Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
Partita IVA 03068171200 | Codice Fiscale/Numero iscrizione registro imprese di Roma 03068171200
CCIAA R.E.A. RM - 1367791 | Capitale sociale: €10.000 i.v.
Ogni quattro anni, migliaia di atleti provenienti da oltre 200 paesi si riuniscono in una città per competere in quello che è, senza dubbio, il più grande evento sportivo del mondo – i Giochi Olimpici. Questa estate gli occhi del mondo sono puntati su Londra e la città si impegna a ospitare l’evento olimpico più verde mai realizzato. Nel 2010, Vancouver ha elevato lo standard verde per le Olimpiadi con le iniziative di sostenibilità avviate per i Giochi Olimpici Invernali. Ora, gli organizzatori delle Olimpiadi di Londra hanno un ambizioso piano per ospitare i primi giochi “veramente sostenibili”.
Sotto i riflettori dei media per quasi tre settimane, le Olimpiadi a Londra offrono un’occasione unica agli sponsor ufficiali per rafforzare le idee verdi e accelerare gli sforzi per trasformare Londra in una città sostenibile. Già dall’organizzazione dell’evento, i media britannici hanno messo in discussione l’impegno ambientale dei responsabili dei Giochi in discussione, ma nonostante le critiche i visitatori potranno apprezzare le particolarità verdi, che sicuramente rappresenteranno gran parte dell’esperienza olimpica.
Leggi l’articolo completo su Culture in Social Responsibility
Durante l’estate bolognese la protagonista assoluta sarà la creatività di alcuni degli street artist più famosi al mondo. È partito il 19 giugno e terminerà il prossimo 5 agosto il progetto Frontier- la linea dello stile, che prevede la realizzazione di diversi cantieri urbani in giro per le strade della città, all’interno dei quali artisti e writers disegneranno le mura di alcuni edifici popolari. Un modo per riqualificare i numerosi muti grigi e spogli delle strutture cittadine, trasformate in vere e proprie tele per le opere dei disegnatori. Nel mezzo dell’esecuzione dei lavori, la redazione di Tafter ha rintracciato ad intervistato Fabiola Naldi, curatrice e responsabile del progetto.
Frontier rappresenta un modo innovativo per migliorare alcuni aspetti del contesto urbano. Quando e in che modo è nata l’idea del progetto?
Il progetto è il risultato della lunga storia di Bologna nell’ambito delle discipline della street art e del writing, dal 1977 ad oggi. Questa infatti è stata la prima città italiana a comprendere l’impatto generazionale culturale e la forza del writing su tutta la scena artistica. Il titolo del progetto, che in realtà è un’autentica mostra di strada in quanto contesto naturale dove si sono sviluppate queste discipline, prende spunto da una mostra che si è tenuta ne 1984 presso la Galleria civica d’arte moderna (l’attuale Mambo) dedicata alla curatrice Francesca Alinovi. È proprio su questa base storica che parte l’idea del progetto: tredici artisti internazionali, ognuno con le proprie caratteristiche e diversità stilistiche, realizzeranno le proprie opere su tredici facciate selezionate di edifici popolari, tutti risalenti agli anni’ 30 e tutti a ridosso delle cinta murarie della città, dove la periferia confluisce nel centro.
Contestualizzare la street art e servirsene per valorizzare la città ha trasformato il concetto di questa tecnica. Possiamo affermare che questa arte ormai rientra appieno nelle forme stilistiche legittime e non più sovversive?
Premesso che gli artisti non hanno bisogno di legittimazione, dal momento che questa l’hanno ottenuta attraverso le grandi opere che hanno realizzato, l’utilità dei curatori consiste nel rivestire il ruolo da intermediari per superare il fraintendimento di fondo nei confronti delle discipline. Quella che per molti è stata definita una sottocultura, in realtà è una cultura vera e propria, molto democratica e libera con un suo substrato illegale. La crescita naturale degli interventi artistici deve continuare pertanto ad essere determinato dalla strada e dal dialogo tra gli artisti: un percorso che va in parallelo rispetto a quello istituzionalizzato dai curatori. Nei cantieri cerchiamo di spiegare ai passanti cosa si sta realizzando perché il dovere del critico è aiutare il pubblico alla comprensione delle due discipline. La zona inoltre non è stata scelta a caso: pensare di intervenire su determinate facciate che non sono mai state ristrutturate non è una semplice operazione di arredo urbano, ma porta un plus valore alle facciate e ai supporti che ospitano le opere.
Quali sono state le azioni di supporto da parte degli enti locali?
L’Assessorato alla cultura ci ha finanziato con 20 mila euro. Si tratta di soldi del bilancio comunale destinati a progetti culturali. Il restante invece è stato stanziato da sponsor privati.
Il progetto si concluderà il 13 gennaio prossimo con un convegno presso il Mambo- Museo d’arte contemporanea di Bologna. Ci può anticipare qualcosa sulle modalità dell’evoluzione del progetto e se nel futuro questo esperimento sarà ripetuto anche in altre città italiane?
I cantieri chiuderanno il prossimo 5 agosto, mentre il progetto nel suo insieme si concluderà con il convegno ospitato dal Mambo: questa sarà la sede in cui ragioneremo e ci confronteremo con un pubblico variegato, dal momento che l’evento sarà aperto a tutti e culminerà con una pubblicazione di un libro in italiano e in inglese, che mira a fornire della letteratura in più riguardo questa disciplina. In genere infatti i cataloghi sono ricchi di apparati iconografici ma carenti di sezioni scritte esplicative.
In Italia progetti simili a Frontier sono già in essere in altre città, come Torino, Modena e Grottaglie, sebbene in questi casi manchi la presenza di un curatore. È auspicabile che queste città portino avanti queste iniziative, lavorando con delle basi scientifiche e creando connessioni tra di loro. Non si tratta di stabilire un unico coordinamento esterno, perché le discipline non possono essere controllate, bensì creare rete il più possibile e mantenere il confronto e il dialogo costante.
