Ha girato il video della sua canzone “I was here” all’interno della sala dell’Assemblea delle Nazioni Unite, prestando così la sua celebrità alla cause umanitarie dell’Alto commissariato per i Rifugiati: spetta, infatti, alla cantante Beyoncè quest’anno il ruolo da testimonial per il World Humanitarian day, iniziativa volta a riscoprire la solidarietà e la fratellanza, organizzata e promossa dall’Onu, il 19 agosto 2012. Il 19 agosto del 2003 esplodeva, presso la sede Onu di Bagdad un camion bomba condotto da un terrorista kamikaze, che uccise 22 persone. Una strage che da allora viene commemorata ogni anno dalle Nazioni Unite che è riuscita a trasformare un evento doloroso e carico di angoscia in un’iniziativa volta a dare speranza e conforto a tutti coloro che nel mondo ne sono privi. Un’intera giornata che si pone come obiettivo quello di non rimanere immobili di fronte alle sofferenze vicine o lontane che siano dal nostro paese ma di reagire apportando il proprio contributo. Non si tratta di mettere in scena gesti eclatanti e clamorosi, perché per dare una mano a chi ne ha bisogno e per dimostrare la propria solidarietà sono sufficienti pochi e semplici gesti, talmente naturali che a volte vengono dimenticati perché travolti dall’euforia quotidiana.

 

 

 

 

La cantante americana ha quindi regalato il suo brano che ha così ribattezzato l’iniziativa del 2012: attraverso un filmato presente nel sito dedicato I was here.org, Beyoncé invita ognuno di noi a mettere in pratica quei piccoli gesti che possono cambiare la vita quotidiana di molti. Un video con l’obiettivo di lanciare un appello mondiale per aderire e per registrare poi la propria personale esperienza nel sito dedicato. Dunque, ognuno di noi ha tempo sino a domenica prossima per raccontare una storia personale di solidarietà ed aggiungere la propria voce a quella di altre milioni di persone.

 

 

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I suggerimenti presenti nel sito per aderire sono diversi ma ognuno può contribuire con i propri consigli e arricchire così la lista. Gli esempi sono diversi: basta fermarsi un attimo e guardarsi intorno e scoprire che la persona anziana vicino a noi ha bisogno solo di un po’ di compagnia; oppure che l’ospedale davanti al quale passiamo per andare al lavoro tutti i giorni è pieno di persone in cerca di una parola di conforto; o che la nostra città brulica di associazioni che ricercano volontari per portare avanti le proprie attività; o che l’oggetto che siamo in procinto di buttare nella spazzatura, forse potrebbe essere utile al nostro vicino e che regalandoglielo gli doneremo al contempo un sorriso; o che lo stesso sorriso lo potremmo riscoprire nel volto di un senza tetto a cui preparare un panino per pranzo.
I modi per rendersi utile con il prossimo e riscoprire il valore della solidarietà sono infiniti, e sicuramente una sola giornata non è sufficiente per sensibilizzare l’opinione pubblica. L’iniziativa è solo uno spunto e uno stimolo per ognuno di noi, al fine di riscoprire il valore della fratellanza e dall’aiuto reciproco che non sia circoscritto alle 24 ore della giornata dedicata.

 

Simbolo dell’unione dei cinque continenti a seconda del colore, i cinque cerchi olimpici comparvero per la prima volta nella bandiera olimpica del 1913 e furono presentati dal loro ideatore Pierre de Coubertin al Congresso Olimpico che si è tenuto a Parigi nel 1914. L’azzurro per l’Oceania, il giallo per l’Asia, il blu per l’Europa, il nero per l’Africa e il rosso per l’America, sono divenuti il segno della solidarietà e della fratellanza, valori che si riflettono nell’istituzione dei giochi stessi. Ecco alcune immagini e variazioni creative del logo tradizionale.

