valerioapreaÈ possibile far apprezzare ai bambini (e anche ai grandi) Mozart, Schubert, Rossini, la musica classica e il teatro? L’autore Ennio Speranza e il regista Stefano Cioffi hanno pensato ad uno spettacolo i cui protagonisti saranno proprio la musica, il flauto, la magia e i bambini. Te lo suono io il flauto si terrà l’1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La storia di uno degli strumenti più dolci, affascinanti e democratici, il flauto, sarà accompagnata dalla musica dal vivo di duecento flautisti.

La voce narrante di questa suggestiva esibizione sarà quella di Valerio Aprea, giovane e brillante attore di teatro, cinema, televisione, che ha recitato in ruoli drammatici, profondi, leggeri e comici, con artisti e registi d’eccezione. Per l’occasione gli abbiamo chiesto cosa ne pensa della musica, del teatro, dei bambini e dei sogni.

 

Sei la voce di Te lo suono io il flauto, in un reading fantastico sulla storia di questo strumento. Come si mescoleranno, in questo caso, il tuo talento comico, la performance teatrale, la musica e la necessità di coinvolgere i bambini e catturare la loro attenzione?

In realtà non abbiamo ancora stabilito definitivamente ciò che accadrà sul palco nei minimi dettagli. So per il momento che presterò la voce ad un excursus sul flauto e la sua storia, e questo in alternanza con la musica ma anche mescolato ad essa, il tutto cercando anche un modo di interagire con i giovani spettatori, che immagino saranno affascinati dall’insieme di parole e suoni.
Sarà quindi uno spettacolo non tanto di comicità, ma di evocazione e, spero, forte suggestione.

 

Te lo suono io il flauto è uno spettacolo per tutti, ma con un occhio di riguardo particolare per i bambini. Hai lavorato altre volte a stretto contatto con i più piccoli? Com’è collaborare con loro e recitare per loro?

No, veramente non ho mai recitato davanti a loro. Al limite mi è capitato, in un paio di occasioni, di recitare insieme a loro e, come sempre in questi casi, di rimanere impressionato dalla naturale capacità di recitare molto meglio di me.

 

Il flauto è uno strumento particolare, democratico, che, per motivi scolastici, un po’ tutti abbiamo avuto l’opportunità di suonare. Partecipando a questo spettacolo ti sei appassionato anche tu allo strumento? E in generale che ruolo ha la musica nella tua vita?

A dire il vero mi sono appassionato allo strumento molto prima di questo spettacolo, più o meno all’età di 9 anni, quando, come tutti credo, lo studiavo a scuola nell’ora di musica (ma è esattamente, tra l’altro, quello che dirò nello spettacolo). Quanto alla musica in generale, bè, ha un ruolo direi congenito forse perché appartenendo ad una famiglia di musicisti classici ne ho conservato l’inclinazione, pur non avendo proseguito studi musicali, comunque approcciati da adolescente. Credo che se non avessi fatto l’attore, avrei fatto il musicista.

 

Pensi che alcune forme artistiche, considerate di solito elitarie, come la musica classica e il teatro in generale, dovrebbero essere comunicate in modi diversi ai pubblici giovani? Come potrebbero essere attratti nuovi spettatori e ascoltatori?

Temo di sì. Quando fui portato con la scuola al cinema o a teatro a vedere qualcosa, che per fortuna non ricordo più, diciamo ecco che non fu esattamente una folgorazione. E infatti non lo ricordo più. Mentre dovrebbe essere il contrario. È una questione enorme e di difficilissima risoluzione. Diciamo che si dovrebbe essere bravi a selezionare accuratamente ciò che si vuole proporre a dei giovanissimi, pensando davvero che possano essere gli unici colpi a disposizione per andare a segno nella loro sensibilità, nella loro immaginazione e capacità di ricezione. Sprecati quei colpi, si avrà probabilmente una forma di rigetto. Inutile dire che il discorso vale esattamente anche per il pubblico adulto.

 

In Te lo suono io il flauto si parla anche tanto di magia, di storie, di sogni. E tu da bambino eri un sognatore? Cosa pensavi che saresti diventato “da grande”? E cosa consigli ai sognatori di oggi che vorrebbero intraprendere una carriera come la tua?

Diciamo subito che non rientro nella categoria di quelli che sin da piccoli sognavano di fare l’attore ecc. Non ho mai saputo cosa volessi fare, e anche quando ho iniziato a studiare recitazione ci sono voluti anni e anni perché mi decidessi ad ammettere di fare l’attore. Quello che posso suggerire a questi ‘sognatori’ è di capire più in fretta possibile se hanno davvero le qualità per essere quello che vorrebbero essere e poi di quale tipo siano queste qualità. Perché si può poi essere attori o attrici in vari modi. Tutto sta ad individuare qual è quello più congeniale a se stessi.

 

TAFTER è mediapartner dell’evento. Scarica qui la riduzione riservata ai nostri lettori!

teatrovallesedeDurante la presentazione delle statistiche sull’attività di spettacolo relative ai primi sei mesi del 2013, il direttore generale della SIAE Gaetano Blandini ha colto l’occasione per parlare di diversi temi scottanti del settore, quali le conseguenze derivanti dalla legge di stabilità, il regolamento dell’Agcom contro la pirateria on line e, immancabile, la spinosa questione del Teatro Valle Occupato, ora trasformato in Fondazione. La SIAE come l’AGIS da sempre ritengono che nel palco capitolino permanga una “situazione di illegalità e di alterazione della concorrenza”, sebbene in molti, tra cui il nostro editorialista Gioacchino De Chirico, abbiano accolto la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune come un importante traguardo.

Sul tema abbiamo voluto interpellare una voce super partes, rivolgendo alcune domande ad un esperto in materia di economia della cultura, qual è il Professore Michele Trimarchi. Questa la sua analisi sul “fenomeno Valle”.

 

E’ nata la Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Cosa è cambiato rispetto a prima?
Dalla fine del modello ETI alla nascita della Fondazione sono cambiate molte cose: lo spiazzamento, l’occupazione, una partecipazione intensa di artisti e di pubblico, un’inedita attenzione intellettuale. La prospettiva, tuttavia, è che le cose tornino più o meno com’erano prima, con un teatro che produce poco e distribuisce molto nell’ambito di un circuito commerciale sostenuto da fondi pubblici, e con processi decisionali che in poco tempo sostituiranno la condivisione assembleare e lo spontaneismo con dei protocolli convenzionali.

 

Ci saranno novità per il pubblico? Quali?
Per il pubblico le cose cambiano soltanto se cambia la varietà e la qualità della programmazione teatrale, e anche se agli spettacoli si associano sistematicamente ulteriori e più ampie opzioni artistiche. Si tratta di cose che vanno progettate con acutezza e che dipendono dalla capacità di coniugare le strategie gestionali e gli orientamenti artistici.

 

Ci indichi un aspetto positivo ed uno negativo presenti nello statuto della neonata Fondazione.
Lo Statuto è portatore di un indirizzo politico ben chiaro, e contiene molteplici vincoli e divieti. La sua effettiva caratura si potrà comprendere solo nel corso del tempo, quando cioè le attività di ogni giorno dovranno fare i conti con la rotazione obbligatoria delle cariche sociali, con l’unanimità indispensabile nelle prime due riunioni per ogni decisione, con l’equalizzazione delle posizioni, con il ruolo quasi ancillare delle attività teatrali rispetto alla vocazione politica. E’ uno Statuto ricco di principi molti belli e di intenzioni positive e trasparenti. Lo erano anche le Tavole della Legge.

 

SIAE e AGIS contestano l’illegalità del Valle. Hanno ragione? Perché?
L’occupazione di uno spazio da parte di persone diverse dai suoi proprietari non può essere definita legale. In momenti complessi come quello che stiamo attraversando lo scontro tra formalismi rigidi e spontaneismi che si giustificano da sé non può sorprendere. Quando le regole del gioco finiscono per mummificare un sistema il desiderio e il bisogno di superarne le strettoie emergono naturaliter. Di norma le rivoluzioni non generano un mondo migliore, ma solo un mondo diverso; ad alcuni appare irrinunciabile, ad altri nefasto, anche questo accade ogni volta.

 

Ritiene che questo “modello” sia sostenibile a lungo termine? Come?
Un modello non può essere sostenibile o fallimentare, la realtà sì. Lasciamo che la Fondazione cominci a funzionare, e si vedrà quali intuizioni risulteranno praticabili, e quali illusorie. Regole forti possono non piacere, ma se ben concepite possono arginare i problemi generati dalle dinamiche umane; il modello adottato dalla Fondazione combina processi di partecipazione che richiedono grande senso di responsabilità e griglie piuttosto rigide che probabilmente dovranno essere gestite con qualche flessibilità. Solo nel corso degli anni si potrà comprendere la sostenibilità del progetto.

 

E’ un esperimento replicabile? Se tutti gli spazi occupati seguissero il medesimo iter, cosa accadrebbe?
L’occupazione degli spazi in tutto il mondo è il risultato di molteplici ed eterogenee motivazioni, di solito condivisibili e in alcuni casi addirittura drammatiche. Ma quasi mai è assistita o originata (come sarebbe ragionevole) da una strategia orientata a costruire un reticolo di scelte e azioni che superino il passato evitandone fragilità e sbagli. Che molta comprensibile rabbia serpeggi e si diffonda è nella logica delle cose, dopo due secoli abbondanti di un paradigma aggressivo e frettoloso, la pars destruens è ben chiara.

 

buiobendaSiamo poco più di trenta, uomini e donne. Ci accoglie Ulla, che nel foyer inizia a raccontarci di come l’Espace sia uno dei luoghi in cui è nato il cinema, a fine Ottocento; anche i Lumiere sono passati da qui. Poi ci guida in un veloce training: inspirare ed espirare, ridire, saltellare e fare boccacce.
Ulla Alasjärvi, fondatrice con il compagno Beppe Bergamasco della Compagnia Sperimentale Drammatica, matura ed energica donna finlandese trapiantata da trent’anni in Italia, ci dice che questo spettacolo ha a che fare con il sogno, quindi ci porge una benda nera e ci invita ad indossarla. A coppie gli attori ci accompagnano all’interno della sala e ci fanno sedere. Lo spettacolo inizia.