A tre anni esatti dall’inizio dei lavori (l’inaugurazione ufficiale è prevista per il 4 dicembre di quest’anno) l’attesa per l’apertura della nuova sede del Louvre diventa sempre più incalzante. La succursale di uno dei musei più estesi e famosi del mondo infatti non sarà solo un nuovo e moderno spazio espositivo che accoglierà più di 500.00 visitatori. Il nuovo edificio, infatti, sarà un vero e proprio simbolo del riscatto e della riqualificazione per una regione periferica della Francia, che sino agli anni sessanta basava la propria economia sui giacimenti del sito minerario di Loos-en-Gohelle nel Nord–Pas de Calais (l’ultima attività estrattiva risale al 1986). Prenderà il nome di Louvre Lens, in onore della regione che lo ospita e sorgerà a distanza di duecento chilometri dalla capitale francese, rappresentando così il punto di riferimento e di ripartenza economica per una delle regioni più povere del paese. Un chiaro esempio di come il decentramento dell’arte e della cultura possa far ripartire lo sviluppo sociale ed economico di un’intera regione, in un’area che aveva subito una forte battuta d’arresto, in seguito alla chiusura del sito minerario. Il cantiere del museo si trova esattamente nei terreni riconvertiti dell’ex bacino minerario ed è già visitabile: nei 500 mq della Maison de Project, adiacente al cantiere, sono stati installati schermi per la proiezione di filmati esplicativi del progetto e sono stati allestiti laboratori ed iniziative culturali; sono state organizzate, inoltre, delle visite guidate all’interno della stessa area dove vengono portati avanti i lavori (la forma finale che prenderà la struttura non è ancora del tutto comprensibile). Il progetto delle nuove sale del museo è stato disegnato e realizzato dallo studio giapponese di Sanaa: le opere, smistate nelle diverse sale secondo un criterio tematico, saranno circondate da pareti completamente trasparenti all’interno di un immenso palazzo di vetro e di alluminio. Due saranno gli spazi espositivi: uno permanente che prenderà il nome di “Galerie du Temps”, in cui saranno esposte a rotazione (cambieranno ogni 5 anni) 250 opere provenienti dal Louvre parigino; e il salone per le mostre temporanee, il “Pavillon de Verre”. Si tratta quindi di uno dei pochi musei che non possiede una collezione propria ma che prende in prestito le opere d’arte al fine di trasferirle e avvicinarle in altre zone più defilate rispetto ai centri più fervidi della vita culturale.
L’incasso complessivo previsto dagli ingressi, il bookshop e il merchandising è stato calcolato intorno ai 135 milioni di euro annui, l’equivalente degli introiti di 40 siti italiani.
La terra continua a tremare in Emilia Romagna, ma la solidarietà non si fa attendere. Sono già partite le numerose iniziative da tutta Italia per portare il proprio aiuto concreto alle popolazioni terremotate dell’Emilia Romagna. Vediamone alcune:
• Nei giorni scorsi si è diffuso l’appello sul web dell’azienda agricola Cusumaro che subito dopo la scossa del 20 maggio, ha invitato tutti a comprare le forme di Parmigiano Reggiano dop rigorosamente italiano, contenuto nei suoi depositi danneggiati dal sisma. Un modo per richiedere non aiuti economici, ma la possibilità di rialzarsi da questo terribile calamità attraverso il proprio lavoro ed impegno. Il formaggio può essere acquistato sia via mail che per telefono. Basta inviare la propria richiesta all’indirizzo mail filieracorta@arci.it per le singole persone o le famiglie; all’indirizzo mail elisa.casumaro@yahoo.it o ai numeri di cellulare 346 1779737/340 9016093 per le aziende.
• Per quanto riguarda le donazioni e gli aiuti finanziari immediati è stato attivato il numero 45500: inviando un sms dal telefonino viene stanziato un contributo di due euro in favore della popolazione e dei progetti di ricostruzione della zona. Per comunicare tutti i danni subiti dal patrimonio culturale, monumenti, musei e centri storici di valore artistico, il Ministero dei Beni Culturali ha attivato un’apposita casella elettronica, sisma2012@beniculturali.it a cui poter inviare tutte le segnalazioni.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=QE0XmTt51uU&w=400&h=300]
• Confartigianato Vicenza ha aperto un conto corrente con lo scopo di aiutare direttamente tutte le aziende della regione. Si tratta del conto corrente bancario intestato a: “Confartigianato Imprese – Raccolta fondi terremoto in Emilia Romagna 2012” presso la Banca Popolare di Sondrio Agenzia 24, via San Giovanni in Laterano 51/A, 00184 Roma – Codice IBAN: IT26 Z 05696 03224 000003396X05.
• Legambiente nell’ambito dell’iniziativa Voler bene all’Italia per portare la propria solidarietà, ha proposto di creare una sinergia tra i comuni fortemente danneggiati dell’Emilia e altri paesi che possano così aiutate direttamente il comune con cui hanno istaurato il gemellaggio. Le candidature possono essere inviate a: pgi@legambiente.it e l’elenco dei comuni è consultabile sul sito.
• Il ministro della giustizia, Paola Severino ha invece lanciato l’idea di poter impiegare i detenuti del carcere della Dozza di Bologna per avviare e portare avanti la ricostruzione in queste zone. L’obiettivo è quello di far sentire utile la popolazione carceraria sia per portare il proprio sostegno che per inserire l’iniziativa nel percorso di recupero dei detenuti non pericolosi e già in regime di semilibertà.
Cliccando su questo link invece troverete tutte le altre iniziative per la raccolta fondi avviate dalle diverse testate giornalistiche, le fondazioni bancarie e grandi catene di distribuzione.
