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L’epopea di Banksy a New York è finita. 31 giorni trascorsi nella Grande Mela sono bastati all’anonimo artista di strada per far parlare di sé la stampa internazionale e la gente comune che ne ha seguito l’eroiche gesta da supereroe graffitaro.
Alla fine della sua vicenda americana, quello che resta è la sensazione, spiacevole e rassicurante insieme, che l’arte di strada si conferma un outsider rispetto al senso comune e ai cliché precostituiti. Il rischio corso dallo street artist di Bristol era quello di piegarsi alle leggi di mercato con delle operazioni di marketing plateali, con delle “performance” che poco avessero a che fare con l’arte e con la strada.
E invece no. L’ultimo messaggio di Banksy è stato molto chiaro: un palloncino svolazzante sulla Long Island Expressway che raffigura le lettere bombate della sua firma, e un appello a salvare 5Pointz, un capannone nel Queens le cui pareti sono ricoperte dalle firme creative di straordinari graffitari che rischia di essere demolito per lasciare spazio a un residence di lusso.
Nell’ultima audio guida, posta a commento della sua esibizione del 31 ottobre, Banksy invita a non istituzionalizzare l’arte demandandola a chiese, istituzioni o cartelloni pubblicitari. L’arte vera è quella fatta in strada, libera e anticonformista, l’arte che non serve a decorare ma che semplicemente e con potenza “è”.
New York è una città audace, ma rischia di essere inghiottita anch’essa dal perbenismo e dall’ipocrita buon senso. Banksy aveva già espresso questo parere sulla città che non dorme mai il 27 ottobre, scrivendo un articolo mai pubblicato per il New York Times: il One World Trade Center, il grattacielo in costruzione che sostituisce le Torri Gemelle dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, non è che una dichiarazione della “perdita di nervi” di una città che dovrebbe puntare su ben altro per attestare la propria capacità di ricrescita e la propria coraggiosa natura.
E così, anche dopo il bagno di popolarità newyorchese, Banksy si conferma un personaggio scomodo. Le sue opere sono state cancellate e denigrate, la sua identità è stata ricercata con morbosa curiosità, il suo nome e la sua attività sono diventate per un mese le sorvegliate speciali della polizia di New York. Il sindaco Bloomberg ha definito l’arte di Banksy uno dei tanti modi con cui deturpare delle proprietà private. L’artista mascherato ha eluso, però, tutti gli ostacoli che si sono frapposti al suo traguardo e ne è uscito vincitore.
Oltre a dare una bella lezione di stile e humor a critici bigotti e ortodossi, è riuscito anche nell’intento di prendere in giro il mercato dell’arte. Lo ha fatto prima vendendo originali delle sue opere a Central Park, senza che nessuno ne fosse a conoscenza, poi dando in dono al negozio dell’usato per beneficenza, Housing Works, un suo lavoro che è stato messo all’asta online per più di 600 mila dollari. Si tratta di un quadretto pastorale che l’artista aveva acquistato dal negozio stesso a 50 euro, e che aveva rivisitato inserendovi un soldato nazista che siede pensieroso su una panchina. I soldi ricavati dalla vendita andranno a senzatetto e malati di Aids.
A conclusione di questi 31 giorni di creatività, ironia, originalità, arte, mistero e anticonformismo non possiamo che sperare in una nuova serie di irriverenti performance artistiche ad opera di Banksy o di un suo coraggioso imitatore… chissà dove, chissà quando.
Venezia, i suoi canali, la magia delle strade strette e tortuose che si aprono su spazi vasti e maestosi, sul mare, su monumenti incredibili come la Basilica di San Marco. Bastano pochi elementi, fondamentali però, a rendere una città unica.
Se, poi, quegli stessi luoghi speciali sono celebrati da una mostra esclusiva il tutto diventa ancora più magico e accattivante.
E’ il caso di “Gero qua Canaletto”, la mostra che avrà luogo a Venezia dal 10 novembre al 27 dicembre. Non è un’esposizione come tutte le altre però. Tre componenti contribuiscono a caratterizzarla come unica nel suo genere.
1) L’opera: l’esposizione è focalizzata su una particolare veduta del Canaletto, “L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute”. Si tratta di un olio su tela dalle dimensioni importanti, 72 x 112,5 cm, che ritrae uno scorcio particolare della città lagunare: inizialmente l’occhio incontra le architetture del Tempio del Longhena, poi si sofferma sui Magazzini del Sale e la Punta della Dogana, il Gran Canal, il Palazzo Ducale e la Riva degli Schiavoni. Il tutto inframmezzato dalle scene di vita quotidiana che riempiono la veduta arricchendola di dettagli: le gondole del Bacino di San Marco, le barche, i passanti di cui si riescono a percepire persino le fatture dei vestiti. Si tratta di un’opera poco esposta, concessa in prestito dalla collezione Terruzzi della quale esistono altri due esemplari: uno fa parte della collezione privata della regina d’Inghilterra, l’altra si può ammirare al Louvre.
2) La location: la mostra è ospitata nella Abbazia di San Gregorio, un edificio insolito e complesso che è stato a lungo dimora dei monaci benedettini, ma che ha anche ospitato la Raffineria Pubblica dell’Oro della zecca veneziana, ed è stata intaccata durante le peripezie della guerra. È stata poi la famiglia Buziol ad acquistarla e restaurarla, ripristinandone l’antico fascino.
“Gero qua” significa “ero qui” in dialetto veneziano e pare, infatti, che sia proprio qui che Canaletto abbia realizzato la sua monumentale veduta, abbia studiato proporzioni e prospettive. Il visitatore può mettersi nei panni dell’artista e fare un confronto diretto opera-realtà da un punto di vista unico. Il resto della location è arricchito da altri elementi multimediali, che rendono la visita un’esperienza multisensoriale ed emozionale. Un film d’autore, realizzato dal regista e sceneggiatore Francesco Patierno, introduce la visita e il percorso spazio-temporale offerto dall’esposizione.
“Tutte le opere realizzate all’interno, in studio, non saranno mai tanto belle quanto quelle realizzate all’esterno”. Con questa frase di Paul Cézanne si presenta il progetto Better Out Than In dell’ormai celeberrimo Banksy. Questo misterioso street artist di cui non si conosce l’identità sta invadendo per un mese la città di New York, trasformandola ogni giorno in una sorta di parco giochi artistico, di scatola delle sorprese, di scenario per una caccia al tesoro gigantesca alla scoperta della sua ultima trovata geniale.
Inutile speculare sulla sua identità. Banksy potrebbe essere un uomo, una donna, un gruppo di artisti, un clochard, un ricco sfondato, un comune borghese, un’entità mistica e ineffabile. Di sicuro è l’eroe mascherato dell’arte contemporanea che prende in giro i potenti e il sistema comune, punisce i prepotenti, difende i deboli e gli emarginati, ruba ai ricchi per dare ai poveri. Il segno che lascia a firma inconfondibile del suo passaggio non è un taglio a forma di Z, né un paio di ali da pipistrello. Ma un’immagine, in genere uno stencil bicromo dal soggetto caustico, sovversivo, ironico, assolutamente accattivante. C’è il ragazzo che lancia fiori come fossero fumogeni, Topolino che cammina a braccetto con l’omino della Mac Donald e un bambino smagrito del Terzo Mondo, un ratto impegnato nelle attività più svariate. Sono queste alcune delle sue creazioni più famose e apprezzate.
A New York, però, Banksy si sta davvero sbizzarrendo. Non solo stencil, ma anche performance, strane installazioni, apparizioni originali, corredate da altrettanto strambe audio guide, reperibili sul sito ufficiale il giorno dopo, o attraverso codici per gli smartphone incisi sui muri accanto. E così è comparso un camion pieno di animali di pezza urlanti, che si aggira per le strade dove hanno sede i mattatoi della città, come forma di protesta contro l’industria della carne.
C’è un palloncino a forma di cuore, ricoperto da cerotti che, come spiega una voce deformata dall’elio, è la rappresentazione dell’animo umano che lotta tra ferite e raffiche di vento. Non mancano, poi, le scritte dal profondo substrato filosofico, ad esempio: “Ho una teoria secondo cui puoi far sembrare profonda qualsiasi frase semplicemente scrivendo il nome di un filosofo morto alla fine. Platone”. È stato avvistato anche un camion che dall’esterno sembra stia per esalare l’ultimo rombo soffocato di motore, ma che all’interno nasconde un giardino mobile da sogno.
Una delle sue ultime invenzioni, però, quella che risale a sabato 12 ottobre, è stata davvero madornale. Un giorno come un altro, in quel di Central Park, un signore attempato, dall’aria comune e banale, si è messo a vendere stampe delle opere di Banksy a 60 dollari, contrattabili. Il suo incasso della giornata è stato di circa 420 dollari. Solo tre persone hanno acquistato: un giovane uomo che ha comprato 4 pezzi per arredare casa a 240 dollari, una donna neozelandese che ne ha voluti due, e una signora che ha optato per due quadretti di piccole dimensioni per i figli, alla metà del prezzo di vendita. Fin qui nulla da stupirsi, niente di strano o scioccante. Se non che, ieri, sul sito ufficiale del progetto newyorchese, Banksy ha dichiarato che le opere vendute erano originali, con tanto di firma e autentica. Tre milionari, quindi, contro le centinaia di persone che sono passate ieri davanti alla innocua bancarella allestita per 4 ore. State fermi sulle sedie, però, niente precipitosi acquisti di voli per New York nella speranza di diventare milionari al prezzo di 60 dollari (più spese). Banksy ha precisato, anche, che la fortunata svendita è stata solo per un giorno e non si ripeterà più… Forse.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=zX54DIpacNE]
Siete appassionati di design innovativo, contemporaneo, spiritoso e creativo? Allora l’ Operae. Independent Design Festival di Torino è il posto che fa per voi. Si tiene ai Cantieri OGR dall’11 al 13 ottobre e queste sono alcune delle creazioni che espone al pubblico.
Sedie, lampade, sgabelli, elementi d’arredo per la cucina, il salotto, la camera da letto, opera di designer e artisti nazionali e internazionali della scena contemporanea, risultano un piacere per gli occhi e i gusti dei visitatori del festival. E se poi c’è un oggetto che vi è piaciuto più degli altri… potrete pure acquistarlo!