Se la parola teatro deriva dal greco theatron, che rimanda all’idea della percezione visiva, qui la precedenza è acquisita dall’udito, dal tatto, dal gusto. Lo spettacolo, ma potremmo chiamarla performance partecipata, dura circa un’ora, anche se dopo pochi minuti bendati semplicemente perdiamo il senso del tempo, insieme a quello della prossimità. Sentiamo gli altri abbastanza vicini, ma non sappiamo esattamente in quale punto ci troviamo del grande salone bianco che è l’Espace e allo stesso modo diventa praticamente impossibile stabilire dove sono gli attori.

Questa “perdita dell’orientamento” è la condizione necessaria alla performance.

Una volta seduti, gli attori passano a consegnarci dei sacchetti di riso come antistress, perché questa condizione innaturale può davvero generare una certa ansia. Quindi iniziano ad alternarsi una serie di “sequenze”: brevi letture, dialoghi intimi, brani musicali e rumori che gli attori eseguono a varie distanze e posizioni da noi “spettatori”. In questo stato è piuttosto difficile rimanere concentrati e ammetto che ad un certo punto mi è venuto sonno. Per ridestare l’attenzione e mantenerci “attivi”, gli attori, quattro in totale, ci girano intorno sussurrandoci alcune frasi nell’orecchio, porgendoci un cioccolatino o una mela, sfiorandoci una spalla.

Credo si possa dire che ciascuno ha “visto” uno spettacolo diverso. Certo non dormivamo, ma l’approssimazione al sogno era così forte che le immagini che si susseguivano nella mente di ciascuno erano il frutto della propria personale fantasia, se non proprio del subconscio.

Terminata la performance e lasciatoci il tempo di adeguare gli occhi alla luce, Ulla ha iniziato a chiederci cos’era accaduto: se ricordavamo i dialoghi e chi li aveva pronunciati (uomo o donna), se avevamo riconosciuta la tal melodia, se avevamo mangiato la mela. Le risposte erano vaghe, ci sentivamo tutti un po’ fuori fase. L’obiettivo, ha spiegato Ulla, era esattamente quello di sottrarre al senso della vista il monopolio della creazione di rappresentazioni, ovvero aiutarci a trovare altri appigli per le nostre immagini mentali.

L’idea di questo progetto è nata qualche anno fa, quando la compagnia ha tenuto un ciclo di laboratori a Palermo e si è trovata a lavorare con due persone ipovedenti. Questo limite ha suggerito la strada per una modalità di lavoro teatrale che, a partire da gesti e soluzioni estremamente pratiche, garantisse un’alta resa rappresentativa. Detto altrimenti: quali azioni possono garantire al pubblico una visione senza la necessità della vista?

Il teatro contemporanea, così come la musica colta e l’arte, tende alla continua rimessa in discussione del proprio linguaggio. Ci chiediamo quindi cosa, come, perché rappresentare. La domanda però è lì da sempre e Cartesio la diceva così: sogno o son desto?

 

ceneandiamoE’ pieno il Palladium; è l’ultima delle tre sere della prima assoluta di “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, nel corso del decimo compleanno di Roma Europa Festival.
C’è un’atmosfera calda, il pubblico, sempre di quella tipologia un po’ “intellettuale” che è tipica di Roma Europa, ha un’età media di una trentina d’anni. Mi colpisce sentire che qualcuno sta tornando a distanza di due giorni, portando altra gente: le aspettative si alzano.
Lo spettacolo, coproduzione Roma Europa e Teatri di Roma, è ispirato al romanzo di Petros Markaris “L’esattore”, legato alla vicenda delle quattro pensionate greche che si sono tolte la vita insieme, dopo l’ennesimo taglio alla loro pensione. Si parte da un’immagine precisa del romanzo, ce lo ripetono gli attori stessi più volte: le quattro donne vengono ritrovate, due distese sul letto, due assopite ciondoloni da una sedia.

Tre sedie, un tavolo ed un fondale nero: i quattro attori non utilizzano altro per ricostruire il viaggio interiore che li ha portati ad immaginarsi il momento prima di quel tragico gesto, per ricostruire la scena della bevuta dei sonniferi mortali, dei pensieri che avranno attraversato la testa di quelle donne mentre all’unisono incastravano negli ultimi attimi vite che probabilmente non le avevano unite in precedenza tra loro, quasi a dire che non c’è bisogno di un passato comune per condividere un obiettivo finale ed estremo come quello che hanno compiuto queste donne.

L’operazione che propongono Deflorian e Tagliarini, insieme con Monica Piseddu e Valentino Villa, è di sfondamento della quarta parete di pirandelliana memoria: raccontano il travaglio dell’attore, il suo percorso verso l’assunzione delle sembianze del personaggio giocando sul non saper fingere.

Su questo doppio gioco ognuno fa il suo monologo: si parte spesso dalle azioni quotidiane, di vita nostra.
C’è la tapparella che si rompe e, andando a comprare delle cinghie di ricambio alla ferramenta di fiducia, si scopre che sta chiudendo ed intere famiglie di commessi si interrogano sul loro futuro, ci sono le bollette che non si riescono a pagare, l’affitto improvvisamente insostenibile.
Il quotidiano che diventa esempio del dramma esistenziale è però raccontato senza mai essere esasperato, il pubblico ride.
I corpi degli attori anticipano le parole, sono la vera forza dello spettacolo: Monica Piseddu sorprende il pubblico quando, con un gesto rapidissimo che parte dalle spalle, passa dal comico racconto dei suoi risvegli improvvisi nella notte a ricalcare precisamente l’immagine del romanzo da cui parte lo spettacolo di una della donne sdraiate.

Quasi senza che il pubblico se ne accorga il tavolo, ultimo degli elementi scenografici a fare il suo ingresso in scena, diventa il tavolo delle quattro donne con quattro bicchieri, la bottiglia di vodka per la certezza della creazione di un cocktail micidiale con i sonniferi, le quattro carte d’identità in ordine e le voci che rileggono il biglietto “ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre quattro pensioni e vivrete meglio”. Diventa tutto nero, siamo alla ricostruzione della storia, arriva anche l’azione finale di chiusura, netta, inequivocabile: gli attori ricoprono le sedie, diventano nere anche loro, come la tovaglia sul tavolo, come il fondale del palco.

Lo spettacolo finisce, gli attori sono richiamati tre volte, lo spettacolo che avevano dichiarato di non poter fare perché ci si dispera a casa propria – mica a teatro – da soli e non con della gente che ci guarda, ha inchiodato tutti gli spettatori al palco.

Dada Masilo, coreografa e interprete sudafricana, con Swan Lake, in programma al teatro Argentina di Roma fino al 10 novembre, ci ricorda un assunto universale, mai scontato: l’arte, la musica, la danza non hanno età, sesso o razza, ma sono patrimonio dell’umanità. Lo spettacolo è un’ora di contaminazioni culturali, musicali, coreutiche, artistiche, etniche, sessuali che ti fa dimenticare la nazione di appartenenza, il colore della pelle e ti fa sentire abitante del pianeta con la sua danza dionisiaca, gioiosa e seduttiva, che ricorda “La danse” di Henri Matisse del 1910.

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Ma lo spettacolo è dirompente soprattutto per i suoi contenuti. Partendo dai temi di fondo del Lago dei cigni, quali l’amore e l’iniziazione sessuale, Dada Masilo non sdogana solo il tutù ma anche, con delicata sensibilità ed ironia, il tema dell’omosessualità e omofobia: il principe Siegfried non sposerà la prescelta dalla famiglia perché è innamorato di un uomo, il Cigno Nero. Il finale rimane drammatico: è impossibile dimenticare che in Sudafrica l’AIDS è ancora una emergenza.
Il melange di una coreografa, che padroneggia linguaggi contemporanei e internazionali, ha superato il rischioso confronto con uno dei capolavori della danza classica.

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Un altro messaggio di uguaglianza scorre nella scelta dei costumi identici per i 14 danzatori a piedi nudi della Dance Factory di Johannesburg: un tutù bianco per uomini e donne o, come nel finale, veli neri fino alle caviglie e busti nudi. La danza classica, dei bianchi occidentali, è spiegata e illustrata in scena con ironia: i fianchi bloccati, i movimenti ondulatori come le alghe di un lago, quelli controllati con i muscoli in tensione etc. I corpi flessuosi dei danzatori, belli nella loro diversità, vibrano animati dal profondo e ancestrale bisogno di danzare. Dalle posizioni canoniche della danza classica all’improvviso emerge la potenza energica della danza afro, quella tradizionale Zulu sudafricana, e i fianchi e le anche ondeggiano in modo ritmico.
Lo stesso balletto romantico di Tchaikovsky presenta questi contrasti, contrapponendo le danze di corte a quelle dei contadini, e Dada Masilo riesce ad attualizzarne i contenuti con una riuscita operazione di integrazione culturale, coreografica e musicale.
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innamorati“L’arte attoriale è una malattia mentale che solo il palcoscenico può guarire”. E’ scritto sulla bacheca facebook dei Commediomani, la compagnia con età media 21 anni che ha portato in scena al Teatro Ghione di Roma gli Innamorati di Carlo Goldoni, per la regia di Pino Quartullo.
Il teatro è stato fondato e diretto fino al 2005 dall’attrice italiana Ileana Ghione ed oggi, divenuto s.r.l., è diretto da Roberta Blasi e alterna una stagione classica a progetti innovativi con una forte attenzione al sociale.

Quando entriamo è affollato,il pubblico è assolutamente eterogeneo, dagli affezionati del Teatro di una certa età a molti giovani,essendo estremamente giovane la compagnia in scena.
E’ accogliente, con le rifiniture di vernice nera e le poltrone di classico velluto rosso e la piccola cavea creata ad hoc per l’orchestra rende vivace la sala.
L’orchestra è tutta al femminile, si chiamano Le Arzigogole: 9 donne agli archi, al pianoforte e alla chitarra.
Quello che colpisce di questa messa in scena è l’accuratezza sia in scelte come quella della musica dal vivo, sia nei costumi, ottenuti grazie ad un accordo con il Teatro dell’Opera di Roma, di rara raffinatezza grazie a sete rosate e tulli neri, sia nella recitazione dei giovani attori.
Nulla lasciato al caso, impreciso.

