€

Questi dati poco confortanti inducono ad una riflessione più ampia circa la necessità di agire sulle leve dell’informazione e della sensibilizzazione degli operatori del settore per aumentare il grado di partecipazione ai progetti europei. Ciò anche alla luce del prossimo varo di Europa Creativa e più in generale delle nuove strategie adottate dalla Commissione Europea che proprio qualche settimana fa ha presentato un piano strategico di valorizzazione delle industrie culturali e creative (CCI) che prevede un set di misure da intraprendere da parte degli organi comunitari e degli Stati Membri. L’iniziativa è di grande rilievo e promuove, definitivamente, creatività e cultura come asset fondamentale di crescita ma anche di identità dell’Unione Europea.

La scoperta sullo sfondo della Gioconda di due dettagli apparentemente insignificanti (uno scorcio di tetto a falde e un muretto di finitura) e la messa a fuoco sulla riflettografia del disegno di un arco del ponte (non visibile nel quadro poiché nascosto con la finitura di cui sopra, che simula un muretto) parrebbero di scarso rilievo. In realtà tali minuti dettagli costituiscono dati di realtà tanto più significativi poiché il Pittore li ha deliberatamente inseriti nel dipinto nonostante fossero banali e privi di valenze simboliche, addirittura “antiestetici”.

La mera considerazione dei dettagli scoperti (tralasciando in questa sede le risultanze della ricerca pubblicata in Glori-Cappello, Savona 2011, che individuano ben otto coordinate che identificano il paesaggio di Bobbio), testimonia di per sé l’esistenza di un paesaggio reale sullo sfondo, con tutto quanto può conseguirne per la comprensione del ritratto originale nel suo complesso.
Infatti, se il paesaggio non fosse reale non si spiegherebbe il minuzioso impegno di Leonardo nel raffigurarlo fin nei dettagli più irrilevanti, arrivando a riprodurre uno scorcio di tetto e a simulare una porzione di muretto a finitura architettonica per il nascondimento del disegno dell’arco del ponte (visibile in riflettografia).
Circa la struttura spiovente a falde dietro la spalla sinistra della modella si è già pronunciato in passato con grande acume Pietro Marani, sottolineando pure l’incompiutezza della costruzione riscontrabile sul colmo della stessa:
“Oscuro è… il significato di una struttura a falde spioventi che appare subito dietro il fianco sinistro della dama (a destra per chi guarda il dipinto), come se si trattasse della copertura a capanna di una costruzione architettonica non finita, forse la stessa cui appartiene la casa con loggia sotto la quale sta la “Gioconda” (Marani P.C., Leonardo, La Gioconda, Firenze 2003, p.33)

In connessione con la reale esistenza del paesaggio e la presenza sullo sfondo di un complesso architettonico (al quale i dettagli appartengono) anche la tesi prevalente, che vuole la donna integralmente immersa in una natura astorica, svuotandone soggettività e concreta esistenza storicamente determinata, muta di segno, poiché la modella, che evidentemente è stata ritratta contro uno sfondo che è parte della sua reale esistenza, oltre che icona portatrice di valori e verità universali, è anche una “donna in carne e ossa” con una sua vita/ storia/destino.
Nello specifico, quei piccoli dettagli presenti sull’originale del Louvre e assenti o infedelmente riprodotti nelle copie note, offrono le informazioni necessarie e sufficienti per concludere che:
lo sfondo del ritratto corrisponde a un paesaggio reale in cui sono inseriti anche minimi manufatti architettonici relativi ad una costruzione complessa posta alle spalle della modella;
– il disegno dell’arco poi nascosto sta a comprovare l’esistenza concreta del ponte, in quanto non necessitano disegni schematico-preparatori di quel tipo per dipingere un ponte del tutto simbolico. Quell’arco successivamente coperto col colore sta inoltre ad indicare che nel dipinto l’originaria posizione del ponte è stata spostata indietro rispetto all’iniziale posizionamento (per inciso, la posizione originaria dell’arco poi nascosto coincide esattamente con la posizione del ponte Gobbo di Bobbio, visto dalla finestra del castello Malaspina Dal Verme ove la ricerca ipotizza locata l’antica loggia).
Proprio quell’arco nascosto e visibile all’infrarosso – scoperta resa nota nel luglio 2012 e pressoché ignorata- potrebbe costituire la “cartina di tornasole” dell’originale, poiché caratteristica peculiare ed esclusiva della Gioconda del Louvre.