Quelle che vi proponiamo sono le realizzazioni di:
1) Digimorphé
2) Dorodesign
3) Federica Bubani
4) Friday Project
5) Glimpt
6) Ilaria Innocenti
7) Jamais Sans Toi
8) Johnny Hermann
9) Lith Lith Lundin
10) Livia Polidoro
11) Manuel Netto
12) Marco Guazzini
13) Officina82
14) Philipp Beisheim
15) Piktur
16) Teste di legno
17) ZPSTUDIO
Quante persone incontriamo ogni giorno per strada? Ci sfioriamo appena, scambiamo uno sguardo furtivo, camminiamo accanto condividendo lo stesso passo veloce con decine di sconosciuti al giorno. Spesso ci chiediamo chi sono, cosa fanno, dove vanno, che passato si portano alle spalle, verso quale futuro si dirigono.
Les Voyageurs di Bruno Catalano sembrano materializzare questo rituale quotidiano che tutti noi viviamo, ogni tanto con indifferenza, qualche volta fermandoci a riflettere. Le sue sono sculture incomplete di viaggiatori, di gente con la valigia in mano e il passo svelto. Sono frammenti di vita che ci passano accanto, dei quali cogliamo solo i tratti più importanti, il volto e quelle borse appendici delle mani, che catturano gli sguardi.
Le sculture bronzee di Bruno Catalano, famosissime ormai in tutto il mondo, affascinano proprio per il senso di incompletezza che trasmettono e che ciascuno di noi si porta dietro. Colpiscono lo spettatore grazie allo sforzo di immaginazione che gli impongono per completare quei pezzi di vita a metà, con gli occhi, con la mente e con le emozioni.
Non a caso, Les Voyageurs sono state scelte da Marsiglia per celebrare il titolo di Capitale europea della Cultura 2013 e saranno esposte nel porto della città, luogo emblematico di arrivi e partenze, fino al 30 settembre.
Per saperne di più su Bruno Catalano e il suo lavoro è possibile visitarne il sito ufficiale.
È uno dei luoghi più frequentati, amati e odiati, calpestati, bistrattati, derisi, cercati, bramati in alcuni casi, evitati in altri, osannati e deprecati, di ogni giorno. Tutti, ricchi, poveri, belli, brutti, atei, religiosi, maschi e femmine, ci abbiamo messo piede più di una volta nella vita. Si tratta proprio di lui: il celeberrimo bagno – anche noto come wc, toilette, servizio igienico – oggi di nuovo sotto le luci della ribalta, a causa di una mostra d’arte contemporanea.
Tutto è cominciato ormai quasi un secolo fa con l’opera destinata a cambiare il corso della storia dell’arte. Era il 1917 quando Marcel Duchamp propose alla giuria della Society of Independent Artists di New York un orinatoio, presentato come l’opera “Fontana” di un certo Mr. Mutt. I membri della giuria non capirono l’essenza di quell’oggetto e si rifiutarono di esporlo. Duchamp fingendo di difendere l’artista, spiegò il significato dell’opera dalle righe di un giornale che ne aveva pubblicato una foto: “non è importante se Mr. Mutt abbia fatto “Fontana” con le sue mani o no. Egli l’ha scelta. Egli ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista. Ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto”.
L’operazione compiuta da Duchamp non è molto diversa da quella attuata dai due giovanissimi artisti italiani, Giorgio Di Palma e Dario Miale, classe ’81 e ’85, che hanno organizzato a Grottaglie, in Puglia, la mostra “Cacate”. Solo che quelle che i due artisti espongono non sono ready made – opere d’arte “prefabbricate” ottenute prendendo un oggetto di uso quotidiano e presentandolo come arte. Sono forme artistiche nate dal loro estro creativo, frutto della loro ispirazione artistica.
Giorgio Di Palma, archeologo con un passato da tecnico informatico a Budapest, ha reso omaggio al bagno, con una serie di manufatti in ceramica, colorati, spiritosi, originali, che ritraggono oggetti che usualmente trovano posto in bagno: uno stura lavandino, un asciugamani, un paio di zoccoli.
Dario Miale, fotografo per tradizione di famiglia, ha passato tre giorni appostato nei bagni pubblici della piazza di Grottaglie, immortalando i suoi frequentatori nei loro momenti più intimi e autentici: una “sessione di riflessione”, una pausa allo specchio per truccarsi, una lavata energica alle mani. Dove siamo più noi stessi se non nel luogo che maggiormente ci riconduce alla nostra essenza fisiologica?
Nella scelta di allestire “Cacate”, Giorgio e Dario mostrano di avere in comune con Duchamp il fattore “scelta”, la volontà di eleggere il bagno pubblico a scenario e protagonista della loro arte con lo scopo, come loro stessi hanno dichiarato, di “far mettere piede nel sudicio altrui a tutti, anche a chi piuttosto di entrare preferisce farsela sotto”.
Di Palma e Miale, quindi, esporranno le loro opere nella location più appropriata: i bagni pubblici, o “piscialora” nel dialetto di Grottaglie, del Castello Episcopio della loro città. L’ingresso è ovviamente gratuito e le visite sono possibili dal 31 agosto all’8 settembre. Con buona pace di chi storce il naso di fronte a una cotale dissacrazione dell’aureolata arte.
D’altra parte, da un po’ di tempo a questa parte, si fa arte con davvero tutto. E se può far sorridere il provocatorio e autoironico titolo dato alla mostra, non saranno di certo le opere esposte in “Cacate” a lasciare a bocca aperta i tradizionalisti dell’arte. Il bagno, poi, ha ormai da tempo oltrepassato i limiti del proibito nel mondo artistico. È di qualche anno fa la mostra fotografica di Alessandro Formenti, esposta a Milano, “Love Toilet”. A Metz, in Francia, fino al 30 giugno 2013 era possibile imbattersi nella mostra itinerante “W.C. National”: 35 artisti di tutto il mondo hanno deciso di esporre le loro opere nei bagni di bar e ristoranti della città, per invitare, provocando, a riscoprire un rapporto più diretto con l’estetica e con l’arte. E poi ancora, nell’ambito del Fuori Salone di Milano, sono stati esposti da Gessi “I Bagni del mondo”, sette installazioni che ripropongono in modo creativo le atmosfere e il design dei bagni del Mediterraneo, di New York, Scandinavia, Bali, Russia, Giappone, Marocco.
Nessuno scandalo, dunque, dietro “Cacate”. Solo il frutto di una genuina (e strategica?) ispirazione artistica. Da visitare.
Mummie e totem, anatemi, fatti strani, leggende misteriose e tesori nascosti in deposito, tutti i musei del mondo forse riservano qualche segreto, piccolo o grande, da celare con cura agli occhi dei loro visitatori. Poi accade, però, che il segreto in qualche modo si svela, viene fuori e i riflettori per un po’ rimangono puntati addosso a quel museo. Suggestioni? Fandonie? Mezze verità? Retaggi reali di un passato di riti e maledizioni? Chi lo sa. Quel che è certo è che, ogni tanto, qualcosa di bizzarro in un museo succede. Vediamo i 5 eventi più strani accaduti nei musei italiani e internazionali.
1. Cominciamo con i recenti fatti capitati al museo dell’Università di Manchester, che hanno riaperto il capitolo mai chiuso dei “misteri museali”. Una statuetta egizia di 4000 anni fa, da un po’ di tempo a questa parte, in certi momenti gradisce cambiare visuale, girandosi di 180 gradi. Non sono servite le spiegazioni di un fisico a far rientrare nella normalità l’episodio: secondo Brian Cox sarebbero i passi dei visitatori, con le loro vibrazioni, a causare il movimento della statua. Questa, però, in ottant’anni non aveva mai deciso prima di cambiare posizione.
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2. Qualche tempo fa, al Museo Archeologico di Napoli pare che si aggirassero degli spiriti che, misteriosamente, spostavano secchi di acqua e li svuotavano, o rompevano reperti preziosi, sotto gli occhi stupefatti degli operai che lavoravano lì. Persino una foto è stata scattata alle dispettose presenze evanescenti che avevano le sembianze di una bambina. Il mistero di Napoli si dice, poi, che sia stato spiegato e giustificato con l’utilizzo di un’app “crea fantasmi”. Ma questa è un’altra storia.
3. Scende molto più in profondità, invece, la tradizione di stranezze ed enigmi che riguarda il museo egizio di Torino, nonché l’intera città sabauda. Sono stati registrati più volte episodi di malori e svenimenti di visitatori o scolaresche in seguito alla visita della collezione egizia. E secondo alcuni, potrebbe non essere un caso se proprio a Torino si trovi il museo di reperti provenienti dall’Egitto più grande del mondo, secondo solo a quello del Cairo. La religione egizia, infatti, è strettamente legata all’occulto, al culto dei morti e dell’aldilà, un oltretomba il più delle volte ostile, per affrontare il quale il defunto deve proteggersi ed equipaggiarsi. E proprio a Torino si troverebbe la Porta dell’Inferno, indicata da una freccia rivolta verso il basso, sulla facciata del Duomo. Si narrano anche leggende misteriose riguardanti il Santo Graal o grotteschi mostri che popolano i sotterranei della città, tenuti a bada dai religiosi.
4. Anche fuori dall’Europa, i musei nascondono più di un aneddoto intrigante per i loro ospiti. Il museo di Alcatraz è già di per sé un luogo inquietante, prigione dei più terrificanti criminali della storia. Immaginate, quindi, di partecipare ad una delle visite notturne lì organizzate e sarà facile immaginare perché la gente crede di sentire e vedere (o sente e vede davvero, chissà?) voci, ombre e presenze. D’altra parte cinquant’anni fa tre detenuti sono riusciti ad evadere da quell’inferno di sbarre, ma di loro non sono mai stati ritrovati i corpi, né vivi, né morti, costituendo uno dei casi irrisolti più clamorosi nella storia giudiziaria americana.
5. Meritano una menzione a parte, infine, quei musei che si definiscono “strani” per la natura della loro stessa collezione, decisamente a metà tra il macabro e il kitsch. In una carrellata di stranezze si possono visitare, ad esempio, il museo dei capelli a Kansas City, il museo dei pupazzi da ventriloquo a New Haven, il Mütter Museum di Philadelphia che raccoglie impressionanti reperti anatomici, il Glore Psychiatric Museum in Missouri, che documenta con precisione l’era della lobotomia e dell’elettroshock.
Con tutti questi eventi inspiegabili ed eccentricità intriganti, chi oserà più affermare che i musei sono noiosi?