La Commedia, che si propone di mischiare in comico soggetto “la passione e il riso dolcemente ”, è stata scritta da Goldoni in seguito ad un soggiorno romano, sulla via del ritorno a Venezia. L’ambientazione è quella di una casa borghese, tenuta dal decaduto Zio Fabrizio che si ritrova a dover badare e a dover far maritare senza dote le due nipoti Flaminia ed Eugenia.

Pino Quartullo dipinge le contraddizioni dell’amore, il tendere verso qualcosa di grande, di assoluto della giovane Eugenia e allo stesso tempo le sue paure, il suo non filtrare la gelosia, il timore di non essere abbastanza, l’estremo bisogno di conferme attraverso la scelta di ripartire il suo ruolo e quello dell’amato Fulgenzio, tra tre attori che agiscono all’unisono ma seguendo vettori diversi. C’è Eugenia che si alza, aggressiva, capricciosa e furiosa con Fulgenzio che ha in scena un’altra sé che invece resta sulla sedia, quasi impaurita. E’sempre solo uno, ma non lo stesso da scena a scena, che parla, che agisce e gli altri si muovono sul palco ad amplificare o a contrastare le azioni di chi parla, a tratti come specchi fedeli, a tratti come riflessi delle contraddizioni interiori.
I personaggi secondari, come lo Zio Fabrizio, che parla in grande e oramai è ridotto in povertà, veste come uno straccione e vende fino all’ultima posata per poter comprare il cibo per cucinare un pranzo da signori, o come i servitori, sono molto caricati, macchiette che non lasciano scampo alla risata del pubblico.

La musica dell’orchestra non è mai invadente e sempre di supporto, di conservazione della dimensione poetica dell’opera.
L’energia in scena non cala mai, cresce proprio con i personaggi secondari, come la serva di Eugenia, Lisetta, che spia i signori dalla cucina insieme al servitore di Fulgenzio: lei seleziona sempre con immancabile acume cosa sia opportuno e non opportuno dire alla propria padrona; lui è guidato da ingenuità, da riverenza incondizionata verso il suo buon padrone.

Apprezzabile e degno di nota anche il lavoro sugli accenti, con Lisetta che parla siciliano e il servitore di Fabrizio con marcato accento nordico, tutti elementi che aiutano a riconoscere i personaggi, a riportarli velocemente al nostro tempo.
Non manca anche l’esplicito raccordo iniziale e finale con i giorni nostri, attraverso un ritorno degli attori nel “personaggio” della compagnia teatrale. I personaggi-reali sono in ansia nell’affrontare La commedia e nel dover fare i conti con la precarietà economica e quella delle relazioni, le stesse fragilità di Eugenia e Fulgenzio, quelle universali dell’amore.

Che anche questa malattia mentale dell’amore si possa curare con il palcoscenico?

Calano le quinte e il pubblico appare carico, pare aver assorbito e ora voler restituire l’energia di questi giovani attori, che hanno davanti una strada certo non semplice, ma che trasmettono la loro carica e determinazione verso il loro sogno artistico, superando a pieni voti la prova Goldoni.

 

verdi200Oggi si celebra un compleanno speciale, di quelli che riescono a farci tornare orgogliosi di essere italiani: era il 10 ottobre del 1813 quando a Roncole di Busseto nasceva Giuseppe Fortunino Francesco Verdi, uno dei più grandi compositori del nostro Paese.
Sono trascorsi 200 anni da quella data, e ancora la celebre musica di questo genio delle sette note riesce ad emozionare platee internazionali e intergenerazionali.

La figura di Giuseppe Verdi è inoltre un esempio di talento e di vita che dovremmo sempre tenere a mente.
La sua famiglia di umili origini, il padre oste e la madre filatrice, non gli ha impedito di seguire la propria vocazione, e il giovane, supportato anche dal mecenatismo di Antonio Barezzi, poté dunque ben presto dimostrare il suo talento.
Dopo i primi “anni di galera”, come lui li definiva, in cui lavorava a ritmi incalzanti su commissione per i maggiori teatri europei, seguì il periodo felice con la soprano Giuseppina Strepponi, durante il quale compose la trilogia popolare de “Il Rigoletto”, “Il Trovatore” e “La Traviata”.

Giuseppe Verdi non ebbe tuttavia un ruolo meramente culturale nell’Italia dell’Ottocento, ma ricoprì anche funzioni pubbliche di rilievo: era il periodo risorgimentale, in cui Cavour lo coinvolse nelle questioni politiche del Paese. Fu deputato nel primo Parlamento italiano e nel 1874 divenne poi senatore. Sono questi gli anni de “La Forza del Destino”, del “Don Carlos” e dell’“Aida”. Non lesinò anche attività di beneficenza con l’inaugurazione di un ospedale a Villanova e l’edificazione di una Casa di riposo per musicisti.

Era il 27 gennaio del 1901 quando a Milano, all’età di 87 anni, questo grande artista si spense.

La sua patria ha voluto rendere omaggio al Maestro, con celebrazioni in suo onore.

La Regione Emilia-Romagna ha ideato il Cartellone Verdi200 digitale dove è possibile assistere  in streaming a 12 spettacoli verdiani, realizzati nel corso di tutto il 2013 nei teatri della regione appartenenti alla rete TeatroNet.
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La città di Milano, da oggi 10 ottobre, giorno della nascita di Verdi, al 27 gennaio, data della morte, ha organizzato oltre ottanta eventi. Il Teatro alla Scala ha previsto per questa giornata l’ingresso gratuito con una serata dedicata alla lettura delle lettere di Verdi.
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Il Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli omaggia questo immenso artista con una Notte Bianca, durante la quale, dalle ore 23,00 verranno eseguite tra le più belle pagine del repertorio verdiano, in attesa della diretta streaming del concerto omaggio di Riccardo Muti dal Symphony Center di Chicago, dove dirigerà la Messa da Requiem.

Ma in tutta Italia sono state organizzate delle Notte Verdi durante le quali far risuonare le sue note: “Verdi. L’invenzione del Vero” è un rullo videostorico consegnato a tutti i Comuni e le comunità italiane per colmare di immagini e musiche le piazze e qualsiasi luogo pubblico e d’incontro in omaggio al compositore.

 

 

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La penisola sembra dunque ritrovare oggi quell’unità e spirito patriottico, che ispirò lo stesso Giuseppe Verdi, per festeggiare colui che Mila definì “come il padre” dell’Italia.

emanuelgatEmanuel Gat ha inaugurato con The Goldlandbergs, ispirato al mondo sonoro di Glenn Gould, la sezione ‘danza’ del Roma Europa Festival.

Il coreografo israeliano ha disegnato il delicato intreccio delle relazioni umane inserendole nel mondo sonoro del grande perfezionista del pianoforte, Glenn Gould, e del suo documentario sonoro, The quiet in the land, del 1977, in cui viene ritratto un gruppo religioso mennonita che vive isolato sulle sponde del Fiume Rosso, a Manitoba nel nord del Canada, e che tenta di confrontarsi con le inevitabili pressioni a cui il mondo contemporaneo lo sottopone.
Alcuni estratti di questo lavoro, brani musicali, voci, Janis Joplin, una cerimonia religiosa, si intersecano agli estratti delle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, eseguite dallo stesso Gould, costituendo il tal modo un tappeto sonoro, polifonico e contrappuntistico, dei movimenti e degli intrecci dei ballerini. Non una danza univoca, ma diversi punti di fuga, un moltiplicarsi di suoni e di direzioni come la molteplicità delle vita e dei rapporti umani. Ciò che vuole raffigurare Gat è l’intimità che lega persone diverse e le relazioni diverse tra di loro.

Gat lavora da 4-5 anni con gli stessi danzatori, fatto che si riflette nel loro affiatamento e che costituisce una scelta ben precisa “basata su incontri personali. Loro trovano interessante il mio lavoro e io trovo interessante il modo in cui lavorano. Un periodo lungo di lavoro insieme ci consente di fare un lungo percorso e quindi di osare ancora di più”.

La danza di Gat è spirituale e minimalista, nella sua capacità di sintesi, fluidità, armonia dei gesti, frutto del ripetersi quasi all’infinito di movimenti collaudati, azzeramento di ogni scenografia, assenza dei costumi, se non l’indispensabile, sensibile agli stati d’animo, al mutare dell’ambiente, delle sue luci e ombre, a volte i movimenti si librano nel silenzio, senza musica.

Imperdibile, all’interno del ciclo Appena Fatto!, in collaborazione con Rai Radio3, l’incontro dell’artista, in questo caso Emanuel Gat, con il pubblico del Romaeuropa Festival, al termine dello spettacolo. Un’occasione per comprendere la genesi di un lavoro e le pulsioni artistiche che lo hanno mosso.

Durante l’intervista Gat ha raccontato come: “Dopo aver creato una coreografia su sole voci e senza pianoforte su The quiet in the land mi sono accorto che quel documentario e le Variazioni Goldberg avevano la stessa durata: 52 minuti. Allora, per provocare un po’ i miei danzatori, ho chiesto loro di creare una nuova coreografia sulle Variazioni Goldberg. Abbiamo quindi sovrapposto le due pieces e il risultato è The Goldlandbergs, titolo che comprende la musica e le parole”. Non sempre, infatti, nello spettacolo la continuità è garantita, ma probabilmente anche questo rientra nelle intenzioni di Gat. Il coreografo tende a: “una sonorità che diventa visiva e una coreografia che diventa sonora. Cerco di sviluppare un working in progress, la coreografia di stasera sicuramente sarà diversa dalle prossime volte”.