Si era temuto il peggio per il suo parroco dopo i gravi crolli che hanno colpito la Basilica di Santa Maria Assunta, il duomo del paese: Carpi invece ha tirato un sospiro di sollievo quando è stato reso noto che, nonostante i gravi danni, il sacerdote non era rimasto coinvolto nelle frane provocate dal terremoto. A pochi chilometri da Mirandola, nella provincia di Modena, Carpi ha rischiato di perdere il suo gioiello architettonico, il suo duomo dedicato all’Assunta. Commissionata dal principe rinascimentale Alberto Pio, i lavori della splendida chiesa rinascimentale iniziarono nel 1514 sotto la direzione dell’architetto Baldassarre Peruzzi, che riprese le idee che il Bramante e il Raffaello avevano per il cantiere della basilica di San Pietro a Roma. I lavori vennero interrotti dal 1525 e ripresero nel 1606, quando furono realizzate le tre navate e la facciata in stile barocco. Solo nel 1768 venne completata la cupola: questa risultò essere troppo alta e slanciata quindi venne sostituita già nel 1771 con una più bassa. L’edificio è stato terminato e consacrato infine nel 1791. Al suo interno sono conservate diverse opere d’arte del Seicento emiliano e veneto: Teodoro Ghisi, Matteo Loves, Sante Peranda, Luca Ferrari e Giacomo Cavedoni. In queste ore sono in corso le verifiche dei vigili del Fuoco e pertanto l’edificio è ancora considerato inagibile.
Sono diverse le macerie sparse nella piazza dei Martiri di Carpi a testimoniare che i danneggiamenti hanno interessato non solo la chiesa madre: molti i pennacchi franati a terra e i vigili del fuoco hanno asportato alcuni camini pericolanti sui tetti di Palazzo dei Pio e sul Portico del Grano.
In attesa che venga effettuata una stima conclusiva dei danni riportati, vi mostriamo un video che riassume quale immenso patrimonio artistico è racchiuso all’interno del piccolo borgo di Carpi.
Recuperare la tradizione degli itinerari a piedi, più lenti ma allo stesso tempo più complessi e ricchi di esperienze, imprevisti, informazioni. È questo una delle ragioni di Stella d’Italia, un’iniziativa partita dal web, che prevede la realizzazione di quattro differenti marce in partenza da ogni angolo della penisola, per congiungersi poi alla meta finale, la città dell’Aquila, che rappresenta non solo il comune al centro dell’Italia ma anche una comunità profondamente colpita dal terribile terremoto di tre anni fa. Simbolo emblematico di una parte del nostro paese profondamente ferita, ma che non rappresenta un caso isolato. Sono innumerevoli le situazioni analoghe di abbandono a cui questa iniziativa si prefigge di portare solidarietà, al fine di ricucire quello strappo che divide questi territori dal resto del paese. Al contempo, durante l’itinerario, l’obiettivo è quello di acquisire la conoscenza dei luoghi attraversati, delle loro problematiche e delle prospettive future per le comunità e per questi territori. Non una semplice passeggiata dunque, ma un modo per riscoprire i luoghi meno frequentati dai turisti nel nostro paese e scoprire quali sono le attività portate avanti nel territorio da tutte le associazioni pubbliche e private che ne costruiscono il futuro. Recuperare il significato del viaggio come scoperta continua, ripercorrendo la struttura del pellegrinaggio convenzionale.
Il pellegrinaggio è stato nei secoli non solo un viaggio finalizzato a rafforzare la propria fede, ma soprattutto un lungo cammino alla scoperta di forma mentis completamente differenti. Bastava allontanarsi anche di pochi chilometri per entrare in contatto con culture estranee e diverse, sentire racconti e leggende non proprie. Una tradizione andata perduta con l’avvento dei mezzi di locomozione e dell’aereo. Ormai si decide solo la meta da raggiungere, mentre tutto ciò che c’è nello spazio intermedio tra il luogo di partenza e quello di arrivo non è più parte dell’itinerario. Contestualmente è andata perduta anche la tradizione di sentir narrare i fatti e le leggende del luogo dove si transitava, la sinergia che si creava tra gli autoctoni e il nuovo arrivato venuto da fuori. Riscoprire quindi il confronto e il dialogo sarà l’imperativo di questa lunga marcia verso l’Aquila.
La marcia è partita lo scorso 11 maggio e si snoderà nel corso di 60 giorni; le partenze sono Messina, Reggio Calabria, Venezia, Genova, Santa Maria Di Leuca. Diverse le tappe previste in territori critici dove è forte la volontà di reagire: da Genova colpita duramente lo scorso ottobre dall’alluvione, alla Calabria dove si entrerà in contatto con tutte quelle aziende che fanno parte dell’Associazione Libera, sino a Matera dove si svolgeranno incontri musicali e letterari.
La partecipazione all’iniziativa è libera e ognuno può unirsi al percorso dove e quando preferisce. L’unico requisito è la volontà di conoscere e confrontarsi con tutte quelle realtà nostrane vicine ma differenti.
Tutto il programma e le tappe sono visualizzabili al sito.
A partire dal 23 maggio prende avvio il workshop Temporary School – A collective Work, un laboratorio curato da ALA Group, coordinato da Maria Rosa Sossai, critica e curatrice di arte contemporanea e l’artista indiano Sreshta Rit Premnath e progettato dall’Associazione culturale Sintetico di Milano , costituita da Francesca de Luca, Federica Santulli, Dafne Marchesini.
Il percorso attiva risorse creative attraverso la collaborazione e condivisione partecipata di progetti, con l’obiettivo finale di intersecare cultura e riqualificazione sociale, applicandola a un caso concreto come Piazza Gramsci a Milano.
L’iscrizione al workshop è gratuita e deve essere inviata entro il 20 maggio a info@sintetico.org, specificando l’oggetto con le parole NEXTFLOOR application, allegando un portfolio di progetti e lavori realizzati in ambito urbano.
L’oggetto delle riflessioni è la riqualificazione del porticato di Piazza Gramsci, attualmente parcheggio di motorini, ma che nell’area rappresenta un’ interessante struttura di aggregazione.
Il 29 maggio, con la chiusura dei lavori e la presentazione pubblica delle riflessioni, attraverso un momento conviviale, verrà presentata la seconda fase nel progetto NEXT Floor: il concorso NEXTFLOOR?_Open call. Si tratta di un bando pubblico per la riprogettazione, riallestimento e riqualificazione effettiva del portico, destinato ai partecipanti del workshop: una commissione tecnica costituita da membri degli Enti Locali e popolazione del quartiere valuterà il progetto più convincente che verrà premiato con 500 Euro e la possibilità della sua realizzazione concreta.