Si è inaugurato Harlem Room, il nuovo spazio dedicato all’arte contemporanea della storica galleria milanese Montrasio. La notizia si potrebbe anche fermare qui, perché in questo periodo siamo molto più abituati a vedere spuntare negozi di sigarette elettroniche dove prima piccole e grandi gallerie lottavano per difendersi di fronte all’inesorabile omologazione che sta avendo la città di Milano, sempre più uguale a tante altre.
E potremmo (e lo facciamo) elogiare il coraggio imprenditoriale di ampliare i propri spazi (fisici e non) per offrire un palco d’eccezione a giovani artisti in una delle più note gallerie d’arte moderna. Ma la sfida, è chiaro, non è solo imprenditoriale. È anche quella di creare un’immaginaria congiunzione tra le espressioni artistiche moderne e contemporanee, sfida che Daniele Astrologo Abadal e Elisa Molinari (rispettivamente direttore artistico e curatore) vincono senza dubbio puntando sulla giovane e talentuosa Margherita Cesaretti (1982) con la personale Ultimo Presente. Una selezione di sedici scatti, di cui solo sette in mostra, rigorosamente in bianco e nero.
Nella sala (un po’ piccola, ma abbastanza grande da permettere di cogliere lo spirito della serie), le opere dell’artista, il cui soggetto principale e filo conduttore è la Natura, (quella con la N maiuscola, misteriosa, contrastata) sono come piccoli monili che svolgono una funzione apotropaica, ma lo spirito maligno che va allontanato, per una volta, non è una sorta di demone immaginifico ma l’uomo (quello con la u minuscola). Camilleri, in uno dei romanzi dedicati alla saga del famoso commissario, afferma che “il vero segno inequivocabile del passaggio umano è la sporcizia”. L’umanità di cui sono invece pregni gli scatti dell’artista è diversa. È l’umanità di chi riesce a fermarsi, e a godere di quella sospensione dell’incredulità di chi percepisce sé stesso in una dimensione olistica.
Ne abbiamo parlato con l’artista.
Che cos’è il presente, e a quale presente ti rivolgi con le tue opere?
Il presente cui alludo nel mio lavoro è un presente che va intuito con una sensibilità diversa da quella meramente cronologica. È una tensione, verso il futuro, verso l’alto, che rimane congelata in un paradosso, lontano dal famoso Eterno Presente, è la profonda e personalissima ricerca di una consapevolezza di se stessi, in una dimensione atemporale, l’Ultimo Presente appunto, che non si concretizza mai, ma che si risolve finalmente in un’ascensione.
Perché la scelta stilistica del Bianco e Nero?
È il retaggio della mia formazione accademica ed è, in un certo senso, uno dei segni distintivi del mio lavoro. Durante il periodo dell’accademia disegnavo molto e la materia, la carta, il carbone, è come se mi fossero rimaste tra le dita.
Qual è la relazione di questo tuo lavoro con i lavori passati?
Le precedenti serie erano soprattutto di ricerca e di sperimentazione. Con questo lavoro invece sto cercando di concentrare i miei sforzi in un percorso, e lavorare su un tema che mi sta particolarmente a cuore, quello della natura, nella sua dimensione esistenziale, perché per me tutto fa parte di un unicum che pur avendo manifestazioni singolari, è impossibile da prescindere.
Chi credi che possa realmente apprezzare il tuo lavoro?
Coloro che riescono a fermarsi davanti ad una piccola manifestazione della natura e trarne un beneficio personale. Ma anche davanti ad una fotografia. Vorrei che le mie immagini fossero in grado di trasmettere le sensazioni che provo. Un allontanare una storia a sé.
Insomma, per dirla con Baricco: “se proprio ci devono essere degli uomini, che almeno volino. E lontano.”
Vive di vita propria la pittura – “genere” che va stretto al maestro tedesco – di Anselm Kiefer. È rigonfia di materia, sprigiona squarci e sussulti vitali, erutta colori pastosi, terre e legami con una cultura visiva che non ha provenienze culturali specifiche, proprio perché è frutto di processi e contaminazioni così ampie da apparire come un linguaggio universale. Così come globale è il suo approccio alle cose e a tutti quei temi che caratterizzano il nostro tempo, come ad esempio la storia. E in tal senso ci viene incontro una dichiarazione dello stesso Kiefer: “Che cos’è la storia? La storia non esiste in modo obiettivo. È puramente soggettiva. È nelle mani degli artisti, come lo era nelle mani di Dio nella Genesi. È ciò cui, innanzitutto, si deve dare forma. Questo presupposto è fondamentale per accostarsi alla sua mostra personale Der fruchtbare Halbmond / La Mezzaluna fertile in corso nel magnifico spazio milanese di Lia Rumma. I tre piani – praticamente dei loft disegnati con grande rigore formale – della galleria di via Stilicone accolgono l’impeto energico di opere di grande qualità. Non le classiche opere “da galleria”, niente formati relativamente ristretti per assecondare i gusti – e gli spazi – dei collezionisti. Ma opere monumentali, qualcuno direbbe museali, che si caratterizzano per l’accostamento di materiali eterocliti, per l’uso furibondo di lamine arrugginite mixate a pigmenti ferrigni, neri bituminosi e verdi ossidati.
Residui di monumenti, grandi pietre sospese a contatto con la corporeità voluttuosa dei dipinti, libri giganti da contemplare come simulacri di luoghi e epopee atemporali, per ribadire ancora una volta che la forza espressiva di Kiefer non lascia spazio ai margini, ai generi, alle dimensioni, alla storia stessa. Respira autonomamente anche l’installazione che accoglie il visitatore all’ingresso del piano terra: una vecchia macchina tipografica che sprigiona lingue di carta, vere e proprie tracce di una storia da riscrivere, reinventare, senza finalità commemorative, ma con un’energia vitale che contraddistingue l’opera del maestro tedesco anche quando guarda a momenti bui della civiltà, a luoghi ormai distrutti e conosciuti soltanto tramite antiche leggende tramandate per millenni da diverse civiltà. S’intravedono colonne, scale, vegetazioni lussureggianti che lasciano spazio a successive ricostruzioni, a metodi d’indagine che non prevedono di fornire una soluzione, un’interpretazione univoca.
Ma se pensiamo a Milano in relazione all’opera del maestro tedesco – nato nel 1945 a Donaueschingen e residente a Parigi da qualche anno – e all’operatività della stessa Rumma, non possiamo non citare i Palazzi celesti, imponenti architetture che reclamano una contemplazione quieta in quell’altro stupefacente luogo della cultura artistica contemporanea che è l’Hangar Bicocca, dove sono proposti in permanenza dal 2004, anno di fondazione dello spazio espositivo.
Da tanto, praticamente da un secolo, incarna nell’immaginario collettivo l’emblema dell’artista contemporaneo, nonostante siano trascorsi ormai quasi quarant’anni dalla sua morte. O meglio, incarna la “degenerazione” dell’arte contemporanea, con tutto il suo carico di occhi e nasi storti, corpi squadrati dipinti e rivisitati utilizzando punti di vista eterogenei e materiali feriali. Naturalmente parliamo di Pablo Picasso, a cui Palazzo Reale di Milano dedica un’ampia mostra retrospettiva con “capolavori” – così recita il sottotitolo – provenienti dal Museo Picasso di Parigi, in mostra fino al 27 gennaio. Sono i Picasso di Picasso, ovvero le opere che lui conservava gelosamente nella sua casa-studio. Rappresentano un percorso coerente, dagli esordi – con opere giovanili che ribadiscono quella predestinazione alla pittura che è stata sempre sottolineata in merito alla sua ricerca – alle ultime opere, che rivelano senza retorica una vitalità e una carica espressiva sempre esaltanti, nonostante fosse vicino ai cen’tanni. D’altronde è, come dire?, Picasso, il genio riconosciuto dell’arte del XX secolo, il maestro – anche a sua insaputa – di molti, di troppi, e precursore di tendenze, tra cui quella del collage e dell’utilizzo creativo di materiali riciclati, oggi tanto in voga.
È il piccolo dipinto dedicato alla morte del fraterno amico Casagemas, uno dei lavori più significativi del periodo giovanile, ad aprire la prima sezione dell’ampia esposizione. Difatti è l’ordine cronologico a scandire le sale, sempre accompagnate da apparati didattici legati agli step biografici e artistici del maestro spagnolo (è anche disponibile una videoguida da noleggiare all’ingresso della mostra, accanto alla biglietteria). Ma è la celebre Celestina a inaugurare il nucleo di autentici capolavori sparsi nelle sale – allestite con rigore minimale – del primo piano di Palazzo Reale. Opera fondamentale del “periodo blu”, rivela quell’attenzione psicologica e sociale della prima fase della ricerca di Picasso, così come il “periodo rosa” è sintetizzato dal raffinato dipinto intitolato I due fratelli, dove la purezza formale dei corpi giovanili, resi con pochi tratti, si associa a un’attenzione cromatica che poi aprirà per certi versi la strada al capolavoro cubista, Les demoisselles d’Avignon. Del periodo più celebre del maestro ci sono in mostra numerosi dipinti, alcuni di ampio formato, che rivelano una fase di ricerca frenetica, tra spazio e segno, su quella che poi diverrà una delle maggiori tendenze artistiche del secolo scorso. Ma Picasso, si sa, amava stupire, cambiare completamente genere, reinventarsi e soprattutto precorrere i tempi. E così, con un certo anticipo verso quello che poi sarà battezzato Ritorno all’ordine, ovvero quella tendenza a rientrare nei canoni della pittura che caratterizzò l’Europa e non solo degli anni Venti e Trenta, il grande Pablo ritrae il figlio Paul vestito da arlecchino e la compagna Olga su una poltrona fiorita nella sua “classica” compostezza. Ma poi la forma si scompone, la figura quasi si astrae, il segno ritorna veemente, il colore si fa irrealistico. Ed esplode, sempre con declinazioni nuove, la fantasia autentica del genio, in opere-manifesto, ma anche in opere secondarie. Perché naturalmente non si tratta “solo” di capolavori. D’altronde per capire un percorso così eterogeneo c’è bisogno anche di opere “minori”, ma non per questo secondarie rispetto ad una produzione così immensa. E poi ricordiamoci ancora una volta che sono i Picasso di Picasso. Sono quindi opere a cui il mastro teneva di più.