Tra le tante plausibili spiegazioni del perché Leonardo abbia scelto di raffigurare quei dettagli architettonici, una vale per tutte: perché il tetto a falde “non finito” e l’arco del ponte “stavano là” e perché, per nascondere l’arco doveva simulare una finitura muraria a ridosso dello spiovente a falde .
Passati finora inosservati, quei frammenti di realtà sullo sfondo si rivelano alfine carichi di potenziale informazione. Anche in rapporto alla più stringente attualità, caratterizzata dall’emergere di copie più o meno “gemelle”, essi possono dare un significativo apporto informativo.
SEGMENTI RARI DI DNA NEI DETTAGLI: L’ORIGINALE E IL DILEMMA DELLE COPIE

E’ dei giorni scorsi il comunicato della fondazione svizzera “Mona Lisa Foundation”, che ha annunciato che esistono le prove “storiche, comparative e scientifiche” che Leonardo da Vinci abbia dipinto una versione della Gioconda detta “Isleworth Mona Lisa” prima di quella celebre in tutto il mondo ed esposta al Louvre. Nella relazione presentata alla fondazione svizzera il direttore del “Museo Ideale Leonardo Da Vinci” Alessandro Vezzosi l’ha definita un’opera importante che merita rispetto, considerandola un’ipotesi di lavoro da discutere nel confronto tra studiosi e sollecitando un apposito convegno.
Per converso il professor Martin J. Kemp evidenzia l’inferiore qualità pittorica del ritratto, citando le differenze che esistono fra le due opere, sottolineando che il ritratto di Isleworth è fatto su tela e che a suo giudizio non può essere attribuito a Leonardo dato che i suoi ritratti sono su tavola.

La “Isleworth Mona Lisa” in passato è stata oggetto dello studio di Henry Pulitzer (pubblicato nel 1966 col titolo “Where is the Mona Lisa?”), il quale la accreditò come ritratto autentico di mano di Leonardo, con conseguente rigetto degli esperti. Così pure fecero Antonio Manuel Campoy nella sua monografia sul Museo del Prado del 1970 per la copia madrilena coeva ora restaurata e, alla fine del Settecento, Joshua Reynolds per la sua Gioconda avuta da Francis Osborne, quinto Duca di Leeds .
Lo studio comparativo sulla copia del Prado, dipinta in contemporanea con la Gioconda del Louvre, ha posto in luce che sussistono forti analogie con il paesaggio dell’originale, ma su tale copia fedele i due dettagli architettonici sono confusamente tracciati, mentre l’arco in riflettografia non compare (probabilmente perché l’allievo che lavorava al fianco di Leonardo nella sua bottega non conosceva personalmente il paesaggio).
Per altro verso la differenza tra il paesaggio della “Isleworth Mona Lisa” e quello dell’originale del Louvre è macroscopica e ovviamente mancano del tutto sia i due dettagli architettonici che l’arco visibile all’infrarosso (per quanto il paesaggio “lunare” dello sfondo richiami vagamente a prima vista rocce in primo piano e orizzonte desertico della seconda versione de La Madonna dei fusi, ritenuta copia di bottega di Leonardo).

Il raffronto tra l’originale del Louvre e le copie che si candidano per essere riconosciute “di mano di Leonardo” è sempre problematico e per lo più il dibattito resta circoscritto a un gruppo ristretto di specialisti.
Tuttavia in questo caso i due dettagli architettonici dalla forma singolare visibili a “occhio nudo” sulla Gioconda del Louvre unitamente all’arco celato nell’underdrawing, visibile all’infrarosso, possono apportare un contributo al dibattito, poiché qualunque copia che si proponga come “l’originale” si trova a fare necessariamente i conti con il fatto che Leonardo ha riprodotto minuziosamente lo sfondo e che ha eseguito il disegno di un arco sporgente da un ingombro a falde “non finito” sul colmo, sovrapponendo in seguito all’arco un dettaglio di finitura muraria.

Poiché tali “porzioni di costruzioni”, dalle caratteristiche peculiari, rivelano che sia lo sfondo che il posto della seduta di posa del ritratto esistevano (per la mia tesi esistono) e la loro presenza sullo sfondo – in particolare quella esclusiva dell’arco nell’underdrawing – valeva (vale) a caratterizzare con precisione il luogo (quel determinato luogo) della seduta di posa.

Pertanto se una delle copie note corrispondesse a una seconda versione “originale”della Gioconda (cosa mai provata) in tal caso il Maestro avrebbe trasformato lo sfondo di realtà in qualcosa di sostanzialmente diverso, cancellandone o alterandone elementi di concreta specifica realtà da lui riprodotti dal vero (con una metafora si direbbe “apportando una qualche “alterazione genetica” al DNA originario”).

Al di là delle ricerche nell’invisibile di una tecnologia sempre più sofisticata (ormai inaccessibile al misero ricercatore e a umani “controllori”) i “dettagli” scoperti sullo sfondo, ben visibili con un piccolo sforzo di concentrazione visiva su pubblicazioni in commercio e su monitor di un computer domestico, restano quali rari segmenti del DNA del capolavoro, e, qualunque sia il pensiero di ciascuno circa l’originale e le copie, concorrono in modo peculiare a marcare l’unicità e la “mano dell’Autore” della Gioconda conservata al Louvre.

In conclusione: lo “spasmodico” interesse ai dettagli non è qui fine a se stesso, ma volto a questioni sostanziali, quali la comprensione del ritratto e delle caratteristiche dell’originale e in questo caso il detto popolare “Il diavolo sta nei dettagli” – niente affatto banale dato che affascinò menti raffinate quali Gustave Flaubert (Le bon Dieu est dans le détail) e Aby Warburg (Der liebe Gott steckt im Detail), che tuttavia gli preferirono la versione “Dio è nei particolari”- si conferma estremamente prezioso.

Grafica: Ugo Cappello