 

Si celebra con cadenza regolare dal 2000, anno in cui è stata istituita, la Giornata Mondiale del Rifugiato, un’occasione in cui vengono raccontate e rese note le cifre di uno dei fenomeni più tragici del nostro secolo. Perché lo status di rifugiato, riconosciuto anche a livello giuridico dalle organizzazioni internazionali, non è mai una condizione che viene scelta o eletta. A diventare rifugiato ci si ritrova improvvisamente a causa di tragici fattori esterni che costringono ad abbandonare la propria terra: si tratta di persone obbligate ad allontanarsi dal proprio paese a causa di discriminazioni razziali, religiose, politiche, guerre o carestie che, per sfuggire alle persecuzioni nei loro confronti richiedono asilo agli stati stranieri per trovare protezione. Il fenomeno dell’immigrazione forzata è sempre esistito nell’arco dei secoli ma, a seguito della seconda guerra mondiale, nel 1950 l’Onu ha istituito un vero e proprio organismo, l’Alto Commissariato per i Rifugiati (United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR) per tutelare coloro che necessitano di richiedere asilo politico. Il concetto giuridico di rifugiato, infatti, compare per la prima volta nel 1951 all’interno della Convenzione redatta il 28 luglio 1951 e definisce coloro che hanno ricevuto dallo stato che li ospita un riconoscimento a livello legislativo.

 

Le cifre snocciolate dal rapporto annuale dell’alto commissariato sulla evoluzione del fenomeno lo scorso anno sono sconfortanti: nel 2011 sono stati 4 milioni e 300mila coloro che hanno abbandonato forzatamente la propria casa per rifugiarsi all’estero. Si tratta del dato più alto registrato negli ultimi 12 anni, stima che si è aggravata in particolar modo a seguito della recente guerra in Libia. La maggior parte di questi è rimasta all’interno del proprio paese, mentre 800 mila sono coloro che hanno trovato rifugio nei paesi confinanti.

Ogni anno, sono diverse le iniziative organizzate in Italia dalle istituzioni e dalle associazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica su una problematica sempre attuale. Come ormai accade da qualche anno, a Roma nella notte tra il 19 e il 20 giugno il Colosseo si è illuminato: sulle pareti del celebre anfiteatro è stato proiettato tutta la notte il logo dell’alto commissariato dell’Onu. Stasera l’appuntamento invece è spostato al cinema Kino Village dove verrà proiettato il film “Mare Chiuso” di Andrea Segre e Stefano Liberti, patrocinato da Amnesty International.

 

A Napoli la campagna di sensibilizzazione durerà l’intera serata del 20 giugno: si inizia dal pomeriggio con la proiezione in piazza di un documentario per continuare sino a sera con un concerto di musica tradizionale del Mediterraneo accompagnata da un aperitivo multietnico.

 

Tutti gli eventi per questa giornata sono consultabili sul file dell’agenzia UNHCR

 

 Slavery Footprint

 

 

 è un sito web che vi farà riflettere. L’idea nasce dalla semplice domanda che ognuno di noi forse ha un po’ timore di porsi: oggigiorno quanti “schiavi” lavorano per noi? Ufficialmente la schiavitù venne abolita negli Stati Uniti nel 1865 dal presidente Abraham Lincoln, eppure nel XXI secolo non è esattamente così: perché ogni vestito che indossiamo, ogni oggetto di elettronica che utilizziamo, i mobili con cui arrediamo la nostra casa, spesso non sono stati realizzati seguendo modalità di lavoro corretto nel rispetto degli operai e degli artigiani. Più o meno tutti ne sono a conoscenza grazie ad articoli dei giornali e a reportage televisivi, ma nessuno di noi ha mai pensato di avere una responsabilità diretta nell’evoluzione delle nuove forme di schiavitù, attraverso semplici gesti quotidiani. Lo scopo del sito è proprio portare ognuno alla consapevolezza di quanto le nostre abitudini quotidiane influiscano sulla tratta e sullo sfruttamento dei nuovi schiavi.