La mostra, promossa dal Comune di Milano e dal suo Assessorato alle attività culturali, è stata concepita con Sole 24 Cultura, che è anche l’editore del bel catalogo – ricco di apparati fotografici e documentari –, e vanta la collaborazione del Museo Picasso di Parigi. La curatela è stata infatti affidata a Anne Baldessari, direttrice dell’istituzione parigina. Nelle prime sale della mostra è invece visitabile la sezione didattica dedicata alla mostra del 1953 ospitata sempre a Palazzo Reale, dove è “tornato” nel 2001. A curarla è lo storico dell’arte italiano Francesco Poli, autore anche di un saggio dedicato a quella celebre mostra – arrivò persino Guernica – che segnò un momento fondamentale per l’Italia (e quindi per gli artisti) di allora.
Annullato lo sgombero e il sequestro del Tacheles a Berlino: a darcene notizia la stessa Barbara Fragogna, artista e curatrice dello spazio tedesco.
Le ultime novità non erano certo confortanti, dato che l’amministratore giudiziario Holger Schwemer aveva imposto agli oltre ottanta artisti di liberare l’edificio, su richiesta della proprietà.
Provvidenziale è arrivato invece il contrordine da parte del giudice, che ha ritenuto illegale l’azione revocando il mandato di sequestro.
Gli occupanti avevano nel frattempo attivato una ferma resistenza vegliando i loro atelires dall’esterno. Solo oggi sono potuti rientrare negli spazi della Tacheles e verificare lo stato delle loro opere, alcune delle quali hanno subito danneggiamenti durante la chiusura forzata dello scorso giovedì.
A premere per tale drastica soluzione il gruppo di investimento Fundus che, servendosi della banca Hsh Nordbank, ha acquistato nel 2008 il Tacheles, sito nel centro cittadino, probabilmente per convertirlo a centro commerciale.
La storia di questo centro artistico in Oranienburger Straße non è mai stata in realtà semplice: più volte infatti si è tentato di demolirne le mura pesantemente danneggiate durante la Seconda Guerra Mondiale; la struttura attuale non è del resto quella originaria, ma è quella sopravvissuta ai diversi interventi di smantellamento.
Il 13 febbraio 1990 un piccolo gruppo di artisti ha sventato il colpo finale per il Tacheles, avviando un’avventura artistica che ha trasformato questo indirizzo in uno degli spazi culturali più vivaci di Berlino, dove ognuno può esporre i propri lavori liberamente, rompendo la rigidità del panorama artistico contemporaneo. Oggi, insieme ai numerosi ateliers e residenze per gli artisti, il Tacheles conta anche un cinema, laboratori, spazi per performance e un caffé, dimostrandosi un esempio perfettamente riuscito di recupero urbano, che attrae anche numerosi turisti.
La battaglia per ora è stata vinta da questi stoici artisti, fermi nel difendere gli spazi che grazie alla loro opera di valorizzazione hanno ritrovato nuova linfa. La guerra è però ancora aperta, e presto c’è da attendersi una reazione da parte della Fundus.
Intervista ai due direttori Chiara Badinella e Fabrizio Affronti
Da circa un anno avete fondato la Brand New Gallery. Da quale formazione venite?
F.A. Io provengo da studi storico-artistici sul Seicento, ma mi sono sempre interessato all’arte contemporanea. Prima di fondare la galleria insieme a Chiara, avevo una collezione e di tanto in tanto pubblicavo su alcune riviste.
C.B. Anch’io ho studiato storia dell’arte, e subito dopo la laurea ho frequentato un master presso il Sotheby’s Institute of Art. Questa fase della mia formazione è stata fondamentale per la mia scelta successiva di aprire una galleria d’arte.
Come mai avete scelto questo spazio in via Farini?
La scelta dello spazio è durata un anno e quando l’abbiamo trovato era in fase di ristrutturazione. L’abbiamo affittato subito. È perfetto per la nostra attività perché è di grandi dimensioni ed è composto da due grandi ambienti, per cui all’interno possiamo allestire due mostre per volta. E come zona è perfetta per la nostra attività.
La prima mostra che avete ordinato?
La prima mostra l’abbiamo dedicata all’artista tedesco Anton Henning, molto famoso in Germania e negli Stati Uniti, ma che non aveva mai esposto i suoi lavori in una galleria d’arte del nostro paese prima di allora. Henning ha proposto una serie di dipinti realizzati appositamente per la nostra galleria, e anche per questo è stata accolta bene da parte del pubblico e della critica.
Come pubblicizzate la vostra attività espositiva?
Soprattutto attraverso la pubblicità sulle riviste di settore come Art Forum, Mousse, Artreview e Flash Art e alcuni collezionisti, soprattutto americani, ci hanno contattato dopo aver visto le pagine di pubblicità delle mostre. Dell’ufficio stampa se ne occupa Lucia Crespi. Al contempo spendiamo molte energie per l’aggiornamento del nostro sito internet.
Sin dalla prima mostra ordinata in galleria, avete proposto cataloghi curati da critici d’arte. Qual è il rapporto con loro?
Abbiamo un forte rapporto di interazione con la critica e i curatori. Abbiamo coinvolto curatori stranieri, come Andrew Berardini, Linda Yablonsky e Jane Neal, e italiani come Alberto Mugnaini e Marco Tagliaferro.
Proponete anche artisti italiani o siete indirizzati esclusivamente sugli stranieri?
Di italiani abbiamo proposto soltanto Alessandro Roma, di cui faremo una mostra personale nell’aprile 2012 all’interno dell’intero spazio espositivo. Inizialmente, per differenziarci rispetto alle proposte della maggior parte delle gallerie italiane, eravamo indirizzati esclusivamente verso gli artisti stranieri. Poi abbiamo visto una sua mostra al MART di Rovereto e da quel momento abbiamo iniziato a collaborare.
Per promuovere la vostra attività partecipate a fiere d’arte contemporanea?
Ad oggi abbiamo partecipato soltanto alla fiera di Roma, mentre tra pochi giorni saremo a NADA Miami Beach e a gennaio ad Art Los Angeles Contemporary!
A Palazzo Reale prosegue l’attività legata ai grandi nomi della storia dell’arte: personalità celebri o meno celebri, ma comunque riconoscibili da un pubblico vasto, anche quello dei non addetto ai lavori. Vite avventurose o non propriamente comuni, particolari aneddoti ormai popolari conditi da slogan ben memorizzabili.
Questi aspetti, insieme a una campagna pubblicitaria martellante, sembrano essere gli ingredienti essenziali alla base di quell’afflusso di visitatori che in una soleggiata, ma comunque fredda, domenica mattina di novembre decidono di mettersi in fila per entrare in un luogo oramai popolare di Milano. Non è un museo, la sua attività è “soltanto” legata alle mostre temporanee. Ma da decenni è un marchio di fabbrica imprescindibile, anche per i “numeri” che ha prodotto. Quelle ordinate al suo interno sono mostre temporanee per molto versi antitetiche tra loro, sia sotto il profilo curatoriale (e scientifico) che, soprattutto, sotto l’aspetto prettamente tematico: rassegne dedicate a movimenti o a particolari momenti della storia dell’arte di tutti i tempi, antologiche di grandi maestri del passato, personale dedicate agli artisti contemporanei.
Questo è il tempo di Artemisia Gentileschi e di Paul Cézanne, dove tra qualche giorno arriveranno i cinque transavanguardisti di Achille Bonito Oliva (Sandro Chia, Enzo Cucchi, Francesco Clemente, Nicola De Maria e Mimmo Paladino), mentre alcuni ambienti (ad esempio la Sala delle Cariatidi) sono impegnati per altri progetti espositivi, come la personale dell’artista Roberto Ciaccio. Palazzo Reale insomma è un contenitore insaziabile di “cultura”, di mostre. Complice la straordinaria e strategica – oltre che affascinante – location: Piazza Duomo, ovviamente, è un luogo battuto da tutti, e quindi non è poi così complicato “finire” nel maestoso cortile di Palazzo Reale, rigorosamente in fila per visitare una mostra. Ma senz’altro il più delle volte le opere d’arte sono soltanto il punto di partenza per ulteriori percorsi più o meno tematici e, soprattutto, per un indotto economico ricco, favorito dalla presenza di un grande e fornito bookshop ricco di gadget di tutti i tipi, ma non per tutte le tasche.
E Cézanne, perché è della sua mostra che qui s’intende fornire qualche approfondimento, diventa il catalizzatore di baraonde di visitatori, scortati da guide talvolta un po’ troppo rumorose, singoli visitatori consigliati da audio guide che strillano in sale e salette che divengono piccole piazze infestate da voci sovrapposte.
Cézanne Les ateliers du Midi, curata da Rudy Chiappini con la collaborazione di Denis Coutagne, promossa dall’Assessorato alla Cultura Comune di Milano e prodotta da Palazzo Reale e Skira, e sostenuta dal Musée d’Orsay, propone opere provenienti da numerosi musei, anche extraeuropei, legate alla produzione provenzale dell’artista: paesaggi, figure, nature morte che rivelano un particolare aspetto della sua ricerca pittorica e grafica. Ma la mostra offre anche un ricco carnet di proposte: servizi didattici e visite guidate per gruppi, scuole, famiglie e singoli visitatori, laboratori per gruppi scolastici, visite per famiglie, organizzate da Ad Artem, Arte per gioco e Aster, mentre il percorso ordinario delle visite, accompagnato costantemente da ampi pannelli didattici, offre un buon punto di partenza per la conoscenza del maestro francese, forse il padre della pittura moderna.
Con gli occhi di Cézanne, è questo il nome della sezione didattica proposta dal Settore Servizi Minori e Giovani – Sezione Didattica Palazzo Reale per tutta la durata della mostra (che resterà aperta fino al 26 febbraio 2012), propone una stanza in cui un tavolo pieno di oggetti – gli stessi che si riscontrano nelle nature morte in mostra – diventerà il teatro in cui gli interessati potranno agire per combinare barattoli e altri elementi in inedite e fantasiose composizioni. A questo punto, ispirandosi alla composizione sul tavolo, si potrà disegnare una natura morta e probabilmente, così come è già stato fatto in precedenza (come al termine della mostra antologica di Gillo Dorfles), i disegni dei bambini che parteciperanno al laboratorio saranno esposti al pubblico per qualche giorno.
Ma le proposte avviate in concomitanza con questa mostra sono anche di natura editoriale – tutte a firma di Skira – e finalizzate esclusivamente a un pubblico adulto, fatta eccezione per Le modelle di Paul, un fresco racconto ispirato a Cézanne a firma di Cristina Cappa Legora con disegni di Giacomo Veronesi.