Nato nel 2007 a Venezia, e poi spostato nel 2009 a Milano, il collettivo progettuale Sintetico è costituito da un gruppo di giovani intorno ai trent’anni, tutti ex compagni di studi, con profili da architetti, project managers, urbanisti, designers, che hanno sentito la necessità di mettersi in gioco con la propria creatività al servizio della socialità, fin dai tempi dell’ università.
Per stimolare aggregazione, coinvolgimento della popolazione nelle areee urbane periferiche dove relazionarsi diventa molto difficile per motivi sia di ordine architettonico, che relazionale, lavorano su progetti di creatività partecipata, che hanno declinato nelle aree dismesse di Porto Marghera e a Milano.
La loro attuale sede è presso la Pagoda di Piazza Gramsci, uno spazio condiviso con altre associazioni, che il Comune di Milano ha assegnato attraverso bando pubblico. L’area confina con la China Town di via Paolo Sarpi, laboratorio di integrazione sociale e dialogo multi-culturale che ha stimolato diverse azioni del collettivo, come “Adotta una pianta per Piazza Gramsci”, chiedendo alla popolazione di portare un vaso per contribuire all’abbellimento della piazza, coinvolgendo anche fioristi cinesi; oppure “Librezze”, con la proposta di una serie di giochi legati alla lettura.
Ma la recente fatica del collettivo, che l’ha impegnato per circa un anno, è MILANO Officine : progetto di arte contemporanea rivolto alle nuove generazioni che evidenzia il rapporto fra pratiche artistiche e sfera pubblica. Inserito nell’area metropolitana di Milano, in diversi quartieri sensibili, il progetto ha coinvolto un network di associazioni, artisti, gruppi di progettazione impegnati nella ricerca sui linguaggi della contemporaneità applicati alla lettura dei fenomeni sociali della nostra urbanità, come l’integrazione multi-culturale, il bullismo e abbandono della scuola, il disagio sociale all’interno dei nuclei familiari, la trasformazione dei quartieri.
Milano Officine è nata da un’idea di Reporting System in collaborazione con Sintetico, ed è stato presentato pubblicamente con un libro “Pratiche al Plurale” che racconta la sua evoluzione, anche con l’occhio dell’interpretazione sociologica, in un inedito dialogo con l’arte contemporanea.
Sintetico ha proposto, inoltre, un intervento nel quartiere di Quarto Oggiaro, Sintetico@LAB, coinvolgendo una casa famiglia, dove adolescenti vittime di disagi familiari, si sono confrontate con il linguaggio del video, condotte dal regista-documentarista Francesco Cannito.
Il risultato finale del percorso è stato un film dove le ragazze si sono raccontate vicendevolmente, sperimentandosi direttamente con la regia, le riprese, il montaggio e le interviste. Sintetico le ha seguite passo passo, dedicandovi anche momenti di riflessione corale. Lo scopo è la sensibilizzazione verso un problema sociale molto diffuso, ma circoscritto alle mura di casa.
Sintetico si ispira a modelli d’oltralpe di collettivi creativi che riflettono sulla società odierna, applicando soluzioni creative ai maggiori problemi urbani, avvalendosi anche dei linguaggi dell’arte contemporanea. Per esempio Raum Labor di Berlino, oppure le realtà coinvolte in Art Boom Festival, il festival dell’arte pubblica che si tiene a Cracovia. Imprescindibile è stato il confronto con le pratiche dell’artista catalano, Antoni Muntadas.
Per conoscerlo, appuntamento alla Pagoda di Piazza Gramsci.
Tutto iniziò con il recupero dell’ex opificio Carpano in via Nizza a Torino, complesso industriale attivo fino a metà degli anni Ottanta poi caduto in disuso. È qui che è nato l’esperimento dell’alta gastronomia a prezzi contenuti chiamato Eataly: uno spazio multifunzionale interamente dedicato ai prodotti agroalimentari italiani di qualità, alla loro distribuzione secondo i principi della eco sostenibilità, cercando di comunicare al contempo i metodi di realizzazione del prodotto e presentare da vicino quelli che sono i creatori di questa filiera produttiva, attraverso incontri didattici e convegni. Gli stessi prodotti esposti e commercializzati, inoltre, vengono utilizzati in loco per le attività di ristorazione.
Si tratta di un modo innovativo di concepire i luoghi dedicati alla ristorazione superando gli schemi convenzionali sia della grande distribuzione prevista dalle catene dei supermercati, i quali hanno rivoluzionato e stravolto il rapporto tra prodotto alimentare e consumatore, che la definizione stessa di ristorante di lusso, inteso come luogo spesso inaccessibile alla massa e riservato solo ad una cerchia di privilegiati.
Al fine di coniugare questi due aspetti, il marchio Eataly riunisce al suo interno diverse piccole aziende del settore enogastronomico: l’intento è quello di accorciare la catena distributiva e garantire in questo modo la tracciabilità dei prodotti, creando un rapporto diretto tra produttore e consumatore finale.
Partendo dal Piemonte, questo modello innovativo nell’arco di cinque anni ha conquistato il mondo riuscendo ad esportare, anche oltre oceano, la sua filosofia e il suo obiettivo: quello di aumentare la percentuale di consumatori consapevoli che scelgono di nutrirsi con prodotti di qualità e dedicare allo stesso tempo attenzione alla provenienza e alla lavorazione delle materie prime. La stessa direttiva che ha portato al successo l’associazione Slowfood, da cui il sistema Eataly ha appreso i principi sostanziali su un modo di alimentarsi “sano, pulito e giusto”.