A proposito dei suoi studi musicali Gat precisa: “Il mio lavoro ricorda quello musicale ma la coreografia ricorda la natura musicale. Musica e movimento in uno spazio e tempo preciso. La coreografia è fatta come una partitura musicale, secondo un meccanismo che mette i danzatori in relazione come in una partitura”.
Attraverso le sue dichiarazioni si comprende il perché in alcuni momenti dello spettacolo i ballerini danzano nelle zone d’ombra del palcoscenico: “Ho creato strutture indipendenti: luci, sonoro e danza. Nessuna traduce o illustra l’altra. Nessuna asserve ad un’altra forma artistica. Le tre strutture fluttuano liberamente. Abbiamo lavorato in uno studio con grandi finestre e luci pessime, con effetti di luce particolari, in evoluzione e continuo cambiamento (come le nuvole etc.). Quindi ho deciso di presentare questo lavoro in questo modo”.
Riguardo le sue modalità di lavoro Gat racconta: “Di solito non dico cosa fare, propongo ambienti, pensieri e guardo come i danzatori reagiscono all’ambiente e ai pensieri che ho proposto, da questo nasce la coreografia. Mi piace la possibilità di riproporre il processo creativo ma non il risultato finale. Quindi ballerini diversi daranno risultati diversi.”

Al coreografo israeliano piace tornare negli stessi luoghi per presentare i suoi spettacoli: “Mi sento a disagio a proporre al pubblico un solo spettacolo, voglio proporre il processo del mio lavoro. E’ la quarta volta che torno al Roma Europa Festival, così il pubblico avrà un’idea più variegata e più completa del mio lavoro”.
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La V° edizione del Festival del Flamenco all’Auditorium Parco della Musica di Roma è stata inaugurata dall’anteprima di FLA-CO-MEN di Israel Galván.

Galván, figlio d’arte – madre, della famiglia de Los Reyes, ‘bailaora’ (ballerina di flamenco) e  padre ‘bailaor payo’ (ballerino non gitano) – ha reinterpretato la danza flamenca, grazie alla sua creatività, stimolata dai rapporti fecondi con artisti e coreografi internazionali, e alle contaminazioni con i vari stili di danza contemporanea. L’artista sivigliano rappresenta la perfetta fusione tra la precisione tecnica payo e la dirompente energia emozionale gitana, come da lui stesso dichiarato, essere entrambe le cose gli ha dato maggiore fiducia in se stesso.

galvan
Senza mai abbandonarne le radici, ha rivitalizzato la tradizione flamenca (influenzata dalla cultura araba, ebrea e cristiana) inserendola nel panorama coreografico contemporaneo e internazionale, per questo ha conseguito diversi premi sia in Francia che in Spagna.
Fla-co-men è forse, tra i titoli degli spettacoli del coreografo sivigliano, quello che meglio esprime il suo stile: la parola ‘flamenco’ è frammentata nelle sue sillabe e ricomposta in un diverso ordine, fla-co-men.

Potremmo definire lo stile del flamenco di Galván ‘cubista’, squaderna il ‘baile’ (flamenco tradizionale), lascia che sia contagiato da altri stili musicali e coreutici, poi lo ricompone dandogli una diversa fisionomia. Il maestro ‘cantaor’ (cantante) Enrique Morente diceva che nel flamenco si doveva tradurre la tradizione ed essere coscienti del ‘tradimento’ che è sempre implicito in tale operazione. Il ‘montaggio’ coreografico (scomposizione-contaminazione-ricomposizione) è la cifra stilistica e la chiave interpretativa della danza di Israel Galván. Allo stesso tempo quest’ultimo riconduce spesso il flamenco, riconosciuto patrimonio culturale immateriale dell’Umanità dall’UNESCO nel 2010, alla sua purezza originaria, quando era ballo individuale e non era accompagnato da strumenti musicali ma soltanto dai ‘toque de palmas’ (il ritmo del battito delle mani).
In Fla-co-men il corpo statuario di Galván è apparso in controluce sul palco come una star del rock. La musica  durante lo spettacolo è stata spesso sottrazione, riduzione a suono e ritmo, accompagnando la libertà espressiva ed emozionale di Israel, oppure densa di riferimenti come alla tarantella, ai tangos, al jazz o a sonorità orientali. La gamma espressiva-emozionale è andata dalla tristezza e malinconia della soleá e seguiriya, alla gioiosità dell’alegría, Già nel primo brano è stato subito riconoscibile il suo stile, il ritmo è nel suo respiro, nel battito delle mani, nel suo corpo usato come uno strumento di percussione. Il suono del sax è diventato un lamento. I suoi movimenti delle braccia spesso evocano movenze del mondo animale, sono puri, precisi, velocissimi. Il basso elettrico ha scandito il ritmo come un pendolo e le braccia di Galván hanno disegnato nell’aria geometriche oscillazioni. Ad un tratto il palcoscenico si è trasformato in arena e il ballerino in un torero.
Il corpo di Galván riesce a vibrare insieme a una campana tibetana. La sua danza sprizza energia, emozioni perfettamente controllate, come le sue impeccabili piroette. Ad un tratto si pone davanti ad un microfono ma è il suo corpo a cantare e non la sua voce, così come davanti ad un leggio è il suo corpo ad eseguire la partitura.
La sua danza ha ipnotizzato il pubblico, che sembra aver assistito in apnea e che generosamente si è prodigato in applausi senza riuscire però ad ottenere un bis dal ballerino ormai a piedi nudi.
Bella la voce del cantaor Tomás de Perrate e l’esecuzione di Antonio Moreno alle percussioni.

Il Festival proseguirà il 10 ottobre con l’anteprima mondiale di Homenaje flamenco a Verdi, interpreti: lo straordinario cantaor Arcángel, la bailaora Patricia Guerrero, con accompagnamento di chitarra, contrabbasso e percussioni; l’11 ottobre sarà la volta della cantante andalusa Carmen Linares insieme al trio formato da Jorge Pardo al sax, Carles Benavent al basso e Tino Di Gerlado alla batteria.
Il concerto prevede l’esecuzione di brani classici e originali su testi dei famosi poeti: Federico Garcia Lorca, Horacio Ferrer e Miguel Hernández; il 12 ottobre, Mercedez Ruiz presenterà: Baile de palabra, confluenza di tradizione e innovazioni, in cui la ballerina andalusa sperimenta nuove coreografie e il 13 ottobre Eva Yerbabuena presenterà: Ay!
Ad arricchire il programma le 32 immagini dei fotografi Pablo Jiménez e Mikel Alonso che illustreranno la festa religiosa che si tiene ogni anno a maggio: El Rocío, piccolo villaggio andaluso di Almonte (Huelva), dove si trova l’immagine della Virgen del Rocío. Oltre cento confraternite dell’Andalusia con i loro vestiti tradizionali, a maggio, si mettono in cammino, con buoi, muli, carri e ogni mezzo per raggiungere La Blanca Paloma, una delle denominazioni della Madonna del Rocío.

TITOLO

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COSEC’erano una volta un romano, uno svedese, un californiano e un italo-egiziano accomunati dalla voglia di suonare della buona musica e che, tra un drink ed un panino, hanno deciso di dare vita ad una band tutta particolare dal nome ancora più strano di quello che possiate immaginare: “Inbred Knucklehead” (se vuoi sapere cosa significa ti consigliamo di vedere questa video-intervista). Ecco, questo è il loro ultimo cd, un concentrato di energia, di sound e di generi mixati magistralmente che partono dallo ska e arrivano al punk, passando per il rock facendo sosta per il funk, abbordando del metal che strizza l’occhio all’hardcore. Per poi ripartire di nuovo.

 

COMEE’ energia pura. E’ il vostro sabato in un locale ascoltando un live dalle sonorità gipsy, è la vostra cura per il rientro in ufficio di lunedì, il vostro martedì in palestra zompettando con le ginocchia fino alla pancia per smaltire i cocktail che vi siete tracannati durante il weekend, e il vostro scorazzare in macchina nel traffico alzando il volume fino al massimo per l’invidia del vicino al semaforo che non si capacita di come voi possiate divertirvi così tanto in tangenziale.

 

proBrani come Rember When, Revoluciòn (se riuscite a seguire i continui passaggi di lingua dall’inglese allo spagnolo), Hit the Power e Viking Thing vi entreranno in testa al primo ascolto e godono di facili apprezzamenti. Ma è negli altri brani, quelli dalle sonorità più mixate e dai generi più alternativi che scorgerete la vera anima di questo gruppo che dimostra la sua bravura nell’essere costante ad essere sempre diverso.

 

CONTROGli Inbred sono gli Inbred non solo per la loro musica ma anche per i loro live, dove danno veramente il meglio di loro stessi coinvolgendo il pubblico in performance di ballo estreme. Quindi, inevitabilmente, il loro Family album lascia fuori tutto ciò prestandosi semplicemente a sessioni di ballo solitarie davanti allo specchio.

 

SEGNI PARTICOLARISe siete mai stati su una tavola da surf capirete cosa si prova ad ascoltare questo album in cui la voce profonda e graffiante di Mike (vocals e basso) si insinua tra le vibrazioni sonore per poi risalire e fare in modo che sia Marco (vocals) a cavalcare l’onda del ritmo dettato da Dario (batteria) e Kristian (chitarra). Sinuosi sull’acqua, padroneggiano il vento anche quando soffia forte. Non avete mai preso in mano una tavola da surf? Pensate allora alla sensazione che si prova quando sta per partire il tagadà. Poi contate fino a 5 e premete Play sul vostro lettore.

 

CONSIGLIATO A Chi non si fossilizza su un genere musicale ma spazia e sperimenta, a chi ha bisogno di una sferzata di energia e a chi apre le porte a prospettive di musica sempre nuove ( ma selezionate). Per dirla meglio: “Get off my balls you fuckin’ coatto, get off my balls now” (cit.)