Oltre al catalogo dell’esposizione, con testi di Chiappini, Denis Coutagne, Michel Fraisset e Pavel Machotka, apparati biografici di Alessia Brughera e un’interessante testimonianza a firma dell’artista Valerio Adami, Skira ha proposto un volumetto di Emile Bernard, intitolato Mi ricordo Cézanne, ricco di aneddoti sull’artista, e la pubblicazione di un catalogo maneggevole e divulgativo intitolato Cézanne, oltre a un interessante saggio di Vittorio Gregotti, studioso e architetto che in L’architettura di Cézanne ha sviscerato un concetto fondamentale: «ogni suo dipinto è la lenta realizzazione di un’architettura del quadro».
Approfondimenti:
www.mostracezanne.it
www.adartem.it
www.artepergioco.it
www.spazioaster.it
Sabato 12 Novembre alle 18, presso il Centro d’arte e cultura “Il Ramo d’oro” di Napoli, si è inaugurata la mostra “The other side of the moon” con presentazione di Vincenzo Montella. L’allestimento presenta opere dell’artista napoletano Gianfranco Erbani e dell’artista africano Akachukwu Chukwuemeka.
Diversi per formazione e intenti artistici, i due condividono l’idea di una libertà artistica pura e libera guidata dall’immaginazione e dallo sguardo empatico sul reale.
Nato il 23 giugno del ‘71 a Mgbowo in Nigeria, Chukwuemeka si laurea presso il Dipartimento di Fine and Applied Arts, dell’Università di Nsukka, Nigeria nel 1997. Attualmente è Post Graduate Diploma Student di Gender Studies all’Università di Abuja, dove vive e lavora.
Nato il 1 luglio del ’41 a Napoli, dove tutt’ora vive e opera, e architetto di professione fino a tre anni fa, Gianfranco Erbani ama precisare che la sua “matita è stata sempre e solo al servizio del mestiere di architetto, con costanti deragliamenti al di fuori del binario della costruzione di un manufatto di “mattoni”. Da qualche anno, però, l’anima dell’artista è venuta prepotentemente fuori, facendogli intraprendere un percorso di ricerca, “in questo mondo nel quale sembra che l’arte e la bellezza non servano più a nessuno”, di uno spazio “ideale” sia fisico che mentale, per potersi esprimere liberamente.
I lavori in mostra ( su tela e supporti diversi e a tecnica mista) offrono, quindi, una lettura originale dell’arte, intesa come un “mestiere” fatto di ricerca e di fatica, come lettura del mondo in forma propositiva.
L’ispirazione è ovunque: uno scatto rubato di due donne mediorientali ammantate di nero, in uno dei mille viaggi dell’architetto-artista, diventa pretesto per un quadro dalle esplicite risonanze surrealiste. E poi Napoli. “L’arte mi aiuta a vivere in una città come Napoli che soffre, ma che non riesce a fare a meno della sua creatività e delle sue capacità di rendere visibili e palpabili le emozioni ed agendo ed operando sempre e comunque, insieme od isolatamente non per passatempo ma con la convinzione che solo tenendo viva la capacità espressiva si può aiutare il ‘risveglio’”.
Il viaggio come fonte di ispirazione anche per Chukwuemeka, che si definisce un “viaggiatore che colleziona conoscenza ovunque e comunque sia, buona o cattiva”, e che “dipinge ciò che l’occhio sente”. L’arte è concepita come una finestra verso una immaginazione senza fine. “Puoi fermarti alla cornice della finestra o spingerti oltre ad assaporare il paesaggio infinito che si estende al di là di essa”.
Erbani si definisce “a metà strada tra il mestiere di architetto e quello di ricercatore nel campo delle arti visive”. Una specie di “limbo” ibrido, che lo interessa e lo stimola costantemente. Come l’obiettivo di una macchina fotografica, che riceve impulsi continui dalla realtà e senza impregnare troppo di “cervello” l’immagine che inizia a formarsi, l’artista lascia fluire l’ispirazione da questa condizione di ambiguità fino a trovare la sua giusta espressione. Non lo turba una possibile confusione espressiva, perché è convinto che “nell’ordine c’è la noia frustrante dell’imposizione, mentre nel disordine c’è la fantasia esaltante della partecipazione”.
Guardando i lavori, tuttavia, emerge anche prepotentemente la forma geometrica, la linea precisa di chi della matita ha fatto lo strumento del quale vivere e ha vissuto. Contraddizione che l’artista napoletano ammette definendola una “deformazione professionale”. “Sono ossessionato dalla composizione, dalla geometria, dagli equilibri nello spazio, nella convinzione che lo spazio è qualcosa che si costruisce con la forma e non qualcosa in cui si costruisce la forma”.
Nessuna denuncia o “valore sociale” dietro queste istantanee del pensiero, che non vogliono essere la metafora di un’altra cosa. Al contrario di Chukwuemeka, che vuol dar voce ai “muti” della terra socialmente e politicamente, Erbani non si pone “contro” nulla (contro le guerre, contro la fame nel mondo, contro i corrotti…), non denuncia, non vuole provocare. Il suo lavoro si pone, piuttosto, rispetto all’immagine, sia essa reale o fantastica, “con estrema pazienza professionale e tanto lavoro cercando la moderazione e la discrezione”, e rivendicando una libertà di pensiero e di espressione artistica pura e ideale.
Un ipotetico punto di arrivo comunque c’è, e ci consola, noi terreni mondani abituati a ricercare una concretezza, una utilità seppure in questa lunatica fantasmagorica realtà creativa. Un sogno: “Forse un giorno – confessa l’artista napoletano – riuscirò a fare sì che i colori del mondo da soli senza forme esprimano la gioia che si prova a volare”.
La mostra sarà visitabile tutti i giorni tranne il giovedì dalle 16 alle 20 fino al 27 novembre 2011.
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Intervista a Paola Bray, attuale coordinatrice di MIRA
Quando è nata l’attività di MIRA Art Residency e come mai avete scelto di lavorare nel Salento?
MIRA nasce a giugno del 2010 da una collaborazione fra me e un amico artista americano (fotografo, scrittore, attore), entrambi accomunati dalla stessa passione per l’arte e per il Salento. L’anno scorso ho deciso di abbandonare la Jamaica, dove vivevo da 4 anni, per realizzare il sogno di mio padre, perso improvvisamente in un mio viaggio in Italia. Il desiderio di non vedere la sua casa natale in vendita o abbandonata, mi spinse quaggiù e qui sono rimasta. Cresciuta in ambiente artistico per talento di mio fratello, decisi che gli ospiti di casa Leo sarebbero stati artisti, e che avrebbero apprezzato e trovato stimoli dall’ambiente salentino.
Ora MIRA appoggia gli artisti internazionali e promuove lo scambio culturale fra le discipline artistiche e le esperienze internazionali. Mediante accurata selezione gli artisti vengono scelti on line in base alla formazione, curriculum, proposta artistica e interesse reale nei confronti dell’obiettivo preposto: un ambiente incontaminato dove gli artisti possano interagire fra di loro ispirandosi a ciò che Martignano – il piccolo centro che ci ospita – offre loro per storia, cultura e tradizione.
Cosa offrite agli artisti che aderiscono a MIRA?
MIRA offre una casa dotata di quattro stanze con bagno indipendente, cucina comune, cortile e uno studio dove lavorare. La proposta iniziale per gli artisti era la possibilità di open studio ed una mostra finale nel Palazzo Palmieri di Martignano. Ora MIRA garantisce spazi espositivi o gallerie, anche a Lecce, in base alle circostanze, ai lavori del gruppo e alle esigenza degli artisti.
Periodicamente, dopo la residenza di un gruppo di artisti, proponete rassegne – personali o collettive – in alcuni spazi della provincia, in particolare a Lecce. Che riscontro state avendo in termini d’interesse da parte del pubblico e degli addetti ai lavori attivi sul territorio?
Non è facile proporre una mostra di artisti che non rientrino nei comuni circuiti locali ed io vivo qua da troppo poco tempo per avere un mio seguito, ma ciò che più mi preme, non è tanto il successo di un’inaugurazione , quanto garantire solide opportunità future e validi contatti. Trampolini di lancio.
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Il mio obiettivo ? Poter andare avanti e crescere, crescere, nell’intento di portare il mondo a Martignano. Trasmettere i valori di questa terra, la cui profonda tradizione e cultura non possono esser che uno stimolo alla sensibilità artistica.
Intervista a Francesco Pantaleone, direttore della Galleria Pantaleone
Quando è stata fondata la galleria che Lei dirige?
La galleria Pantaleone è stata inaugurata a Palermo nel 2005
Segue una linea di ricerca specifica o la programmazione si muove su vari fronti d’indagine?
Ci muoviamo su vari fronti d’indagine per colmare il vuoto che la Sicilia ha nell’arte contemporanea.
Come s’inserisce l’attività della galleria all’interno del sistema dell’arte territoriale e nazionale?
Stiamo facendo un lavoro molto importante sul territorio siciliano, sosteniamo e promuoviamo i migliori artisti siciliani giovani o già affermati. Dal 2007 , inoltre, con Laura Barreca siamo impegnati in un progetto di residenze che si chiama “Domani, a Palermo” invitando artisti di fama internazionale a risiedere per un periodo a Palermo per poi tenere una mostra personale presso la nostra galleria. Per quanto riguarda il territorio nazionale, collaboriamo con molte gallerie in Italia, come Francesca Minini o Zero.. , siamo l’unica galleria da Napoli in giù a partecipare ad Artissima Torino, oltre a partecipare ad Artefiera Bologna e MiArt Milano e, occasionalmente a fiere internazionali.
Com’è il rapporto con i collezionisti?
Il rapporto con i collezionisti per fortuna è molto buono. Inostri artisti sono nelle principali collezioni siciliane e nella collezione del museo Riso, con la nostra serietà e costanza, abbiamo conquistato la fiducia di molti collezionisti in Italia e qualcuno all’estero.
La galleria ha una sua collezione che viene incrementata in parallelo con l’attività espositiva?
Si, ma si chiama Stock non collezione!
Vademecum per chi vuole intraprendere questa strada..
Di gallerista o di collezionista? Gallerista, non puoi fare questo lavoro se non ami profondamente l’arte e gli artisti. Per i collezionisti, rivolgetevi alla galleria Francesco Pantaleone arte Contemporanea!
Quali sono i vostri progetti per il futuro?