 

 dopo una breve introduzione animata ed interattiva per attirare l’attenzione dell’utente su quanto la problematica sia attuale e quanto coinvolga ognuno di noi, si accede ad un test che prevede 11 semplici domande sulle nostre consuetudini di vita per capire quanto in realtà siamo fruitori delle aziende e delle multinazionali che sfruttano i lavoratori ridotti in schiavitù. La prima informazione da fornire è in quale città si risiede e, successivamente, andare avanti con i quesiti per rendere sempre più dettagliato il vostro profilo (che in ogni caso rimane completamente anonimo). Nei passaggi successivi sono chiesti il sesso, l’età e se si hanno figli. Da qui in poi vi sentirete, forse, all’interno di un gioco in cui mettervi a confronto con le vostre caratteristiche: di quante e quali stanze è composta la vostra casa ( per realizzarla dovrete trascinare le stanze nelle casa interattiva); quali sono i cibi che consumate maggiormente (una volta stabilita la percentuale dell’apporto di proteine, verdura e carboidrati, si aprirà una finestra laterale in cui potrete personalizzare per ogni pietanza la quantità che ne assumete); quanti sono invece i cosmetici e le medicine che contiene il vostro armadietto del bagno ( anche in questa sezione si aprirà una finestra laterale per personalizzare ogni prodotto); quanti e di che materiale sono fatti invece i gioielli che indossiamo; quanti e quali dispositivi elettronici usiamo; quali sport pratichiamo; quanti vestiti contiene il nostro armadio. Sino ad arrivare all’ultima domanda, quella relativa allo sfruttamento sessuale, per sensibilizzare tutti coloro che non sono abbastanza informati sui soprusi e le violenze che quotidianamente subiscono le ragazze costrette a prostituirsi. Siete pronti a vedere il risultato alla fine del test?

 il sito rappresenta una buona modalità per affrontare da un punto di vista diverso un tema molto importante che spesso viene tenuto sotto silenzio o che viene pubblicizzato con numeri astratti e generici. Essere coinvolti in prima persona e calcolare quale sia il peso della propria responsabilità nel mercato degli schiavi, non può far altro che avvicinarvi ad un tema spesso considerato estraneo alla nostra vita di tutti i giorni. Lo scopo del sito inoltre non termina qui: dopo il risultato del test, infatti, ognuno potrà visionare le soluzioni più indicate per capire quali siano le modalità di lavorazione di un prodotto, imparando ad acquistare oggetti tracciabili da un riconoscibile marchio “Made in a free World”. Perché non basta denunciare, bisogna anche offrire un’alternativa.

 il sito non è molto conosciuto sino ad oggi, forse anche perché per adesso è strutturato solo in lingua inglese. Sarebbe auspicabile che nel futuro anche chi non conosce questa lingua possa partecipare al test.

 

 tutti i cittadini dei paesi del cosiddetto occidente industrializzato affinché abbiano una maggiore consapevolezza su quale sia il modello economico alla base del proprio stile di vita.

 http://slaveryfootprint.org/

 

 

 

Recuperare la tradizione degli itinerari a piedi, più lenti ma allo stesso tempo più complessi e ricchi di esperienze, imprevisti, informazioni. È questo una delle ragioni di Stella d’Italia, un’iniziativa partita dal web, che prevede la realizzazione di quattro differenti marce in partenza da ogni angolo della penisola, per congiungersi poi alla meta finale, la città dell’Aquila, che rappresenta non solo il comune al centro dell’Italia ma anche una comunità profondamente colpita dal terribile terremoto di tre anni fa. Simbolo emblematico di una parte del nostro paese profondamente ferita, ma che non rappresenta un caso isolato. Sono innumerevoli le situazioni analoghe di abbandono a cui questa iniziativa si prefigge di portare solidarietà, al fine di ricucire quello strappo che divide questi territori dal resto del paese. Al contempo, durante l’itinerario, l’obiettivo è quello di acquisire la conoscenza dei luoghi attraversati, delle loro problematiche e delle prospettive future per le comunità e per questi territori. Non una semplice passeggiata dunque, ma un modo per riscoprire i luoghi meno frequentati dai turisti nel nostro paese e scoprire quali sono le attività portate avanti nel territorio da tutte le associazioni pubbliche e private che ne costruiscono il futuro. Recuperare il significato del viaggio come scoperta continua, ripercorrendo la struttura del pellegrinaggio convenzionale.