 

INFO UTILISe volete conoscere meglio Marco, Dario, Mike e Kristian non vi resta che andare sul loro sito ufficiale o sulla loro pagina Facebook. Se invece siete a Roma, praticamente fate prima a fare un pub crawl. Siamo certi che li incontrerete.

robot06-homeE’ l’evento imperdibile per gli amanti della musica elettronica e delle arti visive, ma anche per chi ha voglia di novità e sperimentazioni: il roBOt Festival è stato inaugurato dal concerto The Kilowatt Hour del 24 settembre e ora è grande l’attesa per gli appuntamenti che si svolgeranno dal 2 al 5 ottobre a Bologna. Ne abbiamo parlato con gli organizzatori.

 

Perché roBOt Festival sceglie quest’anno di indagare il tema della “vertigine digitale”? In che modo si propone di farlo?
L’accumulo e la conservazione del sapere è un macro tema diffuso e sviscerato dalle più grandi manifestazioni culturali europee degli ultimi anni. Il rapporto con archivi e database, l’attendibilità delle fonti e l’etica della privacy sono argomenti presenti nella nostra quotidianità. roBOt ha scelto di approcciare l’argomento partendo dagli effetti/conseguenze individuali per ipotizzare reazioni, soluzioni e nuovi scenari di convivenza/sopravvivenza socio-culturale. La sovraesposizione ai flussi di informazioni causa asfissia e smarrimento, provocando quella che Lovink definisce, mutuando Freud, la “Psicopatologia del sovraccarico di informazioni”.
I partecipanti a questa sesta edizione di roBOt descriveranno la #digitalvertigo: forme capaci di incarnare gli istinti primordiali, intimi e grotteschi, le paure e i sentimenti contrastanti di uno Spleen post moderno, generato dalla perdita di limitazioni e punti di riferimento. Le interpretazioni raccolte rappresentano soluzioni stilistiche eclettiche, che indurranno nello spettatore le sensazioni più incontrollate, recondite, irrazionali e allucinatorie. Fra i risultati formali sono emersi distorsioni ottiche e percettive allucinatorie, giochi di riflessi e di luci, ribaltamenti prospettici; allusioni a mondi alternativi, paralleli, esoterici, all’aldilà e alle dimensioni magiche, mitiche, religiose; fino a giungere, visivamente, alla raffigurazione del Cosmo.

 

Quali gli eventi salienti di questa edizione? Ci sono novità importanti da segnalare?
Anche quest’anno il Festival porterà in 5 luoghi diversi della città, fra teatri club e palazzi storici, il meglio dell’elettronica internazionale: fra gli altri, si esibiranno Tim Hecker, Lorenzo Senni, Thundercat (prima e unica tappa italiana), Seth Troxler, Ben Klock, Pantha Du Prince, Jon Hopkins e dj Koze. Due invece saranno le novità importanti della sesta edizione: il Music Hack Day, un evento che nell’arco di 24 ore, fra il 5 e il 6 ottobre, riunirà a Palazzo D’Accursio programmatori, designer e artisti per dare sfogo alla loro creatività e dare vita al futuro della musica elettronica e il roBOt kids, nato dalla partnership con il Dipartimento Educativo MAMbo, un laboratorio audiovideo dedicato ai bambini.

 

L’evento è giunto ormai alla sesta edizione e si conferma uno degli appuntamenti di punta per Bologna. In che modo la città partecipa al festival? Sono state avviate particolari sinergie?
C’è stato un supporto totale da parte dell’Amministrazione Comunale bolognese, in particolare abbiamo lavorato a stretto contatto con il Settore Cultura e il Settore Marketing Urbano e Turismo. Grazie al sostegno di Provincia e Regione abbiamo realizzato la rassegna estiva “roBOt_ini in provincia” che ci ha permesso di portare delle pillole del festival nei comuni di Castel Maggiore, Bentivoglio e Budrio.
Confermata anche la collaborazione con l’Alma Mater Studiorum: riduzioni studenti sugli abbonamenti al festival e supporto sull’organizzazione dei workshop che riguardano lo sviluppo delle tematiche trattate quest’anno.
Il Teatro Comunale di Bologna rappresenta la location preziosa deputata all’opening mentre il dipartimento educativo del MAMbo, Museo di Arte Moderna di Bologna ospiterà la giornata di chiusura, per la prima volta dedicata ai bambini.
Il festival attraversa club e associazioni culturali particolarmente attivi in città: Arterìa, TPO, Link ed Elastico Studio, accolgono installazioni, live e dj-set.

 

Il concerto di apertura di roBOt06 ha coinciso con l’ultima tappa del tour di The Kilowatt Hour, in una location particolare.
Il progetto The Kilowatt Hour nasce dall’incontro delle sinergie di tre grandi della sperimentazione musicale, David Sylvian, ex membro del pop rivoluzionario dei Japan, Christian Fennesz e Stephan Mathieu, due mostri sacri dell’elettronica. La piece è pensata come un’interazione fra tre diversi stili, è un lavoro in work in progress che prende forme diverse a seconda del luogo in cui si svolge. A Bologna The Kilowatt Hour si è svolto presso il Teatro Comunale, risalente al 1700, un luogo straordinario che ha offerto agli artisti un particolare spunto per la loro performance.

 

In questi anni di roBOt Festival, come è cambiata l’offerta musicale elettronica? In che direzione si sta andando in particolare nel nostro Paese?
Il format di roBOt è cambiato molto negli anni: l’evento nasce come momento dedicato alla dance da club ma negli anni la musica elettronica in Italia ha conosciuto la diffusione in diverse sfumature ulteriori rispetto a quella ballabile, come quella dell’ascolto e della ricerca. Il roBOt Festival inoltre si pone l’obbiettivo di valorizzare la produzione elettronica nazionale che al giorno d’oggi non ha nulla da invidiare in quanto ad attualità e grado di sperimentazione alle famose “scuole” tedesche e inglesi.

 

Quali sono i numeri di roBOt06?
roBOt è un festival che coinvolge 140 artisti di cui il 30% internazionali, patrocinato da 6 istituzioni fra cui il Comune e Provincia di Bologna, Regione Emilia Romagna, Fondazione del Monte e Università di Bologna. I cinque giorni di Festival non sono animati solo dalla musica, ma anche da workshop, installazioni video, documentari e performance di danza e teatro. La scorsa edizione roBOt ha contato circa 14.000 presenze, 150 persone coinvolte nell’organizzazione e 40 volontari.

 

Cosa c’è nel prossimo futuro del roBOt Festival?
Ci interessa seguire l’evoluzione delle tecnologie laddove digitale, arte e musica si incontrano, obiettivo che si rinforza di anno in anno.
E’ nostra cura continuare a fare ricerca in questo settore portando in Italia artisti interessanti con proposte capaci di mantenere alto il livello di attenzione  del pubblico. Nel prossimo futuro, roBOt intende coltivare i progetti roBOt_ini in provincia, roBOt kids e il Music Hack Day, novità significative del 2013, tutti ideati nell’ottica di lavorare in rete per creare un network di intelligenze, spunti e stimoli creativi.

 

 

valle1Il copione che ha rappresentato le vicende del Teatro Valle a Roma in questi ultimi due anni aveva tutte le caratteristiche per risultare banale, noioso e ripetitivo. E invece ha riservato una bella sorpresa.

Poteva essere solo il tristemente consueto racconto di un’amministrazione pubblica che non sa come comportarsi nel gestire uno dei teatri storici più belli, più antichi e importanti d’Italia. Poteva essere la storia di una protesta che, come in tanti altri luoghi della capitale e nel resto del paese, veniva abbandonata al proprio destino a far da testimonianza in una città distratta. Poteva essere “solo” l’ennesimo danno delle scelte politiche di un certo centro-destra che, nel nostro paese, vede la cultura esclusivamente come un costo (da tagliare) e mai come un investimento da programmare.

E invece non è andata così. Almeno non del tutto. Effettivamente la giunta Alemanno ha fatto di tutto per non affrontare seriamente la questione. Ma non gliene si può fare un torto. Per loro si trattava di ordine pubblico e non di politiche culturali. Nel frattempo però dall’Europa e dal mondo si sono moltiplicati gli attestati di solidarietà con gli occupanti. Grandi attori e grandi compagnie italiane e straniere hanno tenuto spettacoli e stage nel teatro che ha ospitato anche convegni, feste, proiezioni e seminari. Migliaia di euro ogni mese sono stati sottoscritti dai cittadini per sostenere questo sforzo. Centinaia di migliaia le persone che hanno partecipato agli eventi e assistito agli spettacoli. Migliaia gli attori coinvolti in una programmazione, spesso improvvisata, ma che ha segnato significativi e frequenti momenti di valore sia dal punto di vista delle novità che della qualità artistica. Ed è stato questo che ha risvegliato i cittadini dall’indifferenza. Non solo protesta ma soprattutto proposta. Non solo cultura “alta”, che a molti incute ancora qualche (sacrosanto) timore reverenziale, ma anche cultura popolare.

Naturalmente il teatro Valle è stato anche in parte il refugium peccattorum di chi, non riuscendo a prendere atto dei propri limiti, se la prendeva con i limiti degli altri. Ma questo è il (piccolo) prezzo da pagare quando si decide di aprirsi all’esterno non dovendo e non volendo selezionare. Insomma, l’occupazione del Teatro Valle è stato il periodo sabbatico dello spettacolo dal vivo: si sono rimescolate le carte e dalla protesta si è tentato di indicare una via d’uscita, in forma libera e autonoma. Tutto questo a due passi dal Pantheon e da piazza Navona, in un centro storico sempre più “gentrificato”, devoluto al turismo di massa nonostante sia di facile accesso anche per i cittadini romani.

Non era affatto scontato che succedesse: il teatro Valle rappresenta un’esperienza unica e preziosa che non può andare dispersa. Per questo va salutata positivamente la nascita della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Una “nuova istituzione culturale”, come l’hanno definita i promotori, che è riuscita a garantirsi l’adesione di circa 5,000 soci e l’acquisizione di opere d’arte donate dagli artisti per raggiungere la quota di capitale sociale. Finalmente quell’esperienza esce dal cono d’ombra in cui non si poteva distinguere nettamente tra legalità delle norme e atti di forza, per quanto giusti e forse addirittura doverosi. Finalmente possono rasserenarsi gli sguardi corrucciati di chi vedeva il Valle riscuotere successo mentre loro stessi versavano in mille difficoltà per organizzare spettacoli dal vivo dovendosi sobbarcare utenze, costi di gestione, pagamento dei tributi, ecc.