Abbiamo avuto John Kleckner in residenza, è stata la prima personale in Italia dell’artista di LA; a fine luglio abbiamo poi a Palermo presso la chiesa dei Crociferi, la mostra Wunsch/Ordnung collettiva co-curata da me, Cécile Hummel e Andrea Roca (Migros museo Zurigo), la mostra che ha avuto già una prima tappa a Basilea durante i giorni di ArtBasel: mette a confronto artisti della galleria quali Simeti, Galegati, Chirco, Abbate e Longo e un gruppo di artisti svizzeri come Costa Vece, Loredana Sperini e la stessa Cécile Hummel. Infine stiamo lavorando ad un nuovo spazio, sempre nel centro storico di Palermo, nel quale sarà attiva una biblioteca aperta al pubblico e principalmente mirata all’arte contemporanea e alla storia della Sicilia. Ad oggi la biblioteca conta circa 2650 volumi tutti catalogati in un database di facile consultazione. Abbiamo ancora in programma la nuova personale in galleria di Francesco Simeti e quella di Benny Chirco, oltre ai nuovi appuntamenti del ciclo “Domani, a Palermo”.
Approfondimenti:
http://www.fpac.it/site/
Intervista doppia a Stefano Raimondi e Paola Tognon di the Blank
The blank è il segno tipografico per dire spazio bianco da riempire: uno spazio di potenzialità. Chi siete? Come vi volete riempire o raccontare e come siete organizzati?
Abbiamo pensato a questo nome immaginando una pagina bianca, vissuta senza patire il “blocco dello scrittore” cioè il disagio di non sapere cosa fare, ma pensando piuttosto alle potenzialità di uno spazio da riempire. Uno spazio bianco come la tela, come un muro da impegnare, da scrivere, da far proprio, una pagina dove tutti possano lasciare la propria traccia e idea. Non è importante come farlo, ma che tutti gli appassionati possano esprimersi in questa opportunità.
Siamo partiti dall’osservazione di uno strano fermento culturale a Bergamo, proprio a fronte della crisi economica e istituzionale in corso: negli ultimi due anni sono nate diverse gallerie di arte contemporanea sul territorio bergamasco, chiamando artisti a lavorare. Abbiamo ragionato insieme a loro, alle istituzioni cittadine, ai musei come la Gamec, l’Accademia Carrara, Spazio ALT di Alzano lombardo (unica realtà extra-cittadina, ma di respiro internazionale), il Museo Bernareggi, l’opera della Basilica di Santa Maria Maggiore trovandoci tutti animati dallo stesso desiderio di diffondere la pratica e l’intensità delle arti visive, con passione e determinazione.
Dalle tre persone che si sono inizialmente attivate, Paola Tognon, Stefano Raimondi, Elisabetta Brignoli, siamo arrivati a nove persone che collaborano con continuità e a un network di 27 soci, tutti enti ed istituzioni culturali.
L’associazione però rimane fluida ed in espansione: esiste un gruppo di volontari che si avvicina a noi, partecipando in base alle loro vocazioni e competenze. Diversi stagisti stanno crescendo con noi acquisendo competenze organizzative, professionali, curatoriali,comunicative.
Poi ci sono i “complici”, le realtà private, come piccole e medie imprese locali, che vogliono “fare”con noi, che ci aiutano con supporto logistico, tecnico ed economico.
Noi operativi ci suddividiamo i compiti nella gestione degli eventi in programma, ognuno per i suoi ambiti di competenza. Ci riuniamo ciclicamente, ruotando sulle varie sedi dei soci. Non abbiamo una sede, e non pensiamo di ricercarla. Ci piace essere sempre in movimento nella nostra rete.
Quali sono i vostri principali obiettivi?
Non ci siamo posti limiti fin dall’inizio perché amiamo la prassi della sperimentazione e vogliamo sollecitare la partecipazione spontanea, collettiva e creativa, anche nell’indicazione degli obiettivi da raggiungere o da migliorare. Siamo solo tutti appassionati d’arte. Cerchiamo però di lavorare con professionalità e competenza, erogando anche servizi di qualità ai nostri associati, a fianco della promozione di eventi con un chiaro piano comunicativo, con un’inclinazione all’educazione all’arte, per avvicinare il pubblico al mondo della contemporaneità e alla cultura delle arti visive. Vogliamo costruire percorsi di mediazione, per favorire la comprensione dell’arte contemporanea che talvolta crea disagio nella sua ricezione, attraverso la testimonianza diretta degli attori dell’arte, artisti, curatori, operatori. L’idea è che questi mondi si mescolino in condizioni informali, leggeri e divertenti.
L’idea è anche quella di stimolare e sviluppare in modo coordinato le tante energie creative che si trovano sul nostro territorio, favorendo i migliori canali di visibilità e riconoscimento. E ovviamente valorizzare in città e le sue eccellenze.
Perchè un progetto per Bergamo? Come siete riusciti a unire tante realtà così eterogenee? Quali argomenti avete messo in campo e quali le mancanze e le potenzialità ravvisate?
Bergamo è una città media della provincia italiana, un campione di riferimento del nostro tessuto sociale con i suoi circa 120.000 abitanti, all’interno della proverbiale operosità lombarda. Ma ha una vocazione culturale che si esprime da secoli nella sua storia: fin dal Settecento, con l’importante lascito di Giacomo Carrara che ha fondato il nucleo della Pinacoteca omonima, Bergamo si è sempre distinta per la generosità dei suoi cittadini, il suo fermento, come crocevia di incontro per tante personalità intellettuali.
Oggi è anche la città dove transitano quasi 4 milioni di turisti stranieri, grazie allo sviluppo dell’aeroporto di Orio al Serio e delle compagnie low cost.
Un’opportunità per farci conoscere nel mondo, “l’essere è nel mondo” come dice Heidegger.
Se vogliamo valorizzare davvero il territorio, dobbiamo pensare a una nuova politica culturale e maggiori investimenti. I nostri progetti devono servire o appassionare, o incuriosire il maggior numero di persone possibile, dentro al territorio innanzitutto, agli artisti, al pubblico, non solo per scopi formativi ma anche ludici, di socialità: dobbiamo fare sistema. Pertanto siamo partiti osservando quanto c’è intra-moenia, per svilupparlo al meglio delle nostre capacità, senza porci ambiziosi e superficiali obiettivi di crescita, ma fortificandoci. È un’iniziativa spontanea, senza connotazioni di parti: siamo liberi cittadini appassionati, che vogliono contribuire a sensibilizzare un territorio sulle sue eccellenze e risorse, sulla sua vocazione internazionale.
Gli argomenti principali che hanno convinto i nostri interlocutori sono soprattutto la voglia di diffondere cultura in modo professionale, offrendo servizi concreti ai soci e al pubblico. Spesso si eccede in idealismi, mentre noi siamo partiti con concretezza. Per fare un esempio, offriamo ai soci servizi di ufficio stampa, graphic design, comunicazione, segreteria organizzativa, fotografia…tutto quanto possa valorizzare i loro eventi. Abbiamo anche cercato di armonizzare le varie anime (pubblico, privato), spiegando che siamo un’associazione senza scopo di lucro, che tuttavia amplifica opportunità di visibilità per tante realtà diverse.
La nostra voce corale ha richiamato l’attenzione di tante istituzioni che altrimenti non avrebbero ascoltato singolarmente la molteplicità degli attori coinvolti. Anche a livello istituzionale, il fare sistema ci ha gratificato nell’essere stati accolti.
Come comunicate il vostro operato?
Uno dei vantaggi nel lavorare su un territorio come quello bergamasco è che possiamo contare su una rete capillare, del passaparola, del contatto diretto vis-a vis, che genera relazioni “calde”. Le persone ci conoscono per prossimità, ma anche perché siamo attori del mondo dell’arte a vario titolo. Questo ci ha permesso di godere di spontanee prestazioni di aiuto e di supporto, di amicizia, che diversamente si riscontrano in altri contesti.
Lavoriamo molto nella promozione degli appuntamenti culturali dei nostri soci. Infatti abbiamo lanciato un portale di riferimento per tutto quanto succeda intra-moenia, non solo postando comunicati o segnalando news, ma dando indicazioni logistiche e link utili dove approfondire informazioni in italiano e inglese. Abbiamo una mailing list di oltre 15.000 contatti, che sta continuando a crescere. Poi abbiamo collaborato con l’Eco di Bergamo che ci ha permesso di distribuire come allegato quasi 11.000 copie della nostra “Bergamo Modern and Contemporary Art Map”, mappa di eventi nelle giornate di Artdate, favorendoci pertanto nella distribuzione sul territorio.
Contenuti trasversali: cultura moderna e contemporanea. Come le fate dialogare? Perchè è importante essere trasversali?
Come abbiamo detto, Bergamo ha una vocazione culturale molto viva e ricca. Sicuramente per l’arte contemporanea, da circa 20 anni la Gamec è la maggiore realtà propulsiva, che negli anni ha favorito la circolazione di molti artisti e realtà internazionali nella nostra città. Nel tempo, sono nate gallerie nuove che hanno trovato in Bergamo un territorio “vergine” ma insieme solido dove operare e investire, ma non solo: realtà secolari come il Museo Diocesano e l’Opera della Misericordia si sono aperte alla contemporaneità: del resto, come dice De Dominicis, “l’arte è sempre stata contemporanea alla sua epoca storica”.
Dunque il dialogo trasversale fra le epoche storico-artistiche, favorisce l’avvicinamento del pubblico, che attraverso la classicità dei Grandi Maestri, può arrivare all’arte dell’oggi.
Come nell’iniziativa dell’Opera della Basilica di Santa Maria Maggiore, dove abbiamo programmato il ciclo di tre mostre “Ogni cosa a suo tempo” che il 16 luglio ha inaugurato la mostra di Riccardo Beretta/Daniel Knorr: un artista italiano e un artista straniero, in dialogo con gli antichi spazi dei Matronei. Un progetto a latere di The Blank, ma sempre collegato.
I complici di un progetto culturale sono le aziende. Come li avete coinvolti e come li vorrete coinvolgere in futuro?
La nostra sincera passione ha avvicinato tante piccole realtà, interessate a dare il loro contributo, spesso tecnico (si pensi al pranzo con gli artisti ospitato in un ristorante di nostri “complici”). Si tratta a volte di piccole aziende, che attraverso i loro titolari illuminati, e forse anche divertiti dalla freschezza di idee che portiamo, si sono messi a nostra disposizione. Dopodiché ci sono anche realtà più grandi che ci hanno supportato nelle nostre spese di gestione, credendo con forza e generosità ai nostri progetti. Noi ci proponiamo andando in prima persona, spiegando il progetto, parlando dei soci, ma chiedendo partecipazione attiva, dialogando e costruendo insieme un percorso su lungo periodo, per costruire prospettiva. Offriamo anche in questo caso una serie di servizi concreti per i nostri complici, come visibilità, e eventi dedicati. Ma soprattutto anche per loro è facile capire che non si tratta di proposte con scopo di lucro ma di proposte che nascono su idee e passioni con l’obiettivo di condividere ed espandere una passione che può essere anche un motore per un territorio. L’arte come motore di crescita e di sviluppo sociale.