Dopo essere sbarcato a New York e a Tokio, il progetto Eataly continua a diffondersi anche in Italia. La prossima inaugurazione è programmata per il 14 giugno a Roma, nella struttura che ospita l’hub della stazione Ostiense. Queste erano le prospettive sino alla scorsa settimana, quando i lavori sono stati fermati in parte del cantiere per riscontrate irregolarità nel progetto. In sostanza, c’è stato un aumento della superficie utile e della volumetria del fabbricato ( 3.124 metri quadrati eccedenti) per cui mancano i nullaosta dell’ufficio Condoni edilizi del Comune di Roma. La domanda per l’ampliamento delle cubature era già stata inoltrata dal 2004, ma questa era stata presentata incompleta e in attesa del responso dell’Uce ( Ufficio Condoni Edilizi) i lavori sono proseguiti. A rilevare l’anomalia è stato l’ufficio tecnico del XI Municipio della capitale, le cui autorità in ogni caso si sono dichiarate favorevoli alla realizzazione del progetto e a tutt’oggi si augurano che i permessi arrivino nei tempi stabiliti. Il presidente della giunta municipale, Andrea Catarci è consapevole delle potenzialità sia economiche che sul piano occupazionale che l’intera struttura garantirà al territorio circostante. La zona sottoposta a controlli all’interno del cantiere è quella del primi due piani dove, secondo l’architetto Clara Laufente, che ha curato la costruzione dell’edificio negli anni 90, non sono stati rispettare le volumetrie interne. I lavori del cantiere quindi stanno proseguendo solo nel terzo e quarto piano per non ritardare l’apertura, che dovrebbe essere contestuale all’inaugurazione del complesso all’interno del quale saranno ospitate la scuola di formazione e gli uffici della società ferroviaria Ntv.
Il progetto complessivo di ristrutturazione del terminal Ostiense non prevede dunque semplicemente la realizzazione dello store enogastronomico ideato dall’imprenditore torinese Oscar Farinetti. Il fine è quello di riqualificare e portare a regime questo terminal ferroviario, nato per i mondiali degli anni 90 e mai stato messo a profitto e potenziato. Invece di rappresentare un importante snodo ferroviario l’intera struttura è stata, al contrario, abbandonata all’incuria e al degrado. Sino a qualche mese fa a ridosso dei binari sorgeva una tendopoli nella quale da dieci anni vivevano un centinaio di cittadini afghani, che nell’edificio rimasto inutilizzato avevano trovato rifugio sicuro.
Una struttura rimasta per vent’anni inutilizzata e che dalla prossima estate potrebbe, grazie a questa riqualificazione, diventare un centro pulsante di attività finanziarie e portare uno sbocco all’economia della capitale in termini di indotto ed occupazione lavorativa ( solo Eataly garantirà uno sbocco occupazionale a 400 giovani). Per quanto attiene gli oneri concessori sono stati versati ad oggi 500 mila euro: forse al termine dei lavori, una volta arrivata la concessione edilizia del Comune, potrebbero addirittura triplicare rispetto al milione di euro previsti inizialmente. Tutti fondi che verranno reinvestiti per le infrastrutture dello stesso municipio XI.
Le polemiche sollevate in questi giorni relative lo svolgimento dei lavori (per quanto legittime e fondate perché è sicuramente corretto aspettare i documenti necessari per continuare i lavori a pieno regime) probabilmente sono state eccessive a fronte di uno stato di abbandono che perdura da più di dieci anni. Venerdì scorso la richiesta di condono edilizio è stata integrata con i documenti mancanti e l’avvallo dell’ufficio condoni del Comune dovrebbe arrivare entro i primi di maggio. Una empasse amministrativa che verrà pertanto risolta a breve e sembra dunque mettere fine alle discussioni di questi giorni.
Questa vicenda, tuttavia, ha posto nuovamente in primo piano quali siano le difficoltà del “fare impresa” nel nostro paese, dove i progetti di riqualificazione spesso vengono bloccati dai ritardi istituzionali. Pertanto non dovrebbe meravigliare l’assenza di investimenti da parte di imprenditori stranieri in Italia. Inoltre sarebbe interessante capire il motivo per cui determinate polemiche coinvolgono solo alcuni imprenditori tralasciando invece altri. Nel caso specifico della capitale e rimanendo sempre nel comparto della distribuzione alimentare, un paragone potrebbe essere effettuato con la contestuale costruzione del megastore Esselunga. La struttura dovrebbe essere realizzata nell’area periferica di Roma sud, sulla strada che conduce verso il litorale di Ostia, la stessa zona in cui sono stati ingenti i danni dell’alluvione dello scorso ottobre: i 100 mila metri cubi del centro sorgeranno a pochi metri dal quartiere dove c’è stata una vittima il giorno dell’alluvione e in cui è stato riscontrato un elevato rischi idrogeologico del terreno. Perché in questo caso si parla dell’argomento solo nella stampa locale, a proposito delle perplessità degli abitanti del XIII Municipio, mentre invece le polemiche a livello nazionale non sono ancora scoppiate?
A quanto ammonta il danno economico prodotto dal giro d’affari sommerso della malavita organizzata? In questi in giorni in cui la lotta all’evasione fiscale si è inasprita fortemente non è un quesito fuori luogo. A giudicare dai beni immobili e dai patrimoni che ogni anno vengono confiscati a mafia e camorra, l’introito sottratto annualmente alle casse dello Stato non è di certo irrisorio. Secondo una statistica stilata dalla neonata Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, sono 11.954 le proprietà sottratte alla gestione malavitosa, di cui 10.438 sono immobili e 1.516 aziende. Tutti edifici, terreni e attività che divengono di proprietà della Stato, il quale è chiamato a riqualificarli ed eventualmente a riconvertirne le funzioni.