Il pellegrinaggio è stato nei secoli non solo un viaggio finalizzato a rafforzare la propria fede, ma soprattutto un lungo cammino alla scoperta di forma mentis completamente differenti. Bastava allontanarsi anche di pochi chilometri per entrare in contatto con culture estranee e diverse, sentire racconti e leggende non proprie. Una tradizione andata perduta con l’avvento dei mezzi di locomozione e dell’aereo. Ormai si decide solo la meta da raggiungere, mentre tutto ciò che c’è nello spazio intermedio tra il luogo di partenza e quello di arrivo non è più parte dell’itinerario. Contestualmente è andata perduta anche la tradizione di sentir narrare i fatti e le leggende del luogo dove si transitava, la sinergia che si creava tra gli autoctoni e il nuovo arrivato venuto da fuori. Riscoprire quindi il confronto e il dialogo sarà l’imperativo di questa lunga marcia verso l’Aquila.

La marcia è partita lo scorso 11 maggio e si snoderà nel corso di 60 giorni; le partenze sono Messina, Reggio Calabria, Venezia, Genova, Santa Maria Di Leuca. Diverse le tappe previste in territori critici dove è forte la volontà di reagire: da Genova colpita duramente lo scorso ottobre dall’alluvione, alla Calabria dove si entrerà in contatto con tutte quelle aziende che fanno parte dell’Associazione Libera, sino a Matera dove si svolgeranno incontri musicali e letterari.
La partecipazione all’iniziativa è libera e ognuno può unirsi al percorso dove e quando preferisce. L’unico requisito è la volontà di conoscere e confrontarsi con tutte quelle realtà nostrane vicine ma differenti.

Tutto il programma e le tappe sono visualizzabili al sito.

 

Tanti auguri cara mamma. Una frase semplice e forse ordinaria che molti pronunceranno il prossimo 13 maggio, in occasione della festività mondiale. Molti, ma non tutti. Perché avere una mamma a cui dedicare i propri auguri affettuosi non è sempre così scontato.
Se la figura materna in quanto guida nella propria esistenza sia convenzionalmente considerata fondamentale per la formazione e l’educazione dell’individuo, dovrebbe essere ovvio e assodato che anche il diritto di “diventare mamme” sia indiscutibile e garantito. Ebbene non è proprio così. Ad oggi sono circa 358 mila le donne che muoiono ogni anno durante il parto o per complicazioni legate alla gravidanza. In media una donna ogni 90 secondi.
Con una dovuta prevenzione e soprattutto con un’adeguata informazione moltissime di queste morti (sembra il 90% del totale) potrebbero essere evitate. Ed è per sopperire a questa mancanza di comunicazione che è nata la campagna “No mother’s day”, un’iniziativa provocatoria, ideata dalla ex modella newyorkese Christy Turlington Burns, per sensibilizzare tutte le mamme e le donne del mondo e renderle coscienti dei numeri del fenomeno. Il messaggio è contenuto in un video diffuso sul web e dai maggiori social network: le diverse testimonial famose ma anche tante donne comuni fanno un appello per partecipare attivamente, denunciando attraverso il proprio silenzio questa situazione ancora irrisolta, proprio nella giornata in cui milioni di mamme fortunate riceveranno fiori e biglietti. La proposta è quella di non aderire a questa festività e tacere, rifiutando di festeggiare, per far comprendere quale sia il vuoto immenso che lascia un genitore quando non può più parlare ai propri figli e per far capire quale sia l’assenza a cui sono condannati gli orfani di tutto il mondo.
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E per denunciare che non esiste solo il fenomeno della mortalità infantile: sono molte le donne che ogni giorno perdono la vita per donarla ai propri figli. E sebbene la percentuale dei decessi abbia registrato un netto calo dal 1980 al 2008, da 526mila a 358mila, la mortalità materna non è ancora stata del tutto debellata. Si tratta di un fenomeno che coinvolge maggiormente i paesi poveri, sottosviluppati o in via di sviluppo: in Zimbabwe ad esempio è aumentata del 5,5%. La maggior parte di queste donne sono in realtà ancora della bambine, tra i 15 e i 19 anni, che perdono la vita perché il loro corpo non è ancora sviluppato sufficientemente per sostenere e portare avanti una gravidanza. In altri casi, invece, la causa delle complicanze è dovuta alla mancanza totale delle cure mediche di base necessarie durante il periodo della maternità. E se questi casi sembrano estranei e lontani dal mondo occidentale, la realtà è ben diversa e anche il florido occidente non sembra essere immune da questo fenomeno: gli Stati Uniti, paese in cui la spesa per la ricerca sanitaria supera gli 86 miliardi di dollari l’anno, si classificano al 50esimo posto nel mondo per la prevenzione della mortalità dovuta a complicazioni durante la gravidanza. A subirne le conseguenze sono le donne afroamericane, appartenenti a minoranze etniche o a fasce della popolazione indigente che non hanno accesso alle cure ospedaliere, perché non riescono a sostenere le spese dell’assicurazione sanitaria.
Sono cifre che lasciano perplessi e sbigottiti, soprattutto in un territorio come gli Usa in cui le cure di base non sono limitate o inaccessibili perché è in corso un conflitto armato o una carestia. Sono numeri che confermano quanto anche nel XXI secolo, il diritto ad essere mamme non viene ancora pienamente tutelato. Ed è proprio dagli Stati Uniti che è partita questa campagna di sensibilizzazione diffusa sul web: un invito ad aderire al silenzio per richiedere a gran voce che il prossimo anno ci siano più mamme nel mondo e che a tutti i bambini venga garantito lo stesso privilegio fondamentale di poter crescere con la guida della persona che per nove mesi li ha ospitati amorevolmente. Per ribadire che essere genitori è sì una vocazione, ma anche un diritto che dovrebbe essere garantito a chiunque decida di intraprendere questa strada. Un cammino che dovrebbe portare alla felicità e non alla morte.