Quali progetti promuovete?
Lavoriamo principalmente su due giornate per l’arte contemporanea aperte alla città, chiamate ArtDate. La prima si è inaugurata il 9 ottobre 2010, in coincidenza della Giornata del Contemporaneo organizzata dagli amici di AMACI, dove tutti i soci hanno aperto gratuitamente le loro porte; la seconda si è tenuta il 14 maggio. A fianco dei programmi dei soci, ci siamo attivati con molti eventi collaterali, con l’intento di incontrare il pubblico, uscendo dai luoghi riconosciuti per la fruizione dell’arte. Dunque a fianco dei Musei e delle Gallerie private, si sono aperti studi di artisti, case dei collezionisti, organizzati i pranzi con gli artisti, performance e momenti di dialogo e di confronto. La formula è quella dell’itineranza sul territorio, aiutata dalla nostra mappa per il contemporaneo che ha guidato il pubblico. Il riscontro è stato incredibile per entrambe le giornate: GAMeC ha registrato la massima presenza giornaliera mai vista; le case dei collezionisti sono rimaste aperte due ore oltre quanto stabilito; il pranzo con gli artisti, da una base di 90 persone, ne ha viste arrivare più di 160 e la performance di Christian Frosi e Diego Perrone è stata seguita con molto coinvolgimento.
Un bilancio sul vostro primo anno di vita e un’anticipazione dei prossimi progetti…
Siamo contenti, per quanto stupiti da quanto riscontro abbiamo ottenuto in così poco tempo. Il fatto di essere alle “prime armi”, non ci ha fatto riflettere in dettaglio sui numeri che abbiamo ottenuto. Abbiamo avuto ottime coperture stampa, con una prima pagina sul giornale cittadino l’Eco di Bergamo e diverse segnalazioni su Repubblica e Il Sole24ore.
Un ottimo riscontro è anche quello di Istituzioni e realtà che hanno creduto in noi, come la rete dei “complici” , per esempio La Fondazione Comunità di Bergamo, la Fondazione della banca Popolare di Bergamo. Siamo riusciti in poco tempo e con molto lavoro a guadagnarci una credibilità, che attira l’attenzione verso di noi e la volontà di lavorare con noi.
Il progetto più importante al quale stiamo lavorando ora è l’apertura di una residenza d’artista nel quartiere multi-culturale di Bergamo, via Quarenghi. Lo spazio è già individuato ed è molto bello. L’idea è invitare un artista straniero che possa dialogare, operare e realizzare un progetto in relazione alla città, e che non si “limiti” dunque a un percorso di mera ricerca personale con produzione di un’opera. La residenza dunque, deve servire agli artisti quanto alla comunità.
Stiamo anche immaginando un “gemellaggio” con altre due residenze straniere per favorire la mobilità degli artisti ma anche delle città. Il tutto sempre con l’ottica della condivisione con il nostro territorio.
Approfondimenti:
www.theblank.it
Foto: Courtesy of Maria Zanchi
“Romy Campe geht nach New York” – Romy Campe è in viaggio per New York. Queste le parole sulla brochure del vernissage organizzato in occasione della prima personale dell’artista nella “grande mela”, Venerdì 13 Maggio 2011 a Berlin-Schöneberg.
La serata ha inaugurato un’esposizione dall’eloquente titolo “Berlin-New York”, che si è svolta dal 14 al 30 maggio al “salon”, KUNSTLEBEN BERLIN – Hauptstraße 31, 10827 Berlin – e che ha non solo celebrato il nuovo, ma mostrato un intero spaccato della notevole esperienza della pittrice berlinese, nonostante l’ancor giovane età.
La capitale tedesca della creatività – una delle più convenienti quanto a costo della vita, per questo così allettante per artisti o per chi si occupa di cultura o di arte – presenta tuttavia notevoli difficoltà, soprattutto nell’affrontare le spese di tali attività.
Dopo esperienze sia come pittrice che come gallerista tra Bochum, Koblenz e Hannover, Romy Campe giunge a Berlino – dove è nata – nel 2006. Tra gli anni di formazione e quelli da professionista, giunge alla conclusione che le scelte da fare per la nuova avventura berlinese dovevano essere necessariamente diverse da quella fatte precedentemente.
Soprattutto l’esperienza di gallerista la porta a pensare di dover mettere insieme qualcosa di innovativo rispetto alle tradizionali gallerie e fiere d’arte che si abitua a dover frequentare, ma che in reltà non apprezza per ciò sono, puro e semplice marketing, attività fredda e per lei poco stimolate in quanto artista, e rifiuta così di vendere arte come si farebbe con oggetti di produzione di massa. Sceglie così la carriera d’artista più che quella di gallerista. Lascia tutto per tornare alla città natale.
Insieme al partner “MASCH”, intraprende una nuova avventura rinnovando un appartamento in una delle strade principali del distretto berlinese di Schöneberg, la Hauptstraße: 200 m2 in un vecchio palazzo molto chic che nella idea originale, nasce come “atelier” per promuovere l’attività esclusiva dei due artisti. Come molte grandi capitali europee, Parigi o Roma, Praga, per l’est Europa, la stessa Berlino è città dalle mille possibilità e idee riguardo alla cultura: risente tuttavia di un limitato supporto economico di settore e una concorrenza altissima e ben preparata.
Le gallerie della città sono oltre ottocento, se ne aprono e chiudono continuamente, solo alcune hanno un’attività continuativa, molte sono ultra specializzate e promuovono solo determinati tipi di produzioni per clienti selezionati.
Romy Campe: “Chi arriva qui senza qualcosa di concreto trova necessariamente delle difficoltà. Aprire una galleria tradizionale senza conoscere bene la città, avere dei potenziali clienti o contatti con l’orizzonte culturale e politico è un vero e proprio salto nel buio. Decisi di fare un passo alla volta. Ho cercato un primo contatto con altri artisti e professionisti della città, ho pensato di usare la mia esperienza per creare uno spazio in cui muovermi e sviluppare la mia creatività. Da subito mi sono messa a riflettere sul fatto che le gallerie lavorano quasi esclusivamente col prodotto che valorizzano tendendo molto a specializzarsi, mentre mi accorsi che la ricerca di nuovi contatti in città mi portava a conoscere non solo il pittore o lo scultore, ma anche lo scrittore, il musicista, il ballerino o l’attore e capii che la monotonia e la specializzazione estrema di molte gallerie “tradizionali” è proprio ciò che le rende non solo noiose, ma anche estremamente a rischio di fallimento, soprattutto nei primi tempi. Il mio atelier doveva diventare qualcosa di diverso, volevo riuscire a promuovere la mia arte attraverso altre arti. La buona idea è nata direttamente dalle persone che ospitavo, noi le abbiamo solo dato un poco di ordine, lavorando sui punti che nella tradizionale attività di una galleria a lungo andare annoiano perfino gli artisti e i critici: qualcosa di nuovo è nato dopo questa riflessione.
Le immagini in esposizione non mancano mai e anche durante un concerto Jazz, o la promozione del nuovo libro di uno scrittore, o ancora durante la performance di una compagnia di attori, la possibile discussione su un dipinto alla parete manda avanti l’attività e la promozione di un artista, ma il tutto avviene con un buon bicchiere di vino e diventando un vero e proprio centro di promozione artistica a tutto tondo”.
La promozione di una professione in modo veloce e a basso costo avviene al giorno d’oggi sempre più attraverso l’uso dei social network, che da semplice mezzo di comunicazione per la vita privata, sono divenuti nel tempo metodo di promozione professionale fondamentale per farsi conoscere nella rete e sul mercato di competenza.
Romy Campe: “Dunque anche qui è tutto nato dalla ricerca di nuovi contatti creativi. Attraverso internet mi sono ritrovata ad avere una rete di oltre 6000 contatti in brevissimo tempo, potenzialmente tutti alla ricerca di opportunità e idee per valorizzare ciò che sanno fare. Ho iniziato con il social network professionale XING e subito dopo mi sono iscritta a Facebook. È tutt’ora qualcosa di relativamente nuovo per me, oltre a questo abbiamo naturalmente le pagine di un nostro sito internet”.
I SOCIAL NETWORKS. Una buona parte quindi dell’attività si svolge per così dire in rete, attraverso la comunicazione con una gran numero di individui – professionisti e appassionati d’arte – che costituiscono il riferimento principale di KUNSTLEBEN BERLIN. Dove portano concretamente tutti questi contatti è presto detto: attraverso le pubbliche relazioni nascono idee, progetti e con un pizzico di favore del destino, aiutano a realizzare i sogni più ambiziosi.
Romy Campe: “I Social Networks diverranno sempre più importanti. Trovo che chi si occupa di cultura fino ad ora non abbia davvero capito o sfruttato a pieno le loro potenzialità come fanno altri settori, ad ogni modo sono sempre di più gli artisti e galleristi on line. La stessa nuova esposizione che terrò in una galleria molto ben avviata di West Manhattan, la “SKYLIGHT GALLERY”, 538 West 29th Street, NY 10001 che è il motivo principale della breve espozizione qui a Berlino, è la tipica storia da “social media”. Il primo contatto è stato mediato da una altro artista tedesco con cui circa cinque anni fa avevo partecipato ad una collettiva on-line, dopo di allora, non avevamo scambiato più di qualche frase via Facebook. Quando i galleristi americani alla ricerca di artisti tedeschi da lanciare negli States hanno visto le mie opere on line consigliati da lui, sono rimasti così colpiti che hanno deciso di darmi la possibilità di far stabilmente parte del loro staff di artisti. Ben quattro di quei dipinti non torneranno più indietro perchè già venduti, uno di questi vola addirittura in Messico!”.
Romy è artista che lavora in modo tradizionale, pennello, colori a olio su tele di lino anche di grandi dimensioni, rielaborando l’arte del passato per farne un mezzo d’espressione moderna e attuale: sa comunicare la carica emotiva dell’espressionismo, il movimento del futurismo, le stravanganze del surrealismo e al contempo attingere dai classici -uno su tutti Goya-, partendo tuttavia da un punto di vista molto personale.