Grazie alla legge 109 del 1996, i patrimoni sottratti vengono riconvertiti ad un uso sociale: nella maggior parte dei casi la riconversione prevede che all’interno di questi terreni sorgano delle vere e proprie cooperative agricole dove vengono impiegati giovani e ragazzi che faticano a trovare occupazione soprattutto nel Mezzogiorno. Il metodo delle indagini patrimoniali e bancarie sui capitali mafiosi viene avviato, per la prima volta, da Falcone e Borsellino e da allora i beni patrimoniali dei boss, prima sequestrati e poi confiscati, divengono, una volta riconvertiti, armi di riscatto economico e sociale per aprire un futuro alla fascia più disagiata, quella dei giovani oppressa dalla disoccupazione e dalla mancanza di prospettive. Questo attraverso l’aiuto e l’impegno di associazioni che operano sul territorio nazionale, come Libera, nata nel 1995 e che ha sede a Roma, proprio in uno delle case espropriate ai boss della banda della Magliana, che da quest’anno è stata anche inserita dal The Global Journal nella classifica delle migliori 100 Ong del mondo.
Tuttavia la quantità di beni che arrivano in gestione allo Stato è spesso difficile da gestire: la sola destinazione sociale sembra essere insufficiente per rivalorizzare nel suo complesso tutta la mole di edifici e terreni di cui lo stato diviene proprietario. Ed è proprio in vista dello sfruttamento di ogni potenzialità di questi beni, al fine di trasformarli in opportunità di lavoro, che in questi giorni il governo Monti ha presentato nel decreto semplificazione la proposta di poter dare in concessione i beni confiscati e sequestrati a cooperative di giovani sotto i 35 anni al fine di sviluppare attività turistiche, come agriturismi. Una possibilità di sviluppo che ha in sé tutti i presupposti per il rilancio del settore turistico- fonte di guadagno principale soprattutto nel sud Italia – e per l’imprenditoria giovanile. Si tratta di un’apertura alla dimensione imprenditoriale e produttiva attraverso le agevolazioni al credito bancario per gli under 35 che piace anche alla stessa associazione Libera: “Abbiamo accolto con favore la proposta soprattutto perché si tratta di un ulteriore incentivo per creare un futuro occupazionale per i ragazzi- afferma Davide Pati, responsabile del settore Beni confiscati per conto di Libera– Noi chiediamo al Governo proprio questo: maggiore impegno per favorire tutti questi progetti di riscatto. Il prossimo passo in avanti è quello di togliere tutti quei lacci amministrativo-burocratici che impediscono il pieno sfruttamento del bene, come le ipoteche o il degrado provocato dall’abbandono. In questo senso bisognerebbe anche aumentare le risorse, non solo economiche ma anche di personale, all’interno della nuova Agenzia per i beni confiscati: si tratta infatti uno strumento utile per creare le condizioni affinché la mafia non riprenda il possesso di questi beni.”
Un’ulteriore strada da percorrere, quindi, per evitare che il degrado, l’incuria o la burocrazia porti alla perdita di questi beni, che spesso sono rimasti occupati dai vecchi proprietari o abbandonati proprio perché difficili da riqualificare per mancanza di fondi. Ora, come chiede Libera, bisogna mettere in campo tutte quelle azioni concrete affinché questa idea per favorire l’imprenditorialità giovanile si realizzi nella realtà quotidiana.
Creare un precedente che valga come esempio per situazioni analoghe sparse per l’Italia, trasformando in un museo dell’arte moderna e contemporanea una ex-caserma dismessa in abbandono: è questo il progetto ideato a Mantova per l’edificio che ospitava il convento cinquecentesco dei carmelitani, diventato poi caserma, in Largo XXIV maggio e portato avanti dall’associazione MAC (Mantova arte contemporanea) e dal suo presidente, l’architetto Eristeo Banali. L’edificio è chiuso dagli anni’80 e versa ormai in condizioni di degrado, il che rappresenta un vero spreco, considerato il valore artistico della struttura e la posizione strategica in cui si trova, a ridosso del tempio di San Sebastiano – a cui sino al 1925 era connesso – in un’area di pregio circoscritta tra la casa del Mantegna, palazzo Te e palazzo San Sebastiano. Alla denuncia dello stato di incuria quindi è seguita una petizione on-line promossa dall’Associazione MAC e dalla Gazzetta di Mantova per la realizzazione del museo all’interno dell’edificio monumentale abbandonato che si estende su tre livelli. Il progetto di recupero è stato delineato in un documento redatto dalla stessa Associazione ed inviato alle istituzioni, dove è prevista la creazione di un polo museale meridionale che comprenda il museo e tutti gli edifici di valore artistico adiacenti. “Il primo a promuovere l’idea del museo fu il critico d’arte mantovano Francesco Bartoli, che raccolse la provocazione del futurista Boccioni, il quale riscontrò la necessità di una galleria d’arte moderna già nel lontano 1916” racconta l’architetto Banali, che dell’associazione MAC è il fondatore e promotore. Della nascita a Mantova di un museo d’arte contemporanea, sino ad oggi assente e volto a valorizzare il patrimonio pubblico, si discuteva quindi sin dagli anni’80 nelle riunioni del comitato di gestione del Museo di Palazzo Te, presieduto all’epoca da Francesco Bartoli: nacque così “Il sogno di Bartoli”, a cui sono ispirati i principi dell’associazione. L’iter del progetto prevede due convegni, uno fissato per l’autunno del 2012 e il secondo per la primavera del 2013, che saranno due momenti di studio fondamentali per definire l’evoluzione del futuro spazio museale. Due tappe per riunire studiosi ed esperti che apportino il loro contributo su come ripensare globalmente l’intera area. “Che l’edificio abbia una destinazione culturale è stato stabilito dal piano regolatore in vigore e auspichiamo che questo venga confermato nel nuovo PRG” continua Banali. Una volta completati i lavori di ristrutturazione e allestimento delle sale museali, un ulteriore passo sarà quello di trasformare l’associazione MAC in una fondazione vera e propria, che non si occuperà da sola dell’area: l’obiettivo è quello di coinvolgere insieme al comitato scientifico, non solo il Comune e la Regione, ma anche lo Stato (proprietario del sito) come soggetto gestore e privati che ne finanzino la ristrutturazione, affinché l’iter della genesi di questo museo diventi un riferimento esemplare da replicare in altri siti, caserme o edifici dismessi dal demanio e intorno a cui è forte il rischio di speculazioni edilizie.