 

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In questi giorni, partenza avvenuta il 23 luglio, più di 440 squadre cominceranno ad affrontare un percorso di decine di migliaia di chilometri attraverso territori sconosciuti, alcuni pericoli e storie dimenticate, respirando polvere e odori di luoghi lontani, per arrivare fino a Ulaan Bataar, capitale della Mongolia.
Lo scopo di questo viaggio sarà non solo la ricerca dell’avventura e la scoperta di luoghi lontani e misteriosi ma anche e soprattutto la solidarietà verso territori dalla storia spesso tormentata.
La nascita del Mongol Rally risale al 2001 per iniziativa di due inglesi che decisero di partire all’avventura per la Mongolia, poco attrezzati ma pieni di entusiasmo.
La prima competizione a squadre è databile invece al 2004; da quel momento, ogni anno, sempre più persone si sono dimostrate interessate a partecipare alla gara.
Oggi il Mongol Rally è un’iniziativa bandita annualmente dalla League of Adventurists International Ltd, una grandissima società che organizza avventure a scopo benefico, di cui molti sono rally spericolati in giro per il mondo, cui si è aggiunto qualche anno fa, per esempio, anche il Rally d’Africa.
Ogni squadra partecipante al Mongol Rally è tenuta a raccogliere almeno 1000 sterline che vengono devolute ad associazioni di volontariato che si occupano principalmente delle comunità e dei bambini di etnia mongola, oppure che operano negli altri Paesi attraversati dalla corsa.
Quest’anno, ad esempio, l’associazione ufficiale che beneficerà di gran parte delle donazioni raccolte è la Christina Noble Children’s Foundation, con il suo Blue Skies Ger Village.
In questo villaggio vengono ospitati bambini orfani e non, ai quali manca il supporto familiare, con l’intento di dar loro un futuro migliore attraverso un posto sicuro dove vivere, un’istruzione scolastica e un luogo accogliente per sopperire alla mancanza di una famiglia.
Le condizioni per partecipare al rally sono un’ulteriore particolarità dell’iniziativa, oltre all’intento solidaristico, infatti alla corsa sono ammesse solamente auto che non superino i 1000 cc di cilindrata (sono vietate le 4×4) e oltretutto non esiste alcuna forma di assistenza lungo il percorso.
L’unica tappa obbligatoria, infine, è Praga, dove tutti i partecipanti dovranno transitare il secondo giorno, ma da lì in poi ogni squadra sarà libera di seguire un proprio percorso verso la meta finale.
Tutte le squadre si stanno organizzando per raccogliere aiuti sia per poter portare a termine l’impresa di terminare la corsa, sono svariate a tal proposito le necessità: da un kit di primo soccorso al carburante a qualche pit-stop lungo il percorso, sia per convogliare più denaro e beni possibile  nelle casse delle ONG che li utilizzeranno a favore delle comunità locali, in special modo dei bambini. E i mezzi per farlo, spesso, sono la versione semplificata della formula uno: pubblicità, tasselli, spazi e loghi sui veicoli che partiranno all’avventura.
Tra le squadre che stanno prendendo parte alla “gara” da segnalare anche una no-profit fiorentina che condurrà fino in Mongolia qualcosa di importante e lì molto raro: Carlotta.
Questo è il nome dell’auto-ambulanza, donata dalla Croce Verde Baggio di Milano, che l’associazione si è data il compito di far arrivare, insieme ad altri aiuti umanitari, fino a Ulan Baatar usandola come mezzo prescelto per il viaggio. Il livello delle prestazioni sanitarie locali è bassissimo e avere la disponibilità di  un mezzo speciale per le emergenze può davvero fare la differenza per qualche comunità del luogo.
Il Mongol Rally è un’iniziativa carica di tutto il fascino che porta inevitabilmente con sé un’avventura in terre lontane, soprattutto in un viaggio fitto di incognite e denso di incertezze, con però un importante punto fermo, essenziale per tutti i partecipanti: la consapevolezza di stare facendo del bene e di stare contribuendo ad aiutare una nobile causa.