“Augenblicke” – il tema del gruppo di lavori presentati -, gioca tra il significato della parola tedesca “momenti”, e il tema principale dello studio, incentrato su visi e sguardi in connessione con la loro emozionalità d’anima: “Augen” in tedesco significa occhi, “Blick” è la parola per sguardo, vista.
Romy Campe: “Attraverso gli occhi inizia lo sguardo all’interiorità di ogni individuo, sono lo spechio dell’anima”.
La felice intuizione di aprire un atelier per farne un luogo di confronto e di esibizione, sfruttando le qualità intrinseche alla città ha permesso dunque agli artisti Romy Campe/ MASCH di superare le difficoltà iniziali e di continuare a promuovere arte e spettacoli a tutto tondo.
La ricerca di contatti mirati ha portato, specie nell’ultimo anno ad un effetto domino che ha permesso una programmazione più a lungo termine e il coinvolgimento di un’ulteriore figura professionale che permetta di svolgere al meglio la mole di lavoro in aumento, la “Kultur Managerin” Mechthild Alpers.
Gli artisti che richiedono di esibirsi o poter essere ospitati al “salon” è in aumento e questo rende naturalmente più complicato mantenere la direzione scelta in origine da Romy, quella di essere esclusivamente artista. Fermo restando che il cuore pulsante dell’attività restano Berlino e la Germania, le nuove tecnologie intensificheranno i contatti con sempre nuovi mercati: Stati Uniti, Messico, Italia i prossimi obiettivi.
Se accompagnata dal giusto apporto di creatività, praticità, ma soprattuto tanta passione e voglia di fare, come spesso succede l’arte non conosce confini e parla un solo, unico linguaggio, quello delle emozioni.
Approfondimenti:
www.kunstleben-berlin.de/
Un artista reduce da intense ricerche avviate sin dagli anni sessanta con la partecipazione a mostre di ampio respiro e l’adesione al movimento dell’Arte Povera. Un impegno mai sopito, spesso indirizzato al coinvolgimento e alla sinergia tra lo spettatore e l’opera d’arte (vedi i celebri quadri specchianti), che Michelangelo Pistoletto nel 1998 ha concretizzato con l’istituzione di una fondazione battezzata Cittadellarte – collocata nell’ex Lanificio Trombetta, un complesso di archeologia industriale della sua città natale tutelato dal Ministero dei Beni Culturali – finalizzata alla promozione e alla curatela di progetti solidali e creativi, grazie soprattutto al confronto con eterogenee professionalità e personalità.
Il pretesto di indagare questa istituzione nasce da una mostra antologica dell’artista in corso fino al 15 agosto al MAXXI di Roma, accompagnata, negli stessi spazi, da una rassegna dedicata ai progetti più significativi della stessa Cittadellarte, quasi a ribadire lo stretto legame tra la ricerca prettamente artistica di Pistoletto e il suo impegno con la fondazione. Quest’ abbinamento non deve affatto sorprendere, considerato che quest’ultima è la conseguenza di meditazioni e indagini che il maestro ha sostenuto innanzitutto come artista.
Pensiamo al complesso progetto del “Terzo Paradiso” – proposto da alcuni anni in mostre e rassegne di ampio respiro – che per l’artista rappresenta “l’accoppiamento fertile tra il primo e il secondo Paradiso”. Moderno demiurgo, Pistoletto ha creato così una terza via all’interno della quale l’intelligenza umana, prerogativa del secondo Paradiso, è stata associata a quella della natura in modo da determinare “un grande ideale che unisce in un solo impegno l’arte, la scienza, l’economia, la spiritualità e la politica”.
E Cittadellarte, che gode del sostegno della Fondazione CRT e della Compagnia di San Paolo, è strutturata proprio in una serie di Uffici finalizzati allo studio e all’impiego di particolari discipline della contemporaneità che, in alcuni casi, hanno apparentemente poco a che vedere con l’arte tout court. Quella di Pistoletto non è difatti la tradizionale fondazione rivolta allo studio e alla conoscenza delle opere di un artista o di un movimento specifico, come difatti confermano gli uffici dedicati a Comunicazione, Ecologia, Economia, Educazione, Moda, Nutrimento, Politica, Produzione, Arte, Spiritualità.
“Avviare e seguire esempi di progetti sostenibili, in collaborazione dinamica con partner esterni, che possano cambiare le esperienze, ispirare gli altri nelle loro attività e diventare modelli utilizzabili ovunque”. “Condividere idee, concetti, progetti e attività e coinvolgere gli individui nel farsi attivatori del processo di creazione di una società più responsabile”. Queste sono solo due delle mission perseguite da Cittadellarte con progetti, workshop e corsi.
Tra questi il Corso di specializzazione nazionale per educatori culturali, elaborato d’intesa con il Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli, il progetto ReMida, finalizzato al riutilizzo creativo di oggetti di scarto e, solo per fare un altro esempio, il progetto di residenza dell’Università delle Idee, rivolto a “esplorare il rapporto tra arte e società e indagare metodologie d’intervento creativo in grado di attivare progetti per un cambiamento responsabile della società” mediante la compartecipazione ai progetti e alle attività degli Uffici.
Si tratta di un programma ben articolato che vive grazie a una rara commistione tra creatività e impegni tangibili che si nutrono soprattutto della partecipazione tra gli individui coinvolti.
Approfondimenti:
www.cittadellarte.it
Il sito web “Caravaggio, una mostra impossibile” rappresenta il progetto di riunire le opere dell’artista lombardo in un unico luogo virtuale, valorizzando la riproducibilità digitale dell’opera d’arte. L’intento della mostra virtuale è dimostrare che la copia ha lo stesso valore del capolavoro originale ed ha inoltre la possibilità di essere diffusa capillarmente secondo il principio di democrazia culturale che ha in Walter Benjamin e André Malraux i suoi precursori.
La mostra “impossibile” di Caravaggio si propone così, grazie alle tecniche digitali d’avanguardia, di dilatare lo spazio espositivo del museo collocando virtualmente lo spettatore di fronte all’opera d’arte originale, riprodotta in scala reale. Il sito, in quanto specchio della mostra, ricostruendo l’ambientazione dei dipinti riesce a raccogliere la produzione completa dell’artista con l’utilizzo di media e linguaggi diversi e, mano a mano che la mostra verrà presentata in giro per il mondo, riporterà una sezione sui “luoghi di esposizione”, un modo per collegare insieme Castel Sant’Elmo di Napoli con il Castel Sant’Angelo di Roma con tutti i luoghi che ospiteranno la mostra in futuro in Italia ed nel mondo. Inoltre osservando il sito si nota come l’allestimento sia modulare, perciò i materiali possono essere ordinati secondo gli autori, le epoche, le scuole d’arte e i temi rappresentati ecc.. La struttura dell’esposizione può essere facilmente smontata e ricostruita in forme diverse e in città differenti, è stata infatti presentata a Napoli (a Castel Sant’Elmo) nella primavera del 2003, successivamente a Salerno, a Roma (Castel Sant’ Angelo) e a Malta (Caraffa Store). Le prossime tappe della mostra saranno: Mosca, San Pietroburgo, Chicago, Boston, New York, San Francisco e Buenos Aires.
Rispetto a questa prima parte del sito che spiega il progetto che ha dato vita alla mostra, nella seconda l’utente ha la possibilità di visitare virtualmente le diverse sezioni dell’esposizione e il catalogo delle immagini. La navigazione all’interno dei quadri avviene azionando un “cruscotto” intuitivo che consente di spostarsi all’interno dell’immagine in tutte le direzioni e di ingrandire i dettagli utilizzando il cursore sottostante. Nell’area in basso a destra sono raffigurati, attraverso piccole icone, tutti i quadri contenuti nel sistema. Questo consente di poter passare da un quadro all’altro, senza modifiche di schermo o di interfaccia, mettendo in evidenza le relazioni che tra le varie opere si vogliano esaltare. Ciascuna icona inoltre contiene le notizie essenziali per la definizione del quadro.
Vengono inoltre fornite informazioni molto dettagliate sulla vita dell’artista anche rispetto al periodo storico durante il quale è vissuto, mettendo a confronto la cronologia del pittore lombardo con la cronologia comparata di più ampio respiro. All’interno della sezione “Percorsi”, è approfondito il rapporto di alcune opere con la musica: facendo “doppio clic” su ciascuno spartito, è possibile ascoltarne le melodie, eseguite da “Musica picta”, ed accedere a una spiegazione che riporta i dipinti nella storia dei madrigali dell’epoca. Un altro percorso tematico riporta alcuni brani tratti da uno spettacolo scritto ed interpretato da Dario Fo e Franca Rame, “Caravaggio al tempo di Caravaggio” e altri se ne aggiungeranno in seguito, in grado di fornire all’utente un punto di vista privilegiato di esplorazione. Infine è disponibile l’Archivio e il Gioco creato in occasione della mostra.
“Caravaggio: una mostra impossibile” è una realizzazione del progetto “Un’Idea per la Campania”, un sistema intermediale nato per diffondere la conoscenza dell’arte e della cultura della Campania, nel suo svolgimento storico e nel tempo presente.
Dall’esperienza di questa prima mostra è scaturita l’idea di realizzare una collana di dieci-quindici “mostre impossibili” dedicata ai grandi maestri della pittura italiana ed europea oltre Caravaggio: Giotto, Paolo Uccello, Piero della Francesca, Duccio di Buoninsegna, Mantegna, Leonardo, Raffaello, Giorgione, Correggio, Michelangelo, Tiziano, Tintoretto, Caravaggio, Guido Reni, Giovan Battista Tiepolo.
Inoltre per una migliore conoscenza del contesto storico e culturale delle opere e degli artisti, questa collana di mostre sarà corredata da un apparato didascalico: multivisioni, documentari, film, audio-video guide personalizzate a raggi infrarossi, musiche attinenti ai dipinti, DVD, cataloghi, libri scritti ad hoc, siti Internet, rappresentazioni teatrali e programmi televisivi.
Il “museo impossibile” rappresenta un vero e proprio mezzo di comunicazione di massa per l’alto numero di utenti, un’alternativa rispetto alle mostre tradizionali dal momento che il costo degli allestimenti risulta fortemente ridotto: sono esclusi, infatti, i costi di assicurazioni, prestiti, trasporti speciali, sicurezza, condizionatori d’aria ecc.