E’ terminata una fase, il primo atto si è compiuto. I protagonisti ora sono inseriti in un nuovo contesto, quella della Giunta Marino, che si è dichiarata disposta al confronto e alla collaborazione, specialmente negli impegni presi formalmente dall’assessore Barca. Sarà efficace la formula della fondazione che molti ritengono essere troppo onerosa? Riusciranno i protagonisti a rendere il Teatro uno spazio veramente aperto, partecipato, attento alla formazione e alle produzioni contemporanee? Oppure si adageranno in una condizione consolatoria e autoreferenziale per l’utile effimero di pochi lontano dal Bene Comune che ha costituito l’obiettivo di una protesta e, per due anni, la pratica della proposta?

Ora non è dato sapere. Certamente le possibilità innovative e le prospettive virtuose non mancano, anche se i dubbi che ancora accompagnano questa esperienza non sono stati del tutto diradati.

Lasciamo fiduciosi che il sipario si alzi di nuovo per il secondo atto.

 

 

Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione

djLa rivista Forbes ha pubblicato la lista dei DJ che hanno guadagnato di più nel corso dell’ultimo anno, stilata non solo sulla base delle vendite di produzioni e remix, ma soprattutto dei guadagni derivanti dalle performances live nei più prestigiosi clubs del mondo.
È il secondo anno consecutivo che la prestigiosa rivista di economia e finanza, conosciuta a livello internazionale, decide di pubblicare una classifica per certi versi bizzarra, che prende in considerazione non gli uomini più potenti della terra o quelli dal patrimonio personale più grasso, bensì dei musicisti che sono impegnati ogni giorno in una missione solo all’apparenza facile: intrattenere milioni di giovani in tutto il mondo. Professionisti che non troverete mai in tv e solo raramente sui giornali, perché la loro forza è nel contatto con i giovani e gli appassionati del settore, soprattutto attraverso il web e i new media.

I guadagni sono cospicui, soprattutto per chi, in questi ultimi anni, è riuscito a costruirsi un nome di tutto rispetto: chiedetelo a Calvin Harris, che grazie a collaborazioni di alto livello (Rihanna, giusto per fare un nome), remix e performance coinvolgenti, è riuscito a guadagnare in un anno la bellezza di 42 milioni di dollari. Del resto, la classifica di Forbes è uno specchio dei tempi: inutile discutere e riflettere su quanto sia giusto che un DJ guadagni queste cifre. La questione è un’altra e copre diversi aspetti, dall’economia alla cultura.

In qualche modo, non deve neanche sorprendere che la rivista americana abbia scelto di compilare questa classifica: la EDM (sigla che indica l’insieme di generi relativi alla Electronic Dance Music) non è più un mondo underground e di nicchia come accadeva solo dieci o quindici anni fa. E’ facile, oggi, trovare dei DJ nelle classifiche degli album o dei singoli più venduti, soprattutto negli stores digitali. Basti pensare all’escalation dello svedese Avicii, che dopo il grande successo di Levels, ha catturato nuovamente il favore del pubblico con il recente Wake Me Up, brano campione di vendite.

Si tratta di un boom che ha conquistato l’Europa intera nel giro di poco meno di un decennio e che ora va alla conquista di un mercato particolarmente difficile, quello americano. Nessuno può prevedere se questa operazione di conquista culturale da parte dell’Europa avrà successo, ma alcuni piccoli segnali lasciano intendere che il futuro della EDM in America sarà alquanto roseo, come dimostra l’attenzione del pubblico verso questi generi (Trance ed Electro House in testa) e i loro produttori più famosi, e anche l’exploit di alcune località, come Las Vegas, che stanno diventando sempre di più un punto di riferimento importante per i Clubbers (gli amanti della musica da discoteca e dei generi Dance Elettronici) di tutto il mondo, contendendo il prestigioso scettro a luoghi leggendari come Ibiza.

Ma la questione è molto più ampia e, come anticipato, interessa il mondo della cultura sotto diversi punti di vista: se la EDM sta conquistando sempre più spazio nel pubblico, soprattutto grazie alla vitalità e freschezza che la caratterizza. Gli appassionati chiedono sempre qualcosa di nuovo e i big li accontentano, non solo proponendo singoli e album originali con una certa velocità, ma soprattutto lanciando nuove stelle emergenti e futuri prodigi della Dance Elettronica. Ecco allora che quei milioni di dollari conquistati in un anno iniziano ad assumere una luce diversa: se da un lato una buona parte di questi soldi vengono spesi in ville, staff, divertimenti personali e jet privati (necessari per viaggiare da una parte all’altra del mondo ed essere presenti nelle più prestigiose discoteche del pianeta, soprattutto in estate), dall’altro è anche vero che un buon livello di queste entrate viene investito nella ricerca e promozione di giovani talenti. Non stiamo parlando più di semplici DJ, ma di veri e propri investitori culturali.

Prendiamo il caso dell’olandese Armin van Buuren (ottavo nella classifica Forbes con “appena” 17 milioni di dollari): un nome che in Italia, purtroppo, non è ancora conosciuto come dovrebbe (anche se l’ultimo singolo, This Is What It Feels Like è andato benissimo anche da noi!), ma che all’estero viaggia su livelli altissimi, tanto da posizionarsi al primo posto della classifica dei DJ più conosciuti e amati al mondo per ben 4 volte negli ultimi 5 anni. Un record imbattibile! Ebbene, Armin è co-fondatore e mentore dell’etichetta discografica Armada Music, una delle label EDM più famose e prestigiose, che oltre ad avere sotto contratto alcuni grandi nomi del settore (Paul Oakenfold, Chicane, ATB, Dash Berlin e altri), riunisce tante piccole labels indipendenti, spesso create, a loro volta, dai produttori più “anziani” e dalla forte esperienza. Lo stesso Armin ha da poco lanciato una nuova label, la “Who’s Afraid of 138?!” (due sole uscite all’attivo al momento), che riprende il titolo di uno dei brani del suo ultimo album “Intense” ed è impostata maggiormente sullo stile Uplifting che tanti proseliti ha in Europa, soprattutto nelle regioni settentrionali.

I giovani produttori “sfornati” da queste labels sono tanti e spinti non solo da una forte passione per la EDM, ma anche da una carica creativa unica nel suo genere, in grado di rinnovare costantemente questo settore. Dall’altro lato, i DJ più maturi non hanno paura di investire sulle nuove risorse. E non hanno neanche paura che uno di loro, un giorno, possa prendere il loro posto. Anzi, ne sono quasi felici, perché significa assicurare una linea di continuità a un mondo, quello EDM appunto, che nel corso dei prossimi mesi e anni continuerà a crescere in modo irrefrenabile.

Immaginate se una logica del genere fosse attuata dalla nostra classe politica o da alcuni segmenti della nostra società. Immaginate un responsabile d’azienda che, con coraggio, decide di investire sui giovani più capaci come fanno i DJ professionisti: riuscirebbe a dare una risposta concreta al drammatico problema della disoccupazione giovanile, garantendo un ricambio generazionale che può portare solo freschezza, originalità e creatività nel mondo industriale e, di conseguenza, all’interno della società nella sua interezza. E se altri potessero seguire il suo esempio, magari a livello nazionale, le cose non potrebbero che migliorare. In poche parole, dal mondo Dance Elettronico possiamo solo imparare…

Certo, ci fosse un’attenzione maggiore da parte dei DJ più noti nei confronti di alcuni temi caldi, come quello dei diritti umani (per fare un esempio, lo stesso Armin ha ricevuto critiche da molti fans per aver suonato in Russia, nazione che da diversi mesi calpesta i diritti degli omosessuali in modo brutale e orribile), il quadro sarebbe perfetto. Dalì consigliava di non avere paura della perfezione, perché non riusciremo mai a raggiungerla. Ma chissà, qualcosa potrebbe muoversi anche in questo segmento. E a quel punto, non resterà che aprire gli occhi di fronte a una rivoluzione socio – culturale che sta già scorrendo sotto i nostri occhi e suonando nelle nostre orecchie.

 

concimpE’ la “Lettera di un musicista al Ministro alla cultura”, ma pone sul tavolo tante questioni di economia e gestione, più che rivolgere molti interrogativi o rimostranze in ambito artistico.

Una lettera che spontaneamente mette in luce il doppio valore della cultura: un motore della crescita economica, dei redditi e dell’occupazione, e un fattore di miglioramento della qualità sociale. L’obiettivo di uno Stato (e di un Ministro) moderno dovrebbe essere quello di occuparsi della produzione di nuova cultura, e quindi di sostenere le industrie culturali e creative.
Queste, pur contenendo in sé quel “bene prezioso” (con le parole della lettera) che è la cultura, per molti altri aspetti non sono dissimili dalla molteplicità delle organizzazioni economiche che formano il tessuto economico tradizionale su cui si basa lo sviluppo economico.

Ci sono imprese grandi, medie, piccole e piccolissime, for profit e non profit, ci sono liberi professionisti, artigiani, manager o imprenditori, anche nell’ambito culturale. E loro, come tutti, hanno a che fare con tasse e imposte, contributi previdenziali, premessi licenze e concessioni. Qui ora però si sta parlando di un ambito non profit in cui operano imprese piccole o piccolissime o singoli, dove chi fa cultura lo fa in forma non organizzata, rispondendo semplicemente all’esigenza di diffonderla capillarmente tra la gente, secondo formule saltuarie e mutevoli (un concerto o una mostra in un locale privato, un bar, un club, una casa).