È stato lungamente scritto in merito alle trasformazioni sociali che la musica leggera ha raccontato e contribuito a generare a partire dalla metà del secolo scorso.
Elvis e la rivoluzione sessuale, i Beatles e il Vietnam, gli U2 e l’impegno politico sono forse gli esempi più noti di quella relazione profonda e naturale tra una certa musica d’autore e la realtà politica e sociale all’interno della quale nasceva e si esprimeva. Tuttavia solo intorno agli anni ’80 ha iniziato a diffondersi un “metodo d’uso” della musica che vede il contenuto artistico fondersi con una specifica forma organizzativa. Parliamo del LiveAID: promosso da Bob Gheldolf, l’evento rappresenta il più riuscito tentativo, a livello globale, di usare la musica sia come strumento di divulgazione sia come occasione per raccogliere fondi a favore di un progetto umanitario.
Dopo quel concerto, tenutosi nel luglio del 1985, se ne sono tenuti moltissimi altri, sulla scorta di quella stessa idea. Nel corso del 2010, in Italia sono stati promossi quattro progetti discografici, di seguito descritti in ordine temporale, che rappresentano l’evoluzione in chiave editoriale di quel “metodo” che dal LiveAID ha preso piede.
Amiche per l’Abruzzo è un doppio DVD con le riprese del concerto voluto da Laura Pausini che si è svolto il 21 giugno 2009 allo stadio di San Siro a Milano e che ha visto la partecipazione di oltre quaranta artiste. Lo scopo dell’evento, trasmesso in diretta a reti unificate da dodici network radiofonici italiani per un bacino potenziale di circa trenta milioni di ascoltatori, e dopo del DVD era quello di raccogliere fondi per la popolazione dell’Abruzzo, a seguito del terremoto del 6 aprile 2009.  Il DVD contiene gran parte del concerto con oltre 240 minuti di musica riproponendo cinquanta canzoni e parte del backstage con le interviste alle protagoniste.
Registrato ai Fisher Lane Studios, il brano Don’t let me go firmato dagli Hana B per la campagna Every One di Save the Children, la più grande organizzazione internazionale impegnata per migliorare concretamente la vita dei bambini nel mondo. Scaricando Don’t let me go a partire dal 20 settembre è possibile sostenere Save the Children. Gli Hana B hanno ceduto alla Onlus tutti i diritti economici del brano favore della campagna Every One, che ha come obiettivo quello di coinvolgere le nuove generazioni su quali siano le reali condizioni di vita di moltissimi bambini nel mondo e sulla necessità che ognuno di noi debba operare concretamente in difesa dei diritti dell’infanzia.
In occasione del 25 novembre – Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, l’Associazione NoveLune ha chiesto al collettivo internazionale The Mainstream di realizzare una versione italiana del loro brano Un poco de amor. La nuova versione, ha il ritornello cantato in italiano da Giulia Ottonello. La canzone, distribuita esclusivamente attraverso gli store digitali, è strutturata come una sorta di dialogo tra un uomo e una donna, in cui quest’ultima, per quanto coinvolta, chiede di essere lasciata libera. Il brano nasce dalla collaborazione tra NoveLune e UDI Genova, struttura di volontariato che gestisce e mantiene un centro antiviolenza, dove vengono ospitate e protette le donne che hanno avuto il coraggio di ribellarsi e denunciare le violenze subite, per lo più in ambito famigliare. Il progetto prevede che l’UDI Genova benefici della totalità dei proventi derivanti dal diritto d’autore.