Approfondimenti:
Mantova Arte Contemporanea
http://www.mac-francescobartoli.it/index.php
Eva quando prese la mela dall’albero e la offrì ad Adamo, fece cultura. La prima madre che svezzò il suo bambino con delle bacche che aveva scoperto commestibili, fece cultura. Il primo uomo che appuntì un sasso per cacciare e quindi mangiare, fece cultura. Il primo uomo che incise sulla roccia un bufalo per comunicare che lì c’era da cacciare e quindi da mangiare, fece cultura. Il primo uomo che si rese conto che la carne di animale era gustosa, fece cultura.
Il primo uomo che fece due buchi su un uovo di dinosauro, lo bevve e consigliò al suo clan di fare lo stesso, fece cultura. Il primo uomo che sfregando due legnetti provocò una scintilla con la quale accese un fuoco su cui cucinò la carne dei bufali, fece cultura. Il primo uomo che, arrabbiato per il bufalo che gli era appena scappato, maciullò con le mani alcune olive e si accorse che potevano essere un buon condimento per la carne di bufalo, fece cultura.
Il primo uomo che dopo un’indigestione di carne di bufalo, provvide ad avvertire gli altri che non bisognava mangiarne troppa, fece cultura. Il primo africano e il primo indoeuropeo, che si scambiarono i loro diversi cibi, fecero cultura.
Dal che si deduce, contrariamente a chi afferma l’opposto, che con la cultura si mangia eccome, talvolta meglio talvolta peggio, ma si mangia.
Andrea Camilleri
Per rispondere a chi nel governo crede che con la cultura non si mangi, Andrea Camilleri scrive l’elenco dei motivi per cui con la cultura si mangia eccome bene. L’elenco smonta con grande naturalezza un assunto privo di fondamenta, ponendo l’accento sul fatto che la cultura è un fatto speculativo e insieme strumento di sopravvivenza, questione di emancipazione, crescita e sviluppo. Sottolineando il valore culturale del cibo, del suo potere dialogico di scambio, della sua proverbiale essenza coesiva, ZUP Zuppa Urban Project-Azioni Culturali nel Territorio, progetto culturale di “partecipazione e rigenerazione urbana”, nasce proprio all’insegna della considerazione che con la cultura si mangia. Il Gazpacho della Torre, la Zuppa Paesana al profumo d’Oriente, Peripaese, Sironi con estro, la Vellutata di Lattuga Piccante, la Frittata tra Viale Jenner e Maciachini, Energia dolce di Dergano sono le fantasiose quanto mai colorate zuppe i cui ingredienti sono il cibo, la creatività, il territorio. La zuppa, centro simbolico e ricreativo del progetto, diviene pretesto per raccontare il quartiere e le persone che vi abitano e offrire nuovi spunti per l’utilizzo degli spazi pubblici, ripensati secondo modalità conviviali e aggregative.
Intervista a Noemi Satta
ZUP Zuppa Urban Project-Azioni Culturali nel Territorio è un progetto culturale alla sua prima edizione che concepisce la fusione e la fruizione di cibo e territorio in maniera creativa e aggregativa. In virtù di quali esigenze nasce tale progetto, come si è venuta a creare la collaborazione tra lei e Myriam Sabolla?
Il progetto nasce grazie ad un gruppo di lavoro nel quale gioca, oltre alla mia esperienza decennale come consulente di marketing culturale e territoriale e di processi di partecipazione, la stretta collaborazione con Myriam Sabolla, con la quale abbiamo dato vita ad un sodalizio professionale sui temi della rigenerazione territoriale e urbana mediante modalità creative e culturali. Del gruppo fanno parte anche Claudia Acunzo e Maria Chiara Ciaccheri. Claudia ha contribuito alla comunicazione e all’elaborazione dell’immagine grafica, parte importante del nostro progetto. Maria Chiara Ciaccheri ci coadiuva nella progettazione dei laboratori e dei workshop esplorativi di mappatura territoriale che portano alle fasi di partecipazione e coinvolgimento culturale.
Una nota particolare la merita l’immagine del “cucchiaio” e i gadget che lo riproducono, grazie ai quali avviene il passaggio d’informazioni, si stimola l’aggregazione di persone, la comunicazione, il coinvolgimento e il far parte di un progetto. Il brand è volutamente usato come agente per il micro finanziamento, per la definizione di relazioni e reti, per la comunicazione virale e tramite il social web. Il progetto nasce dall’idea di utilizzare la zuppa come metafora di ciò che accade in una città: come la città è l’insieme di fenomeni culturali e sociali diversi, così la zuppa è un piatto diffuso in ogni cultura ed è il frutto del mescolamento di ingredienti e sapori sempre differenti. E’ vero che ZUP Zuppa Urban Project ha a che vedere con il cibo e il territorio, con la creatività e l’aggregazione, però per noi il cibo è un punto di partenza metaforico, elemento d’ispirazione, che poi diventa strumento e modalità operativa.
Fare cultura in Italia ha spesso a che vedere con il cibo e la ristorazione. Perché le persone attraverso la zuppa, pietanza contadina, piatto povero, miscellanea di sapori, si riappropriano della propria città e del senso di appartenenza legato ad essa? Cioè, in che modo si viene a creare “partecipazione e rigenerazione urbana”?
Ci sono delle azioni chiave che permettono di andare alle radici di questo progetto, che noi definiamo di pedagogia dello sguardo, e di comprenderlo meglio.
Tra queste: l’esplorazione del territorio, attraverso la quale riosservare la città, scoprendone gli aspetti ancora sconosciuti, per averne attenzione, rispetto, cura; la riappropriazione dello spazio pubblico, che passa prima di tutto da una rinnovata consapevolezza degli spazi di incontro e di aggregazione e dal raffronto con la cucina (da intendersi sia come atto del cucinare che come ambito proprio della dimensione domestica); l’uso creativo dello spazio pubblico, che avviene attraverso il riconoscimento di quegli ingredienti salienti di un quartiere, tali da costituire una “zuppa da gustare”, e cioè storie, cultura e creatività da vivere; quest’ultimo punto fa maturare come conseguenza una maggiore qualità della vita in città, proprio grazie alla reinvenzione dello spazio pubblico, che diventa anche costruzione collettiva culturale.