Questo è nella sostanza un servizio pubblico che risponde all’universale riconoscimento della cultura come un bene meritorio, ma che sono in grado di fare al meglio i privati, ed è quindi sensato aspettarsi un appoggio ad essi da parte del settore pubblico. Ma di che tipo? Qui viene il difficile. In termini economici, dal lato delle imposte, ci son due piani: far pagare meno imposte a chi fruisce del consumo di beni e attività culturali; far pagare meno imposte a chi guadagna del reddito producendo beni e attività culturali. Serve introdurre misure per entrambi? Sono gli ammontari che ostacolano il funzionamento o è la burocrazia che li circonda? Dal lato dei contributi previdenziali, c’è il problema, tipico in qualunque mercato del lavoro, dell’imprevidenza in età adulta nei confronti della propria età anziana. Come trattarlo nel caso degli artisti?

Sicuramente, per iniziare una seria discussione sulle misure da introdurre per fare della cultura una leva di un nuovo modello di sviluppo economico e sociale, sarebbe utile semplificare il modo in cui le imposte e i contributi si debbano versare quando sono relativi a redditi guadagnati da artisti in circostanze occasionali, comprendendo i diritti Siae in un unico atto da compiere, magari on line attraverso qualche software che funzioni sul telefonino, che sicuramente qualche gruppo di giovani start-upper sarebbe in grado di progettare.

 

Giovanna Segre è Professoressa di Politica Economica all’Università Iuav di Venezia

 

 

C’era una volta un giovane ragazzo di nome Willis Earl Beal che viveva a Chicago.

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Le giornate nella grande città non erano mai state semplici per lui, tanto che per sbarcare il lunario decise  di arruolarsi nell’esercito degli Stati Uniti d’America. Le rigide regole militari mal si accostavano al suo temperamento e un principio di depressione lo fece perciò tornare sui suoi passi.

La sua prossima destinazione sarebbe stata il New Mexico.
Anche qui tuttavia la fortuna non sembrava girare a suo favore e Willis Earl Beal fu costretto a vivere da vagabondo.

Nonostante tutto il ragazzo non si diede però per vinto e puntò tutto sul suo talento.
Willis Earl Beal ha infatti tre grandi doni: buon orecchio, ugola graffiante e vivace creatività.
Cominciò così a scrivere musica su supporti di fortuna che sparse in giro per Albuquerque, mentre offriva le sue esibizioni a domicilio, proponendosi con volantini da lui disegnati.

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Un bel giorno, ad intercettare il suo “materiale pubblicitario”, fu la redazione del Found Magazine, rivista specializzata nel raccogliere e pubblicare foto di oggetti trovati  in strada. Da quel momento il destino di Willis Earl Beal prese il suo corso. Il ragazzo fu chiamato infatti a cantare e, sorpreso dalla sua bravura, il team di Found Magazine finanziò l’edizione del suo primo rudimentale album – The Willis Earl Beal Collection – in una manciata di copie, con i suoi componimenti musicali, le sue poesie e gli immancabili disegni.

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Uno di questi rari esemplari, contenente il sound originale di Willis Earl Beal, giunse nella sede dell’etichetta discografica indipendente XL Recordings, famosa per aver lanciato artisti come Adele, Devendra Benhart, Gotan Project, Radiohead, Sigur Ros e The White Stripes. Qui, saggi uditi riconobbero il prezioso diamante grezzo.

Il senzatetto di Chicago incise così il suo primo vero album dal titolo “Acousmatic Sorcery”, contenente 15 track eseguite esattamente come il loro autore le aveva concepite: suoni sporchi, testi cacofonici e ambientazione da strada. Forse fu proprio la genuinità della sua musica a conquistare un vasto pubblico di intenditori che decretarono il successo del suo primo vero lavoro.
Fedele a se stesso, i disegni rimasero un suo tratto peculiare, ripresi anche nella copertina del disco e nei videoclip.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=fhrlEGJRPqM?list=PL6F316EDB32FC370E]

 

Oggi il ventisettenne è pronto per lanciare il suo secondo album “Nobody knows” con un tour mondiale che partirà a settembre, tra un bozzetto a matita e un nuovo esperimento sonoro.

 

nobodyknows

 

Questa è la favola moderna di Willis Earl Beal, un ragazzo dal passato difficile che non ha mai smesso di credere nei suoi sogni… e alla fine li ha visti realizzati.

 

 

 

notbiaForse per il caldo o magari per la piacevolezza delle serate estive, ma sembra che questa stagione sia la più gettonata per organizzare le cosiddette Notti Bianche. Tanti i borghi, le località turistiche e anche le città che in estate invitano abitanti e visitatori a tirar tardi fino al mattino, con un’offerta culturale e di spettacoli davvero variegata con performance artistiche, concerti, aperture straordinarie di spazi museali e commerciali.

Il fenomeno è ormai un “must” del divertimento low cost nella penisola, con appuntamenti che si ripetono annualmente o eventi sporadici dedicati magari a particolari ricorrenze: un modo diverso per riscoprire luoghi, vivere angoli cittadini o piccole realtà, in orari insoliti.

Vi segnaliamo allora alcune delle Notti Bianche che avrete sicuramente piacere di trascorrere lontani dal letto!

 

 

 

 

ROCCELLA JONICA (RC)
14 agosto

Per cittadini e turisti Roccella Jonica rimane sveglia nella notte del 14 agosto con degustazioni di prodotti locali sul lungomare, concerti e musical in piazza.
Consulta il programma

 

PEDASO (FM)
14 agosto

La località marittima marchigiana attende l’alba del Ferragosto tra cultura, musica, ambiente, arte, cinema e poesia. Dalle 18,00 del 14 agosto fino alle 2,00 del 15, sono tanti gli appuntamenti da non perdere per grandi e piccini. La rassegna si chiama infatti “Aspettando l’Alba”.
Consultate il programma 

 

 

BOBBIO (PC)
15 agosto

Il Ferragosto si festeggia tutta la notte a Bobbio dove le celebrazioni religiose lasciano lo spazio a concerti di musica classica, mercato di antiquariato e spettacolo pirotecnico di chiusura.
Ecco il programma

 

 

SAN MARCO IN LAMIS (FG)
17 agosto

“Cchiù fa notte e cchiù fa forte” è il titolo della Notte Bianca che si terrà a San Marci in Lamis, in occasione della quale si esibiranno nella piazza principale il gruppo rock Nobraino. L’evento predilige la musica e vede protagonisti generi diversi in ogni angolo della città, ma non mancheranno attrazione per bambini, show in strada e degustazioni.
Scarica il programma

 

 

CELLE LIGURE (SV)
20 agosto

L’antico borgo di Celle Ligure invita i nottambuli a trascorrere la notte del 20 agosto in compagnia di musica, danze, artisti di strada e mercatini. Un’occasione per vivere questo centro storico, famoso per il suo mare azzurro, anche sotto le stelle, tra le piacevoli note di generi musicali per tutti i gusti.
Consulta il programma

 

 

LUCCA 
24 agosto

La splendida cittadina toscana festeggerà la sua Notte Bianca il 24 agosto con un programma ampio che coinvolgerà i principali angoli del centro storico. Previste infatti visite guidate ai principali monumenti, musei e palazzi storici, concerti nelle piazze e un’originale caccia al tesoro tra le antiche mura. Ristoranti e bar resteranno aperti per offrire menu a tema. A mezzanotte performance collettiva per realizzare un’opera dedicata ai mondiali di ciclismo. Scoprite di più sulla pagina Facebook dedicata all’evento.

 

 

CASSINO (FR)
31 agosto

Cassino promette cento spettacoli in una notte, in quella che è stata denominata dagli organizzatori “La Notte Bianca della Cultura”. L’appuntamento è per il 31 agosto e tanti sono gli ambiti in cui la lunga serata intende svilupparsi, per recuperare le eccellenze locali.
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Marcello-Amici-Il-berretto-a-sonagli-1Passato il tramonto sull’Aventino ogni sera, fino al 4 agosto, prende il via Pirandelliana. La cornice è sempre una delle più suggestive, con una luce ed un affaccio che fanno del Chiostro della Basilica di Sant’Alessio un luogo incantato che da solo vale lo spettacolo.

La rassegna, patrocinata da Regione Lazio e Roma Capitale, è giunta alla sua quindicesima edizione. La Bottega delle Maschere, diretta da Marcello Amici, porta in scena il Berretto a sonagli e Pensaci, Giacomino!

Pensaci,Giacomino! è l’opera pirandelliana dedicata alla critica allo stato ed alla sua burocrazia: Marcello Amici, oltre alla regia, interpreta il ruolo di Agostino Toti. Il professor Toti, giunto al termine di una carriera statale poco gratificante dal punto di vista economico, decide di sposare Lillina, giovane ragazza,con la quale si comporterà da padre; vuole assolutamente sposarla in vecchiaia perché lo stato italiano sia costretto a pagarle la pensione dopo la sua morte, vendicandosi così delle frustrazioni dei suoi 34 anni di servizio.

Lillina aspetta un figlio da Giacomino, benvoluto dal professore, che lo accetta tranquillamente a casa dopo le nozze trovandogli anche un lavoro in banca, ma la logica dell’equilibrio proposto dal professore si scontra con i giudizi morali della gente del paese sulla situazione.

Giacomino ne viene letteralmente schiacciato, non li tollera e prova a riscattarsi cancellando Lillina e tentando di ricostruirsi una vita fidanzandosi con un’altra, sottovalutando il professore, che si precipita a casa sua con il figlio Ninì, rappresentato da un pupazzo, per convincerlo prima con il buon ragionamento e poi con minacce a tornare da Lillina.

Il professore non accetta dunque il fallimento del suo piano, il fatto che la forma, il giudizio degli altri, sia per un uomo più importante e insuperabile di un sostanziale miglioramento della propria esistenza (è lui che dà lavoro a Giacomino e che gli consente di poter stare con Lillina).

La scenografia è essenziale e lo spettacolo, in due atti, scorre velocemente. Energici, insieme al protagonista, i giovani attori che interpretano Giacomino e Lillina, mentre troppo deboli le interpretazioni degli altri personaggi. Dal punto di vista artistico lo spettacolo risulta a tratti confuso, meno vivace di altre messe in scena della compagnia, specializzata sull’autore siciliano, come il Sei personaggi in cerca di autore di un paio di anni fa.
Il pubblico alla fine è tiepido e non mancano i commenti un po’ delusi, considerando anche la location in esclusiva alla compagnia per l’Estate Romana e l’altissimo numero di repliche previste.