Agli inizi del mese di luglio, Niccolò Fabi attraverso un messaggio di Facebook, raccontò della morte della figlia Olivia, di appena due anni, a causa di una forma acuta di meningite. Quella notizia, che colpì profondamente i fan del cantautore romano e gli amici musicisti, giunse anche a Mina, che in una lettera privata espresse la sua vicinanza a Fabi.  Il tragico evento e lo scambio epistolare hanno portato ad una riedizione di Parole parole, che la piccola Olivia aveva imparato a riconoscere e cantare. La nuova versione della canzone è interpretata quasi interamente da Fabi, con una sola – ma significativa – strofa affidata a Mina. La traccia è venduta come cd singolo all’interno del cofanetto Parole di Lulù, uscito il 10 dicembre, insieme al video-racconto del concerto tenutosi il 30 agosto 2010 al Casale sul Treja, per ricordare Olivia, che quel giorno avrebbe compiuto tre anni. I proventi dalla vendita della canzone sono devoluti al CUAMM, ONG impegnata in Africa da oltre sessant’anni, per il progetto di costruzione del reparto pediatrico dell’ospedale di Chiulo in Angola.
Questi quattro progetti editoriali hanno alcuni punti in comune e altrettante specificità.
Nel caso di Parole di Lulù e Amiche per l’Abruzzo la genesi del progetto nasce da un interesse diretto e personale degli artisti, mentre nel caso Silenzio e per Don’t let me go i musicisti vengono coinvolti da organizzazioni umanitarie.
Per Amiche per l’Abruzzo e Parole di Lulù sono state strutturate importati campagne di distribuzione e promozione, sostanzialmente sfruttando il sistema della discografia tradizionale; d’altro canto gli altri due progetti hanno impiegato il web per la vendita del brano.
In tutti i casi i musicisti con i loro management e discografiche hanno strutturato dei rapporti di collaborazione con precise organizzazioni – nazionali o internazionali – al fine di garantire una maggiore trasparenza nella raccolta fondi e convogliare i risultati verso scopi specifici.
Infine si può notare come gli obiettivi di ciascun progetto fossero estremamente diversi tra loro: la ricostruzione di un’area colpita da terremoto, una campagna per combattere la mortalità infantile, il mantenimento di una struttura per ospitare donne fuggite dalle violenze, il miglioramento del servizio sanitario in un paese africano. Questo suggerisce che la musica rappresenta un linguaggio “etico” capace di supportare argomenti anche diversi tra loro, ma non tanto perché si tratta di una forma d’arte tout court, ma perché è in grado di influenzare lo stato d’animo dei suoi utenti, in modo da renderli più sensibili a prescindere dal tema.