Proprio il prossimo 21 maggio verrà organizzato un itinerario che coinvolgerà tutta la cittadinanza: per il quartiere ci saranno gli zupstop, realizzati grazie ad una rete associativa e commerciale di operatori e ristoratori della zona che hanno aderito al progetto. Si degusteranno le zuppe, si svolgeranno delle attività volte a mappare il verde spontaneo dei parchi del quartiere, e i cittadini saranno stimolati all’adozione di porzioni di verde attualmente non vissute o abbandonate. Ecco, in questo modo si crea partecipazione, aggregazione, coinvolgimento e riappropriazione del territorio.
La prima edizione del progetto si è svolta a Milano, nel quartiere di Dergano; sono previste altre edizioni, magari anche in altri centri urbani italiani, proprio per riscoprire ed esaltare tradizioni locali diverse?
Abbiamo deciso di realizzare questa prima edizione di ZUP Zuppa Urban Project-Azioni Culturali nel Territorio nel quartiere di Dergano. Quest’area di Milano ha delle caratteristiche che la rendono particolarmente attraente: prezzi degli affitti ancora accessibili, ricca realtà associativa e nuove presenze imprenditoriali creative, giovani coppie e famiglie che vanno a stratificarsi con i vecchi e nuovi cittadini milanesi.
A nostro avviso questo è un format di lavoro applicabile ad ogni realtà urbana. È un progetto metropolitano, che lavora modularmente sul quartiere e che vogliamo riproporre in altre zone di Milano e in altre città d’Italia interessate a riflettere sull’uso dello spazio pubblico e sulla reinvenzione creativa. Recentemente, inoltre, abbiamo presentato il progetto all’interno di ItaliaCamp. La tua idea per il paese, contenitore dalla risonanza molto forte.
Cosa ne pensate di quelle iniziative (Slow food, Terra madre, Love difference..) che in Italia, secondo diverse modalità, intendono stimolare una visione critica, sostenibile e responsabile del cibo, della terra, del mangiare?
Slow food e Terra madre lavorano sulla consapevolezza e sulla cultura del cibo in Italia, mettendo in luce la questione dell’aspetto produttivo e lavorando per una migliore relazione con l’aspetto commerciale e distributivo che valorizzi il rapporto tra l’atto del mangiare e del produrre. Ciò che ci accomuna è l’accento posto sul tema della consapevolezza, tra cibo e territori, e sul rispetto di alcuni ritmi di produzione che non devono snaturare il prodotto che arriva in tavola. Tuttavia ci sono delle sfumature: noi non ci concentriamo sul “tipico”, la zuppa non è tipica di Milano. Anzi, per noi è importante il “tipico” contemporaneo, in quanto capace di coinvolgere gli abitanti del quartiere, capire e rappresentare ciò che li circonda. In modo traslato, questo progetto genera consapevolezza su ciò che la città produce; è la costruzione di un ecosistema di contaminazioni e scambi culturali che crea la zuppa, i cui ingredienti diventano a loro volta generatori di creatività. Love Difference, a sua volta, valorizza la dimensione creativa che nasce dall’incontro di artisti e figure professionali diverse, che ragionano sulle possibilità che il cibo ha di mettere in relazione le persone. Con Love Difference abbiamo spesso collaborato su progetti riguardanti lo scambio e la costruzione di relazioni legate alla consapevolezza, al rispetto del territorio e delle differenze.
Per noi, come per Slowfood, Terra madre o Love difference, il cibo non può essere recinto né a Milano, né in Italia, né altrove.
Qual è stata la risposta dei cittadini a questa prima edizione di ZUP Zuppa Urban Project-Azioni Culturali nel Territorio e in che modo le istituzioni locali vi hanno partecipato?
Stiamo coinvolgendo i cittadini a cerchi concentrici e con modalità differenti. Da una parte lavoriamo sui numeri relativamente piccoli: azioni-incursioni (pranzi di cortile, visite narrate di quartiere, laboratori di esplorazione e mappatura del paesaggio verde e urbano) che per essere efficaci non possono che coinvolgere dei gruppi relativamente ristretti; dall’altra aumentiamo il reticolato dei cittadini nel progetto, perché non vogliamo limitarci agli abitanti del quartiere, ma rivolgerci a tutti i cittadini.
In questo ha dato un valido sostegno la copertura stampa ottenuta: a partire da “Nova” del Sole24ore, dedicato alla creatività e all’innovazione, alla free press “Zero”, dedicata a ciò che succede in città, sulle agende locali dei giornali a tiratura nazionale, fino ai vari blog.
Anche la partnership che abbiamo costruito con “Terre di mezzo” ci ha dato grande visibilità, l’essere stati pubblicati sulla loro newsletter significa raggiungere circa 10000 persone.
E ancora tutti i momenti preparatori, da noi chiamati Pillole di Zup, sono stati funzionali all’informazione e comunicazione del progetto. In tal senso Pillole di Zup è servito alle relazioni con le altre associazioni, ma è stato anche un momento di crowd sourcing e crowd funding.
Il tema del finanziamento è strettamente legato a quello del coinvolgimento e comunicazione, per un progetto come Zup che non nasce su commissione istituzionale.
Per quanto riguarda il coinvolgimento delle istituzioni locali, infatti, in questo momento abbiamo il Patrocinio del Consiglio di Zona e del Comune di Milano e abbiamo intessuto una relazione importante, che ormai dura da più di due anni, con il Politecnico di Milano (Dipartimento del Design della Comunicazione).
Una delle tappe della giornata del 21 maggio sarà proprio la visione dei documenti audio-visivi sulla trasformazione della città e del quartiere realizzati dagli studenti del Politecnico.
Approfondimenti:
www.noemisatta.com
www.progettozuppa.wordpress.com
progettozuppa@gmail.com