All’uscita non può mancare l’ultimo sguardo al panorama e in tanti si avviano anche a Piazza dei Cavalieri di Malta per una sbirciatina dalla famosa serratura che mostra il cupolone.

Chissà che il prossimo anno un possibile alternarsi di compagnie e spettacoli ad accompagnare le serate non possa arricchire ulteriormente le serate sull’Aventino.

52raccontiInizia con “Discoverland” (progetto nato dall’incontro musicale ed amichevole tra Pier Cortese e Roberto Angelini) #52racconti e forse non poteva essere altrimenti.

Difatti, la serie di eventi, cinquantadue per l’esattezza è solo un punto di partenza per scoprire e riscoprire una terra speciale, dalle mille risorse: il territorio del salernitano.

L’iniziativa è articolata in eventi che vanno di pari passo con i racconti (chiamati anche note a margine) ed ha l’obiettivo di riaccendere l’immaginario culturale ed artistico attraverso musica, arte, storia ed enogastronomia del territorio.
Cinquantadue racconti ha un prologo, di sei eventi, che si terranno a Capaccio ed a Paestum dal 26 luglio al 26 agosto. Il periodo è perfetto per l’inizio di un bel racconto, in cui si potrà parlare, non solo di mare (in questo mese l’attenzione si focalizzata soprattutto su questo tema), ma anche di storia e di archeologia, di enogastronomia e di musica.

Difatti la musica sarà grande protagonista di “Cinquantadue storie da raccontare” ;il prologo, che si svolgerà in location, prestigiose e non convenzionali come il Chiostro del Convento di Capaccio ed alla Pineta (che affaccia sul mare) della zona Laura di Paestum, ospiterà Angelini & Cortese (citati poco sopra),  Philippe Cohen Solal, direttamente dai Gotan Project, gli Incognito con Bluey e Francis.
I Templi a Paestum ospiteranno invece gli altri tre spettacoli del prologo di #52racconti, gli attesissimi Giovanni Allevi, con l’orchestra sinfonica nella sua unica tappa in Campania di “Sunrise”, altro titolo evocativo e di buon auspicio per il territorio Campano; Vinicio Capossela, assoluto genio della musica italiana; e Peppe Servillo con i Solis String Quartet che con la loro classe omaggeranno la cultura e la canzone classica napoletana con lo spettacolo “Spassiunatamente”.

La serie di eventi, di grande prestigio e spessore artistico e culturale, presenta una novità al passo con le nuove tendenze comunicative; 52 racconti, infatti, sarà “supportata” da dieci “cantastorie digitali”, o anche storytellers, cha avranno il compito di raccontare gli eventi, seguirli e condividerli attraverso i social network attraverso l’hashtag #52racconti.

La voglia di raccontare il territorio, attraverso un evento che non sia fine a se stesso, ma parte integrante di un progetto più ampio, è ciò che fa ben sperare per questa iniziativa che si propone “avanti” negli obiettivi.
Il resto lo faranno gli scenari, la musica, il cibo e le persone, come sempre.

tomyorkeQuanti concerti, rassegne e musica del vivo sono protagonisti dell’estate non solo italiana ma di tutto il mondo. Sarebbe meraviglioso viverli tutti in diretta, cantando a squarciagola e sbracciandosi ballando a più non posso. Ma…non sempre tutto ciò è possibile: la distanza dalla città in cui si esibiscono i nostri artisti preferiti o semplicemente il fattore prezzo di ogni singolo live ci impongono una dura selezione che, per forza di cose, ci lascia a bocca asciutta.

Nell’epoca dello streaming e della musica digitale, ovviamente, tutto ciò può non rappresentare più un problema.
Sono moltissime, infatti, le applicazioni e i siti che ci permettono di assistere ai concerti in diretta o immediatamente dopo le esibizioni live dei maggiori gruppi musicali.
Così, grazie a servizi come Livestream, Ustream, gli hangout di Google Plus o gli hashtag di Twitter corredati dai video di Vine siamo in grado di goderci anche gli spettacoli a cui non siamo riusciti ad assistere fisicamente e di cui sul web si realizzano dei veri e propri rockumentary.

Ha fatto notizia, negli ultimi giorni, l’abbandono degli Atoms for Peace di Spotify, il servizio di musica straming approdato in Italia 6 mesi fa e che, secondo il gruppo di Tom Yorke non gioverebbe l’industria musicale, alimentando il download illegale di brani.
Spotify, che non ha reagito bene, ha rilanciato pubblicando una ricerca, effettuata nei paesi europei che dimostra come, dalla nascita di Spotify ad oggi, il dowload di branni illegali è diminuito drasticamente, così come avvenuto già con l’avvento di iTunes su device Apple.
Nella speranza che anche nel nostro paese (che dalla ricerca risulta essere uno dei paesi in cui oltre il 77% della popolazione ricorre a download illegale di musica online) si abbassi drasticamente la percentuale di coloro i quali scaricano illegalmente musica, le alternative possibili per godere di buona musica a prezzi ragionevoli arriva da Soundhalo, lo stesso servizio sposato proprio dagli Atoms for Peace per i loro prossimi concerti nella Roundhouse di Londra.
Con questo video, infatti, Tom Yorke, Nigel Godrich, Flea, Joey Waronker e Mauro Refosco hanno annunciato la possibilità di (ri)vedere la loro perfomance su pc, smartphone e tablet in alta qualità di suono per meno di 10 sterline.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=zyCyPYm-Idc]

E voi, rinuncereste ad un concerto live per vivere un’emozione in streaming?

Mimosa-Capironi-Matteo-Vignati_960E’ la serata dell’anteprima stampa, ma la fila al botteghino del Globe di Villa Borghese alle 18 è già lunga, sono in vendita alcuni posti sul parterre, e l’attesa è grande perché lo spettacolo segna il ritorno alla regia di Gigi Proietti, perché è proprio “Romeo e Giulietta” che, dieci anni fa, ha sancito l’ingresso imponente del Globe come immancabile appuntamento dell’Estate Romana, e perché la tragedia shakespeariana fa un po’ parte del dna degli spettatori teatrali, e tutti sanno o pensano di sapere la storia, ma la vera scommessa è nel sorprendersi nuovamente vedendola.

E’ proprio Gigi Proietti ad aprire la scena, in pochi minuti che accendono l’entusiasmo del pubblico.

Il Globe è stato inaugurato nel settembre 2003, spuntato nel cuore di Villa Borghese in soli 6 mesi, grazie alla virtuosa unione tra una forte volontà politica del Comune e la messa a disposizione di risorse rese disponibili dalla Fondazione Silvano Toti, per questo regalo alla città di Roma ed ai romani.

Gigi Proietti lascia il palco agli attori sulle parole del prologo della tragedia, la dichiarazione d’intenti al pubblico: “E se ad esso prestar vorrete orecchio pazientemente, noi faremo in modo, con le risorse del nostro mestiere, di sopperire alle manchevolezze dell’angustia di questa nostra scena.”

Nel cast i due giovanissimi Matteo Vignati, nel ruolo di Romeo, e Mimosa Campironi,nelle vesti di Giulietta, sono serviti sulla scena da attori di grande esperienza, come Francesca Ciocchetti, che interpreta la balia e che fa passare il pubblico dalla risata alle lacrime senza mai rubare la scena, ma segnandola ogni volta.

Lo spettacolo parte in abiti moderni, con la banda di Romeo che declama su note rap i versi di Shakespeare e Giulietta che suona rock con un piano elettrico dal balcone affacciato sul palco.

Dalla festa, le cui danze sono accennate da un cammeo in cui gli attori in maschera neutra ballano muovendo solo la testa, sulla classica musica da discoteca, e dall’ineluttabile incontro dei due amanti, si entra invece in ambiente e costumi d’epoca e nel classico della tragedia. Il salto è armonico perché lo spettacolo non perde mai di ritmo e di magnetismo, ma a mente fredda viene da domandarsi se l’osare attraverso la modernità iniziale sia funzionale allo spettacolo o frutto di una manovra che poi non avrebbe retto alla “sacralità” di una storia troppo conosciuta.

La balia e frate Lorenzo sorprendono sempre e incarnano leggerezza e comicità con maestria e precisione nel cogliere esattamente il tempo comico per battute e movimenti, continue le risate del pubblico nelle loro apparizioni.

Il palco diventa campo di battaglia a 360 gradi nei duelli, ben tenuti da Fausto Cabra, nei panni di Mercuzio, che domina con agilità lo spazio, e campo insanguinato fino alla fine con l’ultimo duello tra Romeo e Paride, promesso marito di Giulietta, personaggio sottovalutato in altre messe in scena della storia. E’ toccante il suo monologo finale a Giulietta che promette di andare a visitare ogni giorno alla tomba, e di lucidità disarmante le ultime parole che rivolge a Paride prima di ucciderlo e di uccidersi lui stesso: “Dammi la mano, tu, che, come me, fosti segnato nell’amaro libro della sventura! “.

Romeo e Giulietta si tolgono la vita a distanza di un minuto e i loro corpi si fermano in contatto solo con la testa in un incastro di drammatica plasticità.

Semplice la scenografia eppure sempre chiari e distinti gli ambienti, numerosi gli interventi di personaggi di servizio e comparse per rendere al meglio le scene collettive, come la preparazione degli eventi in casa Capuleti: è il carattere di essenzialità del teatro, fatto da movimenti e parole degli attori, gli unici traghettatori delle emozioni delle anime spettatrice in una storia che non perde il suo fascino e non smette di sorprendere.

All’uscita del pubblico, con cuscini portati da casa per il parterre, in una Villa Borghese un po’ più illuminata dell’anno scorso nei viottoli verso il parcheggio, gli occhi lucidi non mancano.

La stagione del Globe prevede il ritorno di Giulietta e Romeo, dopo le serate teatrali di luglio, nel Balletto di Riccardo Cavallo ad agosto; seguiranno Sogno di una Notte di Mezza Estate, Riccardo III e Re